Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ciò che la trattatistica musicale deliberatamente tralascia in tutte le fasi del suo articolarsi nell’ambito del millennio che include l’età medievale è l’aspetto della musica come prassi. Come è stato sottolineato più volte negli studi qui dedicati alla musica, l’opera dei teorici è prevalentemente orientata a sviluppare l’idea di musica come scienza speculativa, i cui oggetti di studio sono la matematica musicale, la musica del cosmo, i mitici inventori dell’arte dei suoni, mentre la musica concreta verrà quasi sempre indicata come “canto”, nel caso di musica vocale, e “sono” per la musica strumentale. Se raramente i trattati musicali ci danno notizie sulla prassi quotidiana, riguardo a questo aspetto, invece, le fonti letterarie offrono importanti indicazioni, al fine di ricostruire comportamenti e idee legati a quest’arte.
Tra i generi letterari maggiormente frequentati nel Medioevo, la narrativa ispirata al ciclo arturiano, in versi e in prosa – tra i primi esempi, in Occidente, di letteratura di intrattenimento –, presenta alcuni interessanti richiami alla musica, riferiti in particolare alle vicende di Tristano e Isotta. Tristano, oltre a essere un valente cavaliere, è istruito nelle arti del trivium e del quadrivium, conoscitore di molte lingue, abile cacciatore, impareggiabile giocatore di scacchi, ma soprattutto creatore di versi che egli stesso interpreta sull’arpa. Giunto in Cornovaglia alla corte di re Marco, sotto il falso nome di Tantris, egli si fingerà giullare; alcune miniature inglesi lo rappresentano nell’atto di suonare, riprendendo modelli iconografici derivati dalla figura di re David. Non solo Tristano si diletta di musica e compone canti: lo fanno anche Isotta – che apprende l’arte del trobar dal suo amato –, Kahedin, Palamedes e altri personaggi. In un tipo di produzione letteraria che ha il merito di promuovere e guidare l’educazione sentimentale dell’intera Europa medievale – che contrasta i valori della nascente borghesia rifugiandosi negli ideali del superato mondo feudale e cortese –, il ritratto del nobile magnanimo, combattente coraggioso ma, allo stesso tempo, amante delle arti e del vivere conviviale, va ad anticipare gli scritti assai più tardi di Machiavelli e Castiglione sul perfetto principe e “cortegiano”.
Nel rimando alla musica, di cui è ricca la letteratura epico-cavalleresca (si ricordi che alcuni documenti in prosa includono versi destinati a essere cantati e che il ms. 2542 della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, che trasmette una versione del Roman de Tristan, è persino corredato di notazione musicale), v’è pure una valenza autoreferenziale, poiché la diffusione, anche orale, delle chansons de geste, avviene per opera dei cantori erranti che si esibiscono nelle corti e sulle piazze accompagnandosi su uno strumento.
La musica, tuttavia, non si connota solo in senso individuale e intimistico ma, all’epoca, riveste un importante ruolo pubblico: questa finalità si riflette ugualmente nella produzione letteraria. Nei vari romanzi cortesi ricorrono, infatti, descrizioni che, per quanto stereotipe, sono specchio fedele di una realtà in cui la musica, come altre manifestazioni quali lo sfarzo di vesti e arredi, o la quantità e varietà delle vivande, è espressione della potenza e della magnificenza dei signori o di altre istituzioni di governo.
Più simile alla funzione rivestita nel romanzo cavalleresco, in cui interviene spesso a sottolineare momenti introspettivi, la musica si appropria di un ruolo preponderante in un altro genere letterario assai apprezzato: il poema allegorico.
Appartengono a questa categoria l’anonimo Roman de la Rose ou de Guillaume de Dole – testo duecentesco il cui successo, tuttavia, si estese anche al secolo successivo –, ma si vogliono qui citare anche due opere di Guillaume de Machaut particolarmente significative per il rilievo attribuito ai suoni: Le voir dit (1360-1363) e il Remede de Fortune (1342 ca.). In quest’ultima opera, soprattutto, che ci è pervenuta completa di musiche composte dallo stesso autore, al canto è affidato il compito di chiarire o amplificare i gesti interiori dei personaggi e, fatto ancor più singolare, di svelare perfino l’esito della vicenda narrata, laddove proprio la parola rimane, a questo proposito, ambigua.
Il poema allegorico per eccellenza è, tuttavia, la Commedia dantesca (1304 ca. 1321), capolavoro che non si propone soltanto come narrazione fantastica, o come metafora dell’ itinerarium mentis in Deum, ma anche come compendio dello scibile umano.
Nel poema dantesco suggestioni sonore e visive hanno sempre il compito di rafforzare l’efficacia narrativa. Così nell’Inferno, rappresentato come luogo dell’oscurità e del rumore, l’unico strumento a suonare è il corno di Nembroth, e le uniche voci udibili sono le grida e i pianti dei dannati. Alla luminosità del Paradiso, per contro, si accompagneranno canti e suoni talmente soavi da non poter essere tenuti a mente, e quindi nemmeno descritti. Nella Commedia, tuttavia, la musica non solo è presente all’interno dell’azione narrativa, ma ricorre spesso anche in virtù della costante attitudine dell’autore a procedere poeticamente per metafore. Così l’esperienza concreta della pratica musicale suggerisce immagini assai vivide, come quella del liutista che accompagna il cantore, per descrivere le fiammelle congiunte di Traiano e Rifeo (Par., XX, 142-4); del canto polifonico – in cui la voce superiore compie i suoi melismi mentre quella del tenor intona suoni più prolungati – per rappresentare il movimento delle anime (Par. VIII, 17-20); o dei passi che compiono le donne quando danzano, senza quasi sollevare il piede da terra, per tratteggiare l’incedere tra i fiori di Matelda (Par., XXVIII, 52-6).
Ma il canto in cui la musica assume un ruolo centrale è il secondo del Purgatorio, in cui il Poeta incontra l’amico musicista Casella e gli chiede di intonare per lui Amor che nella mente mi ragiona. In un sapiente intreccio di citazioni e nella perfetta costruzione di tutta l’azione narrata – in cui i penitenti, prima di accingersi a salire al “sacro monte”, si arrestano ad ascoltare il suono della voce di Casella –, la commozione destata negli spiriti dall’ascolto musicale si lega alla nostalgia del corpo che hanno da poco abbandonato e, per esteso, di tutte le gioie terrene.
A pochi anni dal compimento del poema dantesco, la letteratura esegetica a esso riferita comincia a svilupparsi come filone letterario particolarmente fecondo. Al primo commento di Jacopo Alighieri seguiranno, nel medesimo secolo, quelli di Graziolo de’ Bambaglioli, Jacopo della Lana, Guido da Pisa, Andrea Lancia, Giovanni Boccaccio; per dirne solo alcuni. Questa produzione non si ferma quasi mai alla mera interpretazione ma, su molti aspetti del sapere medievale, interviene autonomamente, con ampie digressioni ed esempi, presi indistintamente dalla vita quotidiana, così come dagli scritti di auctoritates del passato (Sacre Scritture, Padri della Chiesa). I commentatori danteschi, rapportando ogni riferimento musicale presente nella Commedia alle loro conoscenze, o al loro vissuto, divengono una fonte inesauribile di informazioni sul pensiero musicale della loro epoca. Allo stesso modo, sono stati interrogati i commenti all’ottavo libro della Politica di Aristotele, quello in cui il filosofo discorre della moralità della musica e dei suoi effetti sull’animo umano.
Non si può parlare di musica e letteratura senza far riferimento alla più nota raccolta di novelle del nostro Trecento: il Decameron (1348-1353). Quest’opera, come è noto, narra del soggiorno di dieci giovani fiorentini – tre donne e sette uomini – rifugiatisi in campagna per sfuggire alla peste.
Ai fini di un’indagine sul costume musicale, la cornice in cui si inserisce la narrazione – ossia gli svaghi nei quali si intrattiene l’“onesta brigata” –, risulta altrettanto importante del contenuto narrativo in senso stretto. I tempi del racconto sono infatti scanditi da occupazioni conviviali quali la danza, la musica strumentale, il canto solistico o accompagnato (anche a fini coreutici), alla cui descrizione sono spesso unite le citazioni di titoli o versi di brani musicali all’epoca assai noti.
Di struttura simile al Decameron è anche Il Paradiso degli Alberti di Giovanni Gherardi da Prato; un testo che, benché scritto all’inizio del Quattrocento, descrive la vita culturale fiorentina negli ultimi anni del secolo precedente; tra gli artisti e gli intellettuali che vi figurano, compare anche il musicista Francesco Landini o “degli Organi”.
Come già accennato all’inizio, bisogna rilevare che notizie sulla musica e sui molti ruoli da essa rivestiti all’interno della società medievale, si possono reperire in scritti di vario genere, non necessariamente di genere narrativo.
Cenni sulla funzione pubblica della pratica musicale si trovano, talvolta, nelle numerose cronache cittadine che hanno grandissima fioritura in epoca medievale, laddove vengono descritti, per esempio, apparati per solennizzare festività civili o religiose. Così come sillogi di carattere legislativo possono risultare interessanti nello studio della regolamentazione dei comportamenti legati alla pratica musicale: ci riferiamo in particolare alle normative a carattere suntuario introdotte negli statuti di molte città; oppure alle leggi sul coprifuoco che, riguardando il divieto di andare per strada di notte, andavano anche a disciplinare attività conviviali non autorizzate.
Interessanti testimonianze legate ai suoni e al loro effetto sulla mente umana e sul corpo sono presenti, infine, in tutta la letteratura di argomento medico, dalle glosse al Canone di Avicenna (ad opera di Pietro d’Abano, Gentile da Foligno, Jacopo della Torre), a più modesti scritti di erbologia o farmacopea quali, per esempio, i cosiddetti Tacuina sanitatis. Tutte queste trattazioni si soffermano sui benefici che la musica può recare alle persone malate, ma anche all’azione positiva esercitata da tutte le attività musicali, compresa la danza, al fine di condurre una vita sana ed equilibrata.