Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Un drappello di uomini, poco più di un centinaio, manipola il mondo. Forse le loro competenze sono persino troppo raffinate per un’“epoca del pressappoco”: certo è che dal flusso delle merci si impadroniscono di quello del denaro, che fanno rimbalzare da un punto all’altro, da una piazza all’altra; si sono accorti che è assai meno rischioso, e costa meno, far viaggiare l’uno piuttosto che le altre. Per far “girare” il denaro non è necessario – come per il grano, l’olio o persino la seta o il pepe – intrattenere complessi rapporti con chi produce, pagar noli e provvedere ai trasporti assicurandosi dai pericoli, e poi riuscire a vendere un prodotto che si spera di ottima qualità e arrivato in buone condizioni. Far girare il denaro non è così incerto.
“Nel Cinquecento tutte le ferite guariscono”
A “far girare” le merci provvedono i mercanti, piccoli e grandi, che vedono nel Cinquecento rialzare i prezzi di molti beni, specialmente alimentari: il grano e i cereali “minori” ad esempio, in alcune aree dell’Europa, costano nel corso del secolo fino al 350 per cento in più. Questa crescita esponenziale è stata a lungo interpretata, in sede storiografica, come una “rivoluzione” conseguente al massiccio arrivo di oro e argento provenienti dalle miniere americane, in particolar modo quella peruviana di Potosì: le monete, infatti, valgono in primo luogo per il loro valore intrinseco. Le scoperte scientifiche, poi, dilatano la “produttività” dei giacimenti del Nuovo Mondo: Vanoccio Biringuccio ha inventato da poco il modo per separare il metallo dal minerale, utilizzando il mercurio. E le “nuove Indie” abbondano anche di mercurio.
Ma quando il denaro abbonda, perde di valore rispetto alle merci che, “necessariamente”, costano di più. Dal 1503 al 1650 affluiscono a Siviglia 20 mila (o, secondo le gazzette olandesi, 26 mila nel solo Cinquecento) tonnellate d’argento e d’oro, che da lì si riversano – trasformate in moneta o assemblate in lingotti – in Europa: e subito –sin dal contemporaneo Lopez de Gomara e successivamente Jean Bodin come pure i teorici della Scuola di Salamanca – si mette in relazione il rialzo dei prezzi con questa improvvisa ed inusuale abbondanza di metalli preziosi; il prezzo, si sostiene, è dato dalla relazione tra la massa monetaria, la sua velocità di circolazione e la quantità di beni prodotti. In realtà questa ipotesi “monetarista”, che ha condizionato gli studi fino alla metà del XX secolo, ha probabilmente sovrastimato la quantità di metalli preziosi arrivati e, soprattutto, ha troppo meccanicisticamente creato un nesso tra questa e le dinamiche della domanda e dell’offerta, sottostimando viceversa il rapporto con il coincidente aumento demografico. Le merci costano di più, invece, in primo luogo perché ci sono più bocche da sfamare.
La “rivoluzione” è stata dunque, in realtà, poco “rivoluzionaria” e la curva dei prezzi, come pure l’arrivo dei metalli preziosi, seguono non univoche, né uniformi velocità. E, giacché “nel Cinquecento tutte le ferite guariscono”, l’aumento – dei prezzi, della quantità dei metalli, persino della popolazione – certamente giova a qualcuno; in particolare, a un numero sempre più ristretto di operatori economici che fluttuano dall’una all’altra parte avviluppando in una ragnatela speculativo-finanziaria gli affari: i beni procacciatori di altri beni, il denaro messo alla continua ricerca di altro denaro.
“Dove il denaro fa il denaro”
Sotto le turbolenze di superficie di un mondo che si è fatto numericamente e geograficamente più grande, e nel quale la produzione e la distribuzione delle merci faticano a mantenere un equilibrio, scemano progressivamente – invece – gli impulsi competitivi: nel sempre più ristretto mercato del credito c’è spazio per il guadagno di tutti. La riconfigurazione della geografia economica non lo ha paralizzato, né reso plurale: al contrario, quanto più si allargano i mondi e chi li abita, e la produzione e i consumi si affaticano, tanto più quello del denaro si fa piccolo, elitario e ben organizzato. È l’alba del capitale che utilizza la moneta non solo come strumento per il commercio ma, vieppiù, come oggetto di accumulazione, sostegno al potere e potere essa stessa.
D’altra parte, il cambio di flussi monetari che si incunea nel circuito commerciale – specie se coniugato alle crescenti esigenze di re e repubbliche – produce una finanziarizzazione dell’economia che si riverbera nella sua stessa organizzazione: è necessario svincolarsi dalle esigenze delle merci per guardare ai bisogni del potere politico con obiettivi esclusivamente ed intrinsecamente speculativi. Il denaro, cioè, da intermediario degli scambi vira fino a smaterializzarsi, diventando non solo cambiale ma “moneta aerea” dalle importanti ricadute economiche: serve a condizionare principi e re, a rompere alleanze, a costruire, a sedare o suscitare rivolte, a eleggere imperatori. Nel contempo, l’esistenza di uno spazio monetario e finanziario internazionale unificato da mercanti-banchieri – con una capitale comune e una stessa semantica, non competitivo al proprio interno quanto piuttosto coeso nello sfruttare a proprio vantaggio ogni oscillazione, ogni turbolenza e ogni esigenza –non viola lo spazio della politica: semmai, la rafforza e la rilancia in una fase di sostanziale espansione sia dell’economia, che degli Stati.
I mercanti-banchieri, per la verità, ci sono da tempo e spesso i migliori sono italiani: ancora oggi, Lombard Street è il cuore della City; hanno progressivamente perfezionato le tecniche contabili e redatto manuali di mercatura. Quel che rende diverse, però, le reti di affari cinquecentesche da quelle del passato è in primo luogo la costituzione di un sistema integrato – contabile, monetario, finanziario – al fine di governare, protagonista silenzioso e solerte, il mondo. Non si tratta più, come era accaduto ad esempio con Francesco Datini, di un banchiere regionale operante in uno scenario internazionale per un particolarismo aziendale, quanto piuttosto, e viceversa, di uno scenario internazionale in cui operano, in alleanza e fiducia reciproca, pochi banchieri privati: un network che muove – con regole certe e ineludibili, pena la sconfessione e la sanzione interna – una vertigine di denaro: fino a 20-25 milioni di scudi d’oro ogni tre mesi, in ogni “fiera”.
“Quelli che contano” si riuniscono infatti – con un sistema gerarchico di vasi comunicanti, ciascuno disciplinato al proprio interno e in relazione con il resto, coinvolgendo anche banche e monti di pietà della “madrepatria” –in tempi e modalità predefiniti da un pignolo formalismo di natura sia finanziaria che contabile, all’interno di una zona comune di speculazione e arbitraggio, le “fiere”, che da luogo di contrattazione di merci diventano progressivamente lo spazio dove per otto giorni – a Pasqua, ad agosto, a Ognissanti e all’Epifania – il guadagno è dato dal “certo” per l’“incerto”, il “denaro fa il denaro”. Sono il palcoscenico –Lione e Anversa, ma soprattutto Bisenzone e poi Piacenza e la “quasi senza luogo” Novi – della “repubblica internazionale del denaro”; qui gli interessi ramificati e diversificati trovano comun denominatore, compensazione e affare monetario, cambiario e finanziario mediante l’inflessibile disciplina del calendario, la precisione e l’affidabilità degli operatori, la reciprocità, l’estesa rete informativa che si coniuga con una rigorosa riservatezza e produce – con raffinatissime tecniche contabili e, dal 1533, con una moneta di conto (lo scudo di marco) interna non più definita in rapporto all’oro ma alla lira tornese –un ammasso di capitale al servizio degli Stati e di chi li governa. Ma, soprattutto, al servizio di se stesso.
“Il secolo dei Genovesi”
Il palcoscenico della “repubblica internazionale del denaro” ha pochi attori e, quanto più aumenta la specializzazione e il volume degli affari, tanto più il numero di protagonisti collassa. D’altra parte, per gli affari grandi davvero è necessaria una selezione più grande.
Quel che conta è, in primo luogo, una sostanziale capacità di egemonizzare il mondo degli investimenti, spingendoli nella direzione più consona alle aree di interesse e alle specializzazioni merceologiche: come, peraltro, avevano compreso – e attuato – i Fiorentini e i Veneziani che già da tempo stavano speculando tra i luoghi, gli operatori e i beni; i gruppi mercantili della Germania meridionale, come già nel Quattrocento, attraverso Venezia continuano ad esportare la produzione tessile e i metalli, acquistando spezie e materie prime del Levante, mentre il crollo della Banca dei Medici, nel 1494, trascina con sé Bruges e mostra quanto il mondo economico non si fermi entro i confini politici e sia un sistema integrato e, ora, più ampio e complesso.
Ma è anche evidente una rarefazione delle capitali finanziarie e degli operatori: i “cittadini” della “repubblica internazionale del denaro” sono un manipolo di uomini che si sposta da una piazza all’altra riducendo al minimo i movimenti di denaro fino a farli scomparire del tutto, camuffando gli interessi che ne derivano – specie dopo il “decretale” di Pio V, nel 1571, che ne conferma il divieto – nel gioco dei cambi e nelle compensazioni, facendo rimbalzare le “tratte” in un unico network che lancia e rilancia con un ritmo ciclico e puntuale, sicuro ed immancabile e fondato sulla credibilità e la complementarietà reciproca. All’interno della “repubblica” non c’è spazio per i declassamenti, per le resistenze ai cambiamenti, per i sostanziali invecchiamenti economici che si coniugano alla progressiva perdita dei monopoli e all’incapacità, talvolta, di riconvertire alleanze rivelatesi fallimentari come accade all’ingombrante Venezia: l’andatura è quella di un’economia speculativa nella quale le parti sono gerarchizzate con assoluta determinazione in una rete che persegue il comune obiettivo dell’interesse per l’interesse.
Certo, in questo migrare dei gangli si alternano anche le fortune e si volgono ora i costi di transazione, ora le merci, ora i luoghi: così, allo Champagne si sovrappone Lione, a Bruges sussegue Anversa. Ma è il drappello di uomini che si sposta nella ragnatela di interessi, e nel disegno che compongono, negli spazi che gerarchizzano, la “matrice ultima” dell’economia cinquecentesca e la sua camera di compensazione: cittadini della “repubblica” che, perseguendo obiettivi comuni e trasformando le alleanze momentanee in vincoli reciproci, manipola e mette a sistema, con il proprio, il mondo. Nella “repubblica internazionale del denaro” gli spazi delle “nazioni” si intersecano senza elidersi perché la “repubblica” è sempre unica: Anversa è popolata di mercanti e banchieri italiani e i banchieri tedeschi (Fugger, Welser, Kleberg, Tucher) devono la loro fortuna al commercio con Venezia, oltre che alla capacità di sfruttare i giacimenti minerari ottenuti grazie ad accorti prestiti. E poi, le fiere sono le stesse.
Ma la scenografia degli affari del XVI secolo la scrivono sempre più e poi definitivamente le famiglie di Genova: i Doria e gli Spinola, i Grimaldi, i Centurione, i Pallavicini, i Lomellini, i Cybo, i Fieschi. Nel Cinquecento sembra riuscirgli proprio tutto: sono ovunque e in ogni cosa. Progressivamente, smettono anche di litigare tra loro e, a partire da una Repubblica che funge insieme da scenario e da motore, diventano i protagonisti del secolo che porta il loro nome; assimilano e rilanciano la lezione del “capitalismo mercantile”, ritmano e determinano il sistema rendendolo un meccanismo fluido articolato nei poli, ossia le fiere, che avvicinano sempre più: da Bisenzone le portano a Piacenza, e poi fin “dentro casa”, a Novi. E, all’interno del circuito, ognuno dei gangli – siano essi uomini o luoghi – ha un ruolo diverso ma interrelato, e collegato comunque dai movimenti asimmetrici che compiono in una zona dall’incerta territorialità ma dalle certe, e proficue, strategie: gli “sconfinamenti” sono sempre funzionali, nel mosaico che compongono gli “hombres de negocios”.
Sullo sfondo, una Repubblica – quella di Genova – che non si sovrappone a quella del denaro; anzi, nel sembrare farsi piccina e cornice, raccoglie, ingloba, connette e amplifica il respiro. Un capitale speculativo e finanziario, quello dei Genovesi, messo al servizio del mondo per governarlo; due repubbliche, quella del denaro e quella Superba, raccordate ed esponenzialmente indirizzate al massimo guadagno possibile. Il singolo è funzione vigile e attenta di un tutto ricondotto all’interesse individuale, ossia –anche e comunque – familiare che ne costituisce il fine ultimo e il principio; viceversa, il sistema funziona senza scosse e turbolenze che non siano riconducibili ad un guadagno persino maggiore di ogni singolo componente: le famiglie di Genova, gli “hombres de negocios” genovesi diventano il “sismografo ultrasensibile” e la ragnatela che avviluppa e irretisce l’economia e il mondo. Soprattutto, spostar capitali da un punto all’altro e guadagnare non ha rischi di impresa: in un affare sempre più interno e “familiare”, nel rarefarsi della concorrenza proporzionale all’acquisizione naturale del monopolio – ché nessuno è raffinato e sapiente e competente e onnipresente e informato e credibile come loro – basta aspettar tre mesi e arriva da sé. Il mondo del pressappoco, nel rutilante “secolo dei Genovesi”, è un pluridimensionale universo di precisione volto a fini di interesse e guadagno.