La questione della liberta religiosa in Italia dalla reviviscenza concordataria del decennio freddo al dibattito conciliare
Gli studi sulla libertà religiosa si sono tradizionalmente situati al crocevia tra riflessione politica, giuridica, teologica, filosofica e le ricostruzioni storiche di determinati segmenti cronologici in cui il problema della tolleranza/intolleranza religiosa e dello statuto giuridico delle diverse confessioni religiose si è presentato con particolare acutezza1. Anche relativamente al segmento di storia italiana preso in considerazione, a più riprese e in varie sedi è stata posta l’attenzione sul poliforme intreccio tra dati giurisprudenziali, storici, politici e culturali che variamente, ma inevitabilmente, media e condiziona la costruzione e interpretazione delle norme in materia di rapporto fra Stato e confessioni religiose. In questa prospettiva, obiettivo del presente contributo è essenzialmente quello di mettere a fuoco alcune delle dinamiche operative in un’area – quella cattolica – in cui tale meccanismo di intersezione è apparso senz’altro ben marcato e, negli anni considerati, sicuramente rilevante, cercando di tenere contestualmente presenti il piano della fattualità storica e quello delle strutture mentali che influirono sul congelamento delle potenzialità lasciate aperte dal disegno costituzionale in tema di diritti relativi alla materia religiosa.
Si tratta, com’è noto, di un tornante nel quale si assiste a un anomalo consolidamento del Concordato attraverso una puntuale ed estensiva applicazione delle clausole dello stesso e a un processo di sostanziale evasione costituzionale che preserva a una controversa interpretazione dell’articolo 7 della Costituzione una sorta di supremazia nella gerarchia delle fonti, lasciando del tutto inevaso il problema della scarsa omogeneità tra la struttura formale di questo articolo e le altre norme costituzionali afferenti alla problematica religiosa. Di un tornante, ancora, nel quale agli sforzi dei rappresentanti delle minoranze religiose per mettere sul tappeto il problema della permanente operatività delle disposizioni emanate in materia ecclesiastica durante il ventennio fascista continuano ad alternarsi gli allarmismi di diversi esponenti dell’episcopato italiano per la ripresa della propaganda protestante. Per tutto il ‘decennio freddo’ la tradizione di studi, assai consolidata in Italia, riconducibile al filone del diritto pubblico ecclesiastico continua infatti a fare sentire il suo peso nell’elaborazione degli schemi, concettuali e operativi, con cui considerevoli e autorevoli settori del mondo cattolico affrontano la questione dello statuto giuridico delle minoranze religiose; schemi che a loro volta, coniugandosi con l’eredità di una prassi amministrativo-giurisprudenziale segnatamente discriminatoria quale quella fascista, non mancano in questi anni di influire sulla gestione delle questioni afferenti la problematica religiosa, non senza ripercussioni sui nuovi equilibri imposti dall’alleanza atlantica.
Allo schiudersi degli anni Cinquanta non era trascorso molto tempo dal dibattito costituente, ma i mutamenti nel frattempo intervenuti nel panorama politico interno e nel più ampio scenario internazionale – il sostanziale accantonamento del patto sociale e politico che aveva retto la Resistenza, la scelta repubblicana e la redazione della Costituzione, la clamorosa vittoria elettorale della Dc nell’aprile 1948, la scomunica dei comunisti nel 1949, l’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico – hanno una certa, indiretta ma puntuale, ricaduta anche sulle soluzioni raggiunte in sede costituente nell’ambito della politica ecclesiastica. Il progressivo ingessarsi delle dinamiche interne e internazionali determina infatti anche un rapido ibernamento delle potenzialità che il disegno costituzionale, nel suo complesso, aveva lasciato aperte in tema di diritti afferenti la sfera religiosa. Con il mutare degli scenari complessivi, il problema della libertà religiosa diventa cioè progressivamente un problema ‘congelato’ dalla sempre più egemonica e ufficiosa tesi che il secondo comma di tale articolo – quello contenente il riferimento ai Patti Lateranensi – avesse in realtà offerto una guarentigia di costituzionalità a tutti i contenuti specifici degli stessi. Rispetto alle permanenti perplessità nei confronti dei risultati della stagione costituente, la grande affermazione elettorale del partito cattolico nell’aprile 1948 ebbe in altri termini un indubbio effetto rassicurante su significativi e autorevoli ambienti ecclesiastici, nella misura in cui ne riaccese la speranza in una limitazione del valore e della portata di quelle istanze del dettato costituzionale non conformi alle aspettative di uno sviluppo in direzione confessionale della società italiana del dopoguerra. Il grande consenso cattolico sembrò infatti inaugurare una nuova fase, carica di possibilità per la realizzazione concreta di una forma statuale più vicina alla tradizionale ‘tesi’ cattolica del supremo principio dei diritti esclusivi della verità e della trasposizione di quest’ultimo nell’istituzione legale dell’unica religione di Stato. Contestualmente alla fine della collaborazione tripartita e alla progressiva trasformazione del confronto politico in una sempre più radicale contrapposizione ideologica, la pluralità delle interpretazioni e delle aspettative che avevano accompagnato l’accordo sull’articolo 7 subisce, per così dire, un rapido filtraggio, che opera in direzione dell’individuazione in tale norma dell’asse centrale dell’intero sistema di relazioni Stato-Chiesa/e cui subordinare la disciplina complessiva del fenomeno religioso.
Strumento di punta del complessivo disegno pacelliano di una riconquista cristiana della collettività sociale, nella prima metà degli anni Cinquanta «La Civiltà cattolica» rappresenta senz’altro la voce più interventista sull’insieme delle problematiche connesse al tema del pluralismo confessionale. Già autorevole portavoce dei desiderata della Santa Sede nei confronti dell’Assemblea costituente, per tutta la metà del decennio la rivista gesuita da un lato esprime e alimenta, infatti, le forti apprensioni per la riflessione avviata da diversi autori cattolici sulla tolleranza nella moderna società pluralista e sulle modalità di un superamento del tradizionale dualismo tesi/ipotesi; dall’altro si fa interprete delle disillusioni vaticane sugli effetti a breve termine del definitivo ancoraggio atlantico dell’Italia e delle impazienze per una reinterpretazione in chiave cattolico-nazionale della Costituzione. Con puntuale alternanza, specialmente nel biennio 1950-1952, vengono in particolare pubblicate senza soluzione di continuità due distinte e nutrite serie di articoli: una prima serie, del padre Salvatore Lener, che intendeva offrire una completa e corretta esegesi di tutte le norme costituzionali relative alla materia ecclesiastica fornendo un «tempestivo contributo alla rettificazione di certe storture»2; una seconda serie, del padre Antonio Messineo, dedicata invece a una severa disanima e sistematica confutazione delle tesi di «certi moderni patrocinatori dello Stato laico, che, persino dalle file cattoliche, lanciano pietre contro le istituzioni definite medievali e retrograde, che congiunsero i due poteri [della Chiesa e dello Stato] in una comune opera»3.
Siamo evidentemente in una fase in cui le rigidezze connesse al conflitto ideologico internazionale negli anni più aspri del confronto bipolare vengono a coincidere con irrigidimenti di altro segno sul versante magisteriale che investono la globalità del mondo cattolico nella diversità delle sue espressioni. Nell’agosto 1950 l’enciclica Humani generis pone in particolare un brusco freno alle molteplici istanze di rinnovamento della nouvelle théologie d’Oltralpe e alle speranze di apertura sopravvissute alla condanna del modernismo di quasi mezzo secolo prima. Pur non arrestando i diffusi fermenti teologici del dopoguerra, essa colpisce infatti una considerevole pluralità di ambiti: da quello biblico a quello liturgico, da quello patristico a quello della teologia del laicato, da quello ecumenico a quello infine – a esso strettamente connesso – delle avviate riflessioni volte a un superamento della nozione classica di tolleranza e a un ripensamento complessivo delle coordinate tradizionali con cui tutta la problematica dei rapporti Stato-Chiesa veniva impostata. È allora su questo punto che i tempi dell’ipertrofico dibattito italiano sulle conseguenze della mutata posizione giuridica deiPatti Lateranensi, in virtù del nuovo ordinamento costituzionale, si intersecano e si sovrappongono ai tempi più lunghi di un confronto tra valutazioni talora nettamente opposte degli sviluppi politici, sociali e culturali che avevano prodotto il mondo con cui la Chiesa sembrava in questo momento non avere alcuna intenzione di dialogare.
L’elemento di innesco delle nuove elaborazioni cattoliche – essenzialmente di matrice francese e statunitense – che costituiscono il bersaglio senza nome dei numerosi articoli del padre Messineo fino al noto, diretto j’accuse a carico di Jacques Maritain nel 1956, era stato in prima istanza la stessa disastrosa esperienza della Seconda guerra mondiale e dei totalitarismi che l’avevano preceduta. L’individuazione, da parte delle Nazioni Unite, di una delle condizioni essenziali per l’effettivo decollo di uno stabile ordine mondiale proprio nel rispetto del diritto alla libertà religiosa non poté infatti mancare di interpellare in vario modo le diverse comunità politiche ed ecclesiali, tutte messe inevitabilmente in discussione dalle nuove condizioni di una società sempre più pluralista. Nel 1945 la ricognizione di una commissione ad hoc istituita dal Consiglio ecumenico delle Chiese sulle situazioni di fatto relative al problema della libertà religiosa nei diversi contesti geopolitici ebbe in particolare una risonanza vasta e immediata non soltanto in ambito protestante, ma anche in alcuni ambienti cattolici. Il gesuita John Courtney Murray, professore di teologia dogmatica al Woodstock College di Washington, vi dedicava in particolare un ampio commento sulle pagine della rivista «Theological Studies» e al contempo offriva anche una prima interessante panoramica sui vari aspetti della questione che avrebbe poi sviluppato in maniera più sistematica in una serie di articoli apparsi fra il 1948 e il 1955, fino al momento, cioè, della severa censura romana nei confronti delle sue pubblicazioni. Nel nuovo clima ecumenico che l’esperienza della guerra e della cooperazione intracristiana aveva notevolmente contribuito ad alimentare, la ricorrente accusa di intolleranza e di machiavellico ‘opportunismo’, mossa dai protestanti per la tradizionale oscillazione della Chiesa romana tra la rivendicazione di una piena parità di culto nei paesi del cristianesimo minoritario e la negazione di ogni diritto alle minoranze religiose nei paesi a grande maggioranza cattolica, diventava infatti sempre più un motivo di profondo disagio per molti ambienti cattolici. In contesti diversi e con prospettive spesso assai differenti si avviò così un ripensamento delle coordinate con cui tutta la questione dei rapporti Chiesa-Stato e quella, a essa connessa, della tolleranza religiosa erano state tradizionalmente impostate, soprattutto negli interventi magisteriali della seconda metà del XIX secolo. La ‘scuola’ tragica della guerra e l’esperienza della partecipazione ai movimenti resistenziali, che aveva messo molti cattolici di fronte alla necessità di ‘disobbedire’, aveva inoltre sollecitato in altri autori una maggiore attenzione alla dimensione coscienziale della scelta individuale, veicolando una nuova riflessione sulla distinzione fra momento oggettivo e soggettivo nella ricerca della verità e quindi sulla tolleranza come forma di rispetto della soggettività, della natura libera dell’atto di fede, nonché come espressione di un sano realismo connesso a una maggiore sensibilità per le mutate condizioni della società moderna.
Parte determinante del complessivo impegno di rilancio, da parte de «La Civiltà cattolica», di quella ‘tesi’ tradizionale che sembrava cominciare ad affermarsi in qualche modo nella Spagna franchista, mentre tardava invece a realizzarsi proprio nel paese che doveva costituirne il principale centro propulsore e banco di prova, la sistematica confutazione di Messineo e delle elaborazioni di alcuni «scrittori cattolici di buona fama», sorprendentemente schierati «in favore dei così detti principi dell’‘89»4, forniva la cornice di fondo all’interno della quale si situavano allora anche le impazienze della rivista per le lentezze democristiane che ancora non erano riuscite a ridurre i margini delle diverse manifestazioni di pluralismo, religioso e politico, nell’Italia del dopoguerra. Per l’influenza esercitata negli ambienti del cattolicesimo politico italiano, così come in una parte consistente dell’Azione cattolica, allo schiudersi degli anni Cinquanta erano soprattutto le tesi maritainiane a essere oggetto di particolare preoccupazione per rilevanti settori ecclesiastici; per «La Civiltà cattolica», come per i teologi del Sant’Uffizio e per il primo embrionale organo collegiale dell’episcopato italiano, l’assemblea dei presidenti delle diverse regioni ecclesiastiche, il ‘maritainismo’ rappresentava infatti una sorta di termine ‘contenitore’, cui ricondurre la pericolosa miscela di aperturismi di diverso segno che, sia sul piano propriamente dottrinale, sia su quello più contingente della politica, mettevano a repentaglio la realizzazione della ‘tesi’ di una restaurazione cristiana della società. Certamente, dietro i generalizzati allarmismi antimaritainiani di buona parte degli anni Cinquanta da parte dell’episcopato italiano c’è da leggere l’ossessiva preoccupazione per la crescente diffusione degli scritti del filosofo francese, visti come elemento veicolare di un allentamento della percezione di un senso di diretta dipendenza dalle direttive della gerarchia sul terreno dell’azione e della prassi politica.
La dura sconfessione della distinzione tra temporale e spirituale da parte de «La Civiltà cattolica» va dunque letta all’interno di questa cornice in cui timori più schiettamente legati alle dinamiche della politica interna italiana si coniugano inestricabilmente con il fermo ancoraggio a una visione monolitica e giuridicista della cattolicità. L’esplicito attacco all’autore di Umanesimo integrale veniva d’altra parte introdotto contestualmente alla puntuale confutazione dell’asserzione della parità giuridica di tutti i culti. In questo senso esso si accompagnava significativamente alla stigmatizzazione dei tentativi, avviati in particolare dal teologo nordamericano John Courtney Murray, di operare delle distinzioni tra le verità eterne e le loro formulazioni storiche; distinzioni che, nell’universo concettuale di Messineo e degli ambienti che ne condividevano la visione, rappresentavano la pericolosa introduzione di un cavallo di Troia nella fortezza dogmatica di un sistema cattolico percepito come perfetto e assoluto. In tale prospettiva, quanti tentavano l’applicazione del criterio storicista alla tradizionale dottrina cattolica in materia di libertà religiosa e di relazioni Chiesa-Stato non si accorgevano del pericolo immanente al principio evoluzionistico della storia, che, se applicato in tutta la sua estensione e in modo conseguente e logico, minacciava di scuotere dalle fondamenta l’intero edificio del pensiero cattolico.
Timori per l’ortodossia e preoccupazioni più direttamente legate al piano delle concrete opzioni politiche formavano dunque spesso un tutt’uno nelle reiterate riasserzioni della perenne validità di una ‘tesi’ cattolica che, nella globalità di tutte le sue implicazioni, non poteva ammettere linee di fuga. Quanto queste confutazioni delle nuove elaborazioni di Murray e di Maritain – ma anche di Yves Congar, Robert Roquette, Jean Leclercq, Max Pribilla e altri – fossero ben lungi dall’esaurirsi in un dibattito meramente accademico, ma risultassero invece strettamente connesse alle più concrete dinamiche politiche in atto in alcuni paesi, risulta evidente sia dalla frequente risoluzione della più tradizionale proposta dello Stato cattolico in quella di uno Stato ‘forte’ che in Italia limitasse lo spazio politico delle sinistre – soprattutto nell’imminenza delle elezioni politiche del 1953 –, sia dall’autorevole asserzione della bontà del sistema delle leyes fundamentales inaugurato da Franco, da parte del pro-segretario del Sant’Uffizio, il cardinale Alfredo Ottaviani, nell’ultima fase delle trattative tra il Vaticano e la Spagna per la stipulazione del nuovo Concordato firmato nell’agosto 1953. Il noto discorso sui Doveri dello Stato cattolico verso la religione, tenuto da Ottaviani all’Ateneo lateranense il 2 marzo 1953 alla presenza di una cospicua rappresentanza diplomatica e di alcuni esponenti governativi, non rappresentava infatti soltanto una solenne riaffermazione della validità dei principi tradizionali di un diritto pubblico ecclesiastico ancora imperniato sulla teoria della potestas indirecta in temporalibus, ma voleva essere anche un plaidoyer per l’accelerazione di un accordo ‘modello’ che riconoscesse esplicitamente alla Chiesa il carattere di società perfetta e pienamente sovrana. Rispondendo alla classica obiezione di machiavellico opportunismo della Chiesa in un modo che provocò l’indignazione della stampa protestante e le immediate rimostranze delle rappresentanze diplomatiche francesi e statunitensi – «Ebbene, io sostengo che appunto due pesi e due misure sono da usarsi: l’uno per la verità, l’altro per l’errore» – e stigmatizzando gli errori dottrinali che in materia di libertà religiosa e di relazioni Chiesa-Stato stavano diffondendosi in alcuni ambienti cattolici europei e statunitensi, Ottaviani si faceva quindi anche interprete, nell’agitato periodo che in Italia precede la scadenza della prima legislatura, delle istanze di determinati ambienti romani per una più decisa caratterizzazione in senso anticomunista del governo e della Dc e per un ridimensionamento dell’‘attivismo’ protestante di cui si era iniziato a denunciare la ripresa per la presenza di missionari statunitensi al seguito delle truppe alleate nelle regioni meridionali; sebbene la legislazione italiana concedesse a suo giudizio ai culti acattolici «ben più assai della semplice tolleranza», questi ultimi non apparivano infatti soddisfatti e, col sostegno dei comunisti – «zelantissimi della propaganda protestante in Italia e contrarissimi ad ogni propaganda religiosa nei paesi del sipario» –, pretendevano anzi «andare oltre le leggi e contro le leggi» infrangendo l’unità religiosa dei popoli cattolici5.
Con i riferimenti all’eccessiva liberalità della legislazione italiana nei confronti dei culti acattolici e al pericoloso ‘connubio’ fra protestantesimo e comunismo, Ottaviani entrava direttamente nel merito dell’acuto contenzioso diplomatico accesosi fra Italia e Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta sulla questione dei diritti dei protestanti americani. Costante crux nelle relazioni fra i due paesi per tutta la prima metà del decennio successivo, esso aveva in particolare sullo sfondo divaricate interpretazioni dell’articolo 15 del Trattato di pace – con cui l’Italia si impegnava ad assicurare a tutte le persone rientranti nella propria giurisdizione il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali – e dell’articolo 11 del Trattato di amicizia, commercio e navigazione, entrato in vigore nel luglio 1948, sulla garanzia delle libertà di coscienza e di culto per i cittadini dei due paesi nei rispettivi territori nazionali. Ma soprattutto il richiamo di Ottaviani si inseriva nel solco della rinnovata allerta della Santa Sede per un ‘pericolo protestante’ calmierato nell’Italia fascista dalla repressiva applicazione della legislazione del 1929-1930, ma nuovamente riemerso, negli anni tragici dell’Italia divisa, per l’oggettiva impossibilità di una sistematica applicazione delle disposizioni sui culti ammessi e per l’arrivo nel paese, assieme al contingente militare statunitense, di nuovi missionari nordamericani. Sul volgere del decennio, quando i rappresentanti delle minoranze religiose iniziano a chiedere l’applicazione di quanto previsto dall’articolo 8 della Costituzione relativamente alla stipulazione delle intese, vengono così riproposti da autorevoli esponenti della gerarchia cattolica e dal nuovo organismo collettivo dell’episcopato italiano molti dei toni e dei motivi tipici della campagna antiprotestante degli anni Venti e Trenta – compera di conversioni, elargizioni di denaro e via dicendo –, pur aggiornandone tuttavia gli argomenti: i protestanti, in particolare, non erano più visti tanto come pericolosi agenti dei governi anglo-americani, quanto piuttosto come veicoli, spesso inconsapevoli, di diffusione del comunismo. L’elemento di novità, innescato dalle preoccupazioni per una possibile manipolazione dei missionari protestanti da parte delle sinistre italiane, era rappresentato in altri termini dalla reiterata sottolineatura dell’alto potenziale disgregante della propaganda acattolica nei confronti dell’indispensabile compattezza del fronte anticomunista su cui gli stessi alleati d’oltreoceano mostravano di non voler transigere. La mancata presa di distanza, da parte degli Stati Uniti, nei confronti dei nuovi ‘convertitori esteri’ era così percepita dalla Santa Sede come una sorta di schizofrenica forma di tradimento delle esigenze imposte dall’urgenza della lotta anticomunista e delle nuove solidarietà internazionali che questa stessa urgenza aveva reso necessarie.
Questo tipo di argomentazioni – che troverà spesso un interlocutore americano disattrezzato di fronte a quella che veniva percepita come una mancanza di senso delle proporzioni da parte vaticana data l’esiguità numerica dell’effettiva presenza protestante in Italia –, oltreché costituire un’aggiornata versione ‘da guerra fredda’ della tradizionale e cortocircuitale identificazione tra figure di ‘avversari’ di diverso segno, si inseriva d’altra parte in un contesto in cui iniziava a manifestarsi un certo malessere nei confronti dei risultati ottenuti con la recente e tormentata adesione dell’Italia al Patto Atlantico. Il timore che le potenze occidentali non permettessero il pieno reinserimento dell’Italia nel consesso internazionale – condizione sine qua non anche dell’effettiva possibilità per la Santa Sede di svolgere l’indispensabile e insostituibile funzione di principale custode delle matrici cristiane della nuova comunità occidentale –, unitamente alle inquietudini per il riacutizzarsi del problema delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti dopo le dimissioni di Myron Taylor dall’incarico di rappresentante personale del presidente americano presso Pio XII nel gennaio del 1950, veicola infatti negli ambienti vaticani l’emergere di toni di forte polemica antistatunitense; polemica che nella questione della libertà religiosa – riconosciuta e tutelata dal primo emendamento della Costituzione americana come fonte dello stesso contenuto etico-morale dello Stato – trovava allora un prevedibile terreno di innesto. Oggetto di trattativa tra Roosevelt e Pacelli sin dall’inizio del 1940, passato quindi in secondo piano di fronte alle emergenze della guerra e alle nuove priorità del dopoguerra, agli inizi degli anni Cinquanta il problema della libertà religiosa tornò dunque a costituire un elemento di attrito tra Stati Uniti e Santa Sede, contestualmente all’inconcludenza delle trattative per lo stabilimento di regolari rapporti diplomatici tra il Vaticano e Washington, sia per una forte reviviscenza dell’anticattolicesimo americano, sia per il bilancio assai tiepido che a Roma si fece della missione Taylor. Senza mettere in discussione il must dello sforzo di riorganizzazione difensiva dell’Occidente e le chiusure di principio a un dialogo con Mosca dopo il Patto Atlantico, la forte preoccupazione vaticana di smentire un’immagine della Chiesa come centrale ideologica del blocco atlantico, di non ‘farsi omologare’ dal definitivo ancoraggio occidentale – pena la perdita di incisività del proprio ruolo religioso e l’impossibilità di continuare a tenere aperto un canale di rapporto con i cattolici dell’Est – sembrò risultare talora più forte dell’esigenza di non introdurre elementi di ‘perturbazione’ nel compatto fronte anticomunista. In questa fase, tramontate certe urgenze del periodo bellico, la serpeggiante insoddisfazione della Santa Sede per la prosecuzione di rapporti meramente ‘politico-confidenziali’ con gli Stati Uniti poteva così associarsi a una valutazione in ultima istanza positiva anche delle vivaci agitazioni dei protestanti statunitensi nei confronti di un eventuale ristabilimento di regolari rapporti diplomatici con Roma.
È in questo contesto complessivo che vanno dunque inserite le reiterate prese di posizione di autorevoli esponenti della gerarchia cattolica, nelle quali la segnalazione del cortocircuito fra propaganda comunista e propaganda protestante si associava sempre più frequentemente a un esplicito appello all’intervento governativo. Dopo un duro articolo nell’ottobre 1952 del cardinale di Milano, Alfredo Ildefonso Schuster, che ebbe una certa risonanza anche all’estero – citato dal saragattiano Luigi Preti in un’interpellanza parlamentare al ministro degli Interni Scelba come testimonianza di un atteggiamento di crescente intolleranza religiosa da parte di alcuni ambienti cattolici, non sfuggì all’attenzione del Dipartimento di Stato americano –, nel febbraio 1954 sarà la stessa prima Pastorale collettiva dell’episcopato italiano a sottolineare la necessaria «unità di tutti i cattolici e di tutte le forze cattoliche» per arginare la pericolosità di un’«insidia protestante» che, nel nuovo contesto postbellico, non farebbe in realtà che recare «evidente vantaggio» non già alla «pratica religiosa che va tosto in rovina», bensì al «comunismo ateo»6.
Le prese di posizione di diversi esponenti della gerarchia italiana e le argomentazioni utilizzate per dimostrare la pericolosità di una propaganda protestante ripetitivamente presentata come elemento di disunione nazionale rappresentano soltanto l’approdo pubblico di un fitto scambio di conversazioni e rapporti che, dall’immediato dopoguerra, vede variamente coinvolti diversi ordinari delle diocesi più ‘a rischio’ – soprattutto nel Sud –, la Segreteria di Stato vaticana, la nunziatura in Italia, l’ambasciata italiana presso la Santa Sede, i dicasteri degli Interni e degli Esteri, l’ambasciata americana a Roma, il dipartimento di Stato di Washington. Uno scambio, questo, nel quale informazioni sui termini più generali dei problemi posti dalla gestione delle attività degli acattolici si intrecciano continuamente con quelle relative a singoli casi che accendono estenuanti contenziosi diplomatici cui sono in fondo sottesi dei sostanziali problemi di comunicazione fra l’interlocutore vaticano, quello italiano e quello statunitense e un’evidente diversità di impressioni sulle ragioni della forza e della tenuta delle sinistre in Italia, nonché sui modi di concepirne l’arginamento. Come emerge chiaramente in alcune vicende – in primis in quella, paradigmatica nella prospettiva statunitense, di tredici pastori della texana Crescent Hill Church affiliata al National Council of the Church of Christ degli Usa, già presieduto da John Foster Dulles, segretario di Stato durante la presidenza Eisenhower –, le difficoltà che sovente si registrano anche nei rapporti fra il Viminale e la Farnesina, rispettivamente oggetto di contrastanti pressioni da parte vaticana e americana, appaiono in questo senso principalmente il riflesso di letture e percezioni diverse di una realtà in cui la condivisione dell’imperativo anticomunista non si accompagna affatto automaticamente all’individuazione di priorità o strategie convergenti. Assieme e al di là delle statistiche – a un mese di distanza dalla prima lettera collettiva dell’episcopato italiano, nel marzo 1954, un’indagine della Direzione generale degli affari di culto aveva portato alla registrazione di circa 121.000 persone professanti culti acattolici raggruppati in 48 diverse denominazioni –, quello che sembrava fortemente stridere con l’esperienza americana era la stessa individuazione, nell’attività dei missionari protestanti, di un pericoloso elemento veicolare di idee e simpatie di sinistra, di un rischio di collusione, in altri termini, che avrebbe potuto compromettere la necessaria compattezza del fronte anticomunista; collusione, questa, che a Washington veniva talora ribaltata nell’interlocutoria sottolineatura della massiccia percentuale di votanti per ilPartito comunista in un paese che si diceva naturaliter cattolico. Delle difficoltà che l’asserzione dell’esistenza di un cortocircuito fra protestantesimo e comunismo in Italia aveva nel far breccia nei circoli dirigenti statunitensi, era ben consapevole anche la gerarchia cattolica americana, alla quale fino al 1952 la Segreteria di Stato vaticana inviò abbastanza regolarmente, tramite il delegato apostolico Amleto Cicognani, dei rapporti sull’attività dei protestanti nella speranza che l’episcopato d’Oltreoceano potesse esercitare una qualche influenza sul dipartimento di Stato al fine dell’adozione di misure restrittive nei confronti dei missionari di cittadinanza statunitense. Pur dicendosi formalmente solidale, la conferenza episcopale americana non poteva d’altra parte fare a meno di manifestare le proprie perplessità rispetto alla possibilità che l’asserito supporto, diretto o indiretto, al comunismo da parte di alcune organizzazioni protestanti potesse trovare un qualche tipo di ascolto nell’opinione pubblica statunitense.
Oggetto delle maggiori apprensioni vaticane e delle reiterate richieste di introduzione di misure restrittive erano soprattutto le comunità pentecostali e altre confessioni con sede e direzioni negli Stati Uniti – Testimoni di Geova, Esercito della salvezza, Church of Christ, Ymca – che, diversamente dai gruppi protestanti tradizionali, si sarebbero in particolare prestati al gioco dei comunisti. A cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio del decennio successivo, il Ministero degli Interni fu pertanto il destinatario di regolari esortazioni della Segreteria di Stato a una ferma applicazione della cosiddetta circolareBuffarini Guidi, che nel maggio 1936 aveva decretato lo scioglimento delle comunità pentecostali, impedendone e vietandone ogni forma e attività di culto. Sempre su istanza della Segreteria di Stato, nel luglio 1951 il Ministero degli Interni predispose quindi una rilevazione su tutto il territorio nazionale invitando i prefetti di una trentina di province a riferire sull’effettiva consistenza e attività delle comunità pentecostali con particolare attenzione agli orientamenti politici dei loro aderenti. Se dalle relazioni prefettizie il quadro sembrava nell’insieme poter ridimensionare gli allarmismi vaticani, per tutta la prima metà degli anni Cinquanta la registrazione dei rischi di una loro collusione con i partiti ‘sovversivi’ non pare d’altra parte conoscere incrinature e flessioni.
Solo a partire dal 1955 quella che un bilancio del «Paese» definiva nel giugno di quell’anno come «una delle disavventure politiche più divertenti di questi ultimi anni» – ovvero l’«accusa di comunismo che il Vaticano e il Governo Italiano stanno rivolgendo da cinque anni a chi meno lo merita» – cominciò a entrare in una fase di declino7. Nonostante la perdurante evasione nel dare attuazione all’istituto delle intese e la mancata sintonizzazione, nella prassi, con la lettera e lo spirito della Costituzione in materia di libertà religiosa, a cavallo della metà del decennio la fase più acuta delle frizioni tra le diverse istanze a vario titolo coinvolte nei problemi relativi allo status giuridico e alle attività delle minoranze religiose in Italia poteva dirsi infatti in qualche modo conclusa. Nello specifico delle più forti tensioni registratesi in merito alla presenza dei missionari protestanti di origine statunitense, un qualche elemento di sblocco è rappresentato in particolare dal viaggio negli Stati Uniti del presidente del Consiglio Scelba e del ministro degli Esteri Martino tra il marzo e l’aprile 1955. Ma l’attutirsi del contenzioso diplomatico si inserisce comunque in un contesto più complessivo che vede la comparsa di alcuni primi segni di disgelo nel quadro politico e giurisprudenziale italiano, preludio dell’inizio delle attività della Corte costituzionale. In questo senso, il memorandum approvato all’unanimità il 17 gennaio 1955 dal Consiglio federale delle Chiese evangeliche, e quindi inviato a tutti i componenti del governo e a diversi parlamentari – per lamentare la latitanza del Ministero degli Interni nel riconoscere la portata innovativa delle disposizioni costituzionali in materia di libertà religiosa e nel dare effettivo inizio alle trattative per le intese previste dall’articolo 8 –, rappresentò in qualche modo il punto culminante della nutrita sequenza di segnalazioni e denunce dei numerosi casi di intolleranza religiosa, divieti e atti illiberali ai danni di culti acattolici, talora palesemente incoraggiati, a giudizio dell’organismo rappresentativo del protestantesimo italiano, dalle autorità di polizia centrali e periferiche. D’altra parte, proprio nell’immediata vigilia del viaggio del presidente del Consiglio in Usa, un altro episodio pose inoltre all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale la questione della libertà religiosa in Italia. Il 12 febbraio 1955 giunsero infatti a Roma il presidente della Commissione per gli Affari internazionali del Consiglio ecumenico delle Chiese (Coe), l’inglese Kenneth Grubb e il dr. Frederick Nolde, rappresentante di quest’ultima all’Onu, per incontrarsi con il presidente del Consiglio federale della Chiese evangeliche d’Italia, il pastore Achille Deodato, la giunta del Consiglio e la sezione italiana della commissione del Coe. Scopo dell’incontro era in particolare quello di documentarsi sulla situazione della libertà religiosa nel nostro paese, sul grado di effettiva attuazione delle norme costituzionali in materia di libertà di culto e sulle iniziative in corso per l’apertura delle trattative in vista delle intese. L’inchiesta intendeva tuttavia verificare anche la fondatezza delle accuse di connivenza col comunismo reiteratamente mosse ai protestanti, per poter quindi riferire su questo al Consiglio nazionale delle Chiese protestanti degli Stati Uniti. Resa nota da «La Voce repubblicana», la visita in Italia di Grubb e Nolde suscitò qualche apprensione negli ambienti governativi per le polemiche che essa avrebbe prevedibilmente contribuito a riaccendere e sollevare soprattutto sulla stampa di sinistra. Ancora nel giugno successivo, il già ricordato articolo del «Paese» riportava fra l’altro il contenuto dell’intervista rivolta a Kenneth Grubb «sul secondo e più interessante punto della questione», quello, cioè, della asserita collusione fra protestantesimo e comunismo: «Le accuse di comunismo ai protestanti in Italia – avrebbe risposto a questo riguardo l’esponente del Consiglio ecumenico delle Chiese – sono, generalmente parlando, senza fondamento. Siamo convinti che se questa falsa etichetta venisse applicata, essa servirebbe soltanto di pretesto per alimentare i pregiudizi contro la libertà di religione. Là dove esiste oppressione vi è l’usanza di definire comunista chiunque assuma una posizione liberale»8.
Fu in ogni caso solo il difficile avvio dei lavori della Corte costituzionale nel 1956 a modificare significativamente i termini della questione della libertà religiosa in Italia e a innescare un processo di ‘costituzionalizzazione’ del diritto ecclesiastico. Affermando la propria competenza a giudicare della legittimità costituzionale le leggi anteriori alla Costituzione, la prima sentenza della Corte del giugno 1956 apriva in particolare la strada a una progressiva ‘bonifica’ della legislazione fascista, passata indenne attraverso la guerra e la caduta del fascismo per continuare a offrire il sostegno giuridico a una politica discriminatoria nei confronti delle minoranze religiose. Nel breve arco di un anno e mezzo caddero così sotto la scure delle pronunce di illegittimità costituzionale l’articolo 24 della legge di polizia del 1931, che comportava l’obbligo del preavviso per funzioni, cerimonie o pratiche religiose in luoghi aperti al pubblico; l’articolo 18 del Testo unico di pubblica sicurezza, per il quale tutte le riunioni dovevano essere soggette al preavviso di polizia; l’articolo 3 della legge 1159 del 29 giugno 1929 e gli articoli 1 e 2 del decreto applicativo del febbraio 1930, che richiedevano l’approvazione governativa delle nomine dei ministri di culti acattolici e l’autorizzazione del governo per l’apertura di templi e oratori.
Sebbene sintonizzato con le più generali trasformazioni in atto nella società italiana, il processo avviato stentò tuttavia a trovare positivi segnali di ricezione a livello politico-parlamentare e non mancò di suscitare tensioni. Il problema dell’affermazione dell’identità della Corte rispetto alle altre istanze di una magistratura formatisi culturalmente in epoca fascista e che fino al 1956 era stata in sua assenza titolare dell’esercizio del controllo di costituzionalità, la questione del potere esecutivo delle sue sentenze e le resistenze di cospicui settori dell’apparato amministrativo furono infatti congiuntamente all’origine di una serie di contrasti politici talmente forti da indurre alle dimissioni, già nel marzo 1957, il suo primo presidente, Enrico De Nicola, che concluse così anzitempo il suo impegno per l’inserimento del nuovo organo nel sistema costituzionale in segno di protesta per la mancanza di alcun tipo di sostegno da parte governativa di fronte alle numerose critiche incontrate dalle prime sentenze. Alla prima sentenza della Corte costituzionale aveva fatto criticamente riferimento, fra gli altri, lo stesso Pio XII, che, in un discorso tenuto il 3 marzo 1957 ai parroci e predicatori quaresimalisti romani, aveva lamentato la latitanza del governo nel tener fede all’impegno previsto dal primo articolo del Concordato – cioè l’impedimento a Roma di tutto ciò che potesse essere in contrasto con il suo carattere di ‘città sacra’ – esortando quindi i cattolici romani, «massime dopo la pronunziata dichiarazione di illegittimità costituzionale», a difendere «da sé i diritti della religione e del buon costume» e a sollevare «una energica protesta della pubblica opinione» che veicolasse nelle autorità competenti la volontà di «addivenire ai necessari provvedimenti»9. Al di là del peso specifico che il riferimento del pontefice alla prima sentenza della Corte può avere avuto nella decisione di De Nicola, l’episodio resta d’altra parte significativo dell’estrema difficoltà di un raccordo tra una certa maturazione della coscienza civile in fatto di diritti di eguaglianza e di libertà e le coordinate con cui la Santa Sede affrontava l’avvio di dinamiche nuove nella società. Da parte vaticana la risposta all’innescarsi di un processo di laicizzazione e secolarizzazione del costume, così come all’insieme delle trasformazioni economiche e sociali che nel giro di pochi anni avrebbero radicalmente modificato il volto del paese, continuò infatti a trovare uno dei suoi punti di forza nel presidio di quella sorta di garanzia di specialità rispetto alla Costituzione di cui il Concordato aveva di fatto fino allora goduto. Nell’atmosfera sovente ‘surriscaldata’ che caratterizza l’ultima, declinante fase del pontificato pacelliano, la reazione vaticana di fronte all’avvio della giurisprudenza costituzionale – seguita, a distanza di un mese, dalle polemiche suscitate da un convegno de «Il Mondo» sul tema del Concordato – segna così il riaprirsi di una fase di acuti contrasti sul tema della laicità dello Stato, anticipando il clamore dello scontro che le vicende processuali del vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, avrebbero riacceso, l’anno successivo, tra certe velleità confessioniste del mondo cattolico e la reviviscenza anticlericale di ambienti e settori laici.
Il noto caso del vescovo di Prato, rinviato a giudizio nell’ottobre 1957 a seguito della querela da parte di due coniugi da lui accusati di concubinaggio per la scelta di sposarsi civilmente, prefigurò per molti versi nuovi equilibri fra Concordato e società civile. Il clima e i toni che accompagnarono le due clamorose sentenze dell’anno successivo – l’una di condanna per diffamazione aggravata, l’altra di assoluzione – evidenziano infatti abbastanza chiaramente il carattere di ‘sigillo’ di un’epoca che l’episodio riveste, ennesima testimonianza dell’adesione dello Stato ai desiderata della Chiesa cattolica, ma al contempo anche segno sintomatico del definitivo infrangersi del sogno ierocratico pacelliano di fare dell’Italia il centro propulsore di una nuova civiltà cristiana. Oggetto dell’ultima mobilitazione cattolica di stampo geddiano, la vicenda di Fiordelli segna in questo senso un momento di non ritorno, nella misura in cui rivela un emergente distacco fra Chiesa e società e, per le forme delle reazioni della gerarchia e del cattolicesimo organizzato alla sentenza di condanna comminata a Fiordelli dal tribunale fiorentino, catalizza in alcuni settori del mondo cattolico la percezione di un profondo malessere della Chiesa italiana e ne accentua l’ansia di un rinnovamento. In qualche caso la presa di distanza dall’allarmistica, corale denuncia dell’attacco laicista contro la Chiesa coincide con l’avvio di una riflessione sull’idoneità del principio concordatario come strumento atto a regolare la globalità dei rapporti fra società civile e società religiosa. Nel suo isolamento, l’articolo che compariva nel primo numero della rivista di Wladimiro Dorigo, «Questitalia», dell’aprile 1958 – Ordinamenti e libertà dopo la sentenza di Firenze –, anticipa per certi versi le modifiche nelle tradizionali demarcazioni fra schieramento laico e cattolico che costituiranno uno dei più significativi portati del rinnovamento conciliare nella società civile italiana. In un contesto di evidente tensione che faceva sospendere a Pio XII le cerimonie per l’anniversario della sua incoronazione, nell’inquieto clima che contrassegna la faticosa gestazione del centro-sinistra e che vide alcuni dei più pesanti interventi dei vertici ecclesiastici nella vicenda politica italiana, il ‘caso Fiordelli’ coincise in altri termini con l’emergere di sensibilità e di gruppi animati da un evidente desiderio di mutamento e di riflessione critica sull’interventismo delle gerarchie nella dialettica politica, l’autonomia del laicato, la distinzione fra il piano dell’azione politica e religiosa, le modalità di presenza della Chiesa nella società.
E tuttavia i sintomi di stanchezza sono destinati a restare per un po’ ancora latenti, marginali e spesso emarginati. L’atteggiamento vaticano di evidente chiusura rispetto alle prime manifestazioni di un’evoluzione della coscienza civile e, più in generale, alle nuove dinamiche in atto nella società, non si spiega soltanto con la nervosa difesa della ‘lettera’ di tutto il sistema normativo concordatario, ma con la tenuta di ben più radicate strutture mentali e culturali che anche in quella lettera avevano trovato espressione. Persuasione che solo alla Chiesa in quanto tale spettasse una guida, una direzione generale della società; rivendicazione, quindi, di un ruolo privilegiato all’interno di quest’ultima – rivendicazione rispetto alla quale il perdurare della polemica interconfessionale e la richiesta di limitazioni da imporre agli altri culti risultavano evidentemente conseguenti; ferma contrapposizione nei confronti di tutto ciò che stava e restava fuori dalla Chiesa stessa; ‘psicosi’ dell’avversario, esterno come interno, sono ancora largamente e vistosamente operative in una Chiesa «in stato di ‘guerra fredda’»10, che vigila su ogni minima incrinatura capace di aprire pericolose brecce nel fronte contro l’avversario socialcomunista. In Italia questo tipo di meccanismi si salda poi con le particolari apprensioni della Santa Sede per le dinamiche politiche interne, col risultato che le crescenti preoccupazioni per la declinazione governativa di certi atteggiamenti ‘irenici’ finiscono con l’accentuare la monotonia della messa al bando di ogni manifestazione di pluralismo.
Emblematico della saldatura tra le inquietudini e i timori vaticani per i possibili sbocchi della politica italiana e le più complessive preoccupazioni di ordine religioso-dottrinale fu il noto, duro attacco che il 1° settembre 1956 il padre Messineo rinnovava a Maritain sulle pagine de «La Civiltà cattolica». Fonte di un certo imbarazzo in Segreteria di Stato – immediatamente interpellata dall’ambasciata francese –, l’attacco al filosofo francese è parso difficilmente ascrivibile alla sola responsabilità dello scrittore della rivista gesuita, risultando piuttosto l’espressione di orientamenti di più estesi e autorevoli ambienti vaticani e di inquietudini ampiamente diffuse nell’episcopato. L’embrionale organismo collettivo dell’episcopato dei vescovi italiani dedicava significativamente le conferenze del 1956 e del 1957 al problema di una capillare penetrazione dello ‘spirito laicista’ – di cui il risvolto politico non era il più grave – all’interno della stessa vita della Chiesa; una penetrazione che appariva la conseguenza di un progressivo venir meno della tradizionale fiducia dei cattolici nell’autosufficienza delle proprie risorse politiche e sociali, nonché di una pericolosa disistima del ruolo di guida della gerarchia cui non era estranea l’influenza di un certo modo di pensare di matrice francese. Ciò che colpisce è però soprattutto la contiguità delle argomentazioni rispetto a certa documentazione ‘di lavoro’ del Sant’Uffizio che, meno di due anni dopo, si accingeva a sferrare l’ultimo, definitivo attacco a Maritain con un ufficiale atto di condanna.
Sull’ultimo scorcio del decennio apertosi con l’Humani generis veniva infatti messa a punto una definitiva stigmatizzazione delle tesi erronee contenute negli scritti del filosofo francese, con particolare riferimento alle sue riflessioni sulla questione dei rapporti Chiesa-Stato che, sulle pagine de «La Civiltà cattolica», lo aveva fatto più volte accomunare a John Courtney Murray. Riaccostando elaborazioni per molti versi affatto differenti, agli inizi del 1958 il padre Marie-Rosaire Gagnebet, già segretario della Commissione degli studi dell’Ordine domenicano e dal 1954 ‘ufficiale’ del Sant’Uffizio, preparava in particolare un elenco di quarantadue proposizioni, riassuntive delle posizioni di alcuni autori cattolici da anni impegnati in un tentativo di superamento del dualismo tesi/ipotesi e in uno sforzo di ripensamento complessivo del problema della tolleranza e libertà religiosa nella moderna società pluralistica. Ridotte a ventuno da un’apposita commissione, esse costituirono quindi la seconda parte di un documento stampato nel giugno 1958 di cui solo la morte di Pio XII impedì poi la definitiva pubblicazione. Il documento del Sant’Uffizio si apriva quindi con una sintesi dell’immutabile dottrina cattolica fondata sugli «immutabili diritti di Dio»: distinzione fra Chiesa e società civile; subordinazione dei fini della seconda ai fini della prima; dovere della Chiesa di intervenire nell’ordine temporale quando era in gioco la meta soprannaturale; dovere del potere civile di sostenere la religione senza restare indifferente a essa e di adempiere agli obblighi religiosi da parte della stessa autorità civile; esclusione dalla sua legislazione e dagli atti pubblici di tutto ciò che la Chiesa considerasse contrario al suo scopo e sforzo bensì di creare le condizioni morali, intellettuali e sociali che agevolassero l’accesso degli uomini alla verità divina; valutazione delle condizioni in cui il bene della religione e della società richiedono allo Stato cattolico la concessione di una «certa giusta tolleranza»; riconoscimento, infine, che d’altra parte la dottrina esposta poteva essere applicata soltanto in uno Stato cattolico. A cinque anni di distanza dall’intervento del cardinale Ottaviani, si riasseriva dunque la perenne validità dei principi del diritto pubblico ecclesiastico per condannare quindi le posizioni di alcuni «fautori di nuove dottrine», convinti che la tradizionale dottrina della Chiesa potesse essere ridotta a pochi principi da applicare in modo necessariamente diverso rispetto al passato nell’attuale regime di cristianità profana11.
Il pontificato di Pio XII si chiudeva dunque con l’allestimento di alcune definitive procedure di condanna nei confronti di autori variamente impegnati in una riflessione che certamente, dal punto di vista romano, presentava il rischio dell’introduzione di evidenti elementi di discontinuità nei confronti del precedente magistero. La procedura, come accennato, si interruppe soltanto con la morte di Pacelli e con l’inattesa dinamizzazione degli scenari complessivi introdotta dal sorprendente annuncio di un nuovo concilio da parte del nuovo pontefice, Giovanni XXIII, a meno di tre mesi dalla sua elezione alla cattedra petrina; un annuncio affatto imprevisto, che colse impreparati un po’ tutti gli ambienti, quelli arroccati nella difesa come quelli rassegnati nell’accettazione di un cattolicesimo immobile. Esso provocò uno spettro di reazioni assai diverse nei differenti contesti ecclesiali e culturali; se in altri paesi la convocazione del Vaticano II si innestò su forti movimenti di rinnovamento liturgico, ecumenico, biblico, questo non fu però il caso dell’Italia, dove al contrario era generalmente ben marcata la contiguità fra gli schemi interpretativi dell’episcopato e le letture e le prospettive degli ambienti curiali che guardavano al concilio come all’occasione di un completamento del magistero pontificio a partire dal Vaticano I e di una condanna degli errori dottrinali apparsi nel frattempo. Per restare sul terreno del documento del 1958, una significativa testimonianza della contiguità degli orientamenti e della continuità dei criteri di lettura dei nuovi problemi della società e della Chiesa è offerta per esempio dalla lettera collettiva dell’episcopato italiano su Il laicismo del 25 marzo 1960. Indirizzata ai sacerdoti, essa metteva insieme infatti le fila del dibattito che si trascinava ormai da anni all’interno della Cei su un fenomeno, quale il ‘laicismo’, tanto pericoloso quanto inafferrabile e sfuggente a precise definizioni dottrinali. Si trattava di un errore che era il frutto di «un umanesimo che proclama di voler prendere in considerazione tutti i problemi umani e che pretende di capirli e di poterli risolvere con le forze e i valori puramente umani», «che ammette Dio e il fatto religioso, ma rifiuta di accettare l’ordine soprannaturale come realtà viva ed operante nella storia umana»12. Esso contestava dunque alla Chiesa «ogni diritto di intervenire nella vita pubblica dell’uomo, poiché questa godrebbe di una piena autonomia giuridica e morale». Non risparmiava critiche agli interventi del magistero ecclesiastico «ogni qualvolta esso, dal piano dei principi, scende alle applicazioni pratiche», e impegnandosi anzi in un evidente sforzo di rimessa in discussione del Concordato «che pure fu accettato con quasi unanime riconoscimento nell’immediato dopoguerra ed inserito nella stessa Costituzione».
Espressione anche dell’immodificata vischiosità che le preoccupazioni per gli equilibri politici nazionali avevano nella messa a fuoco dei problemi e nella definizione di priorità da parte dell’episcopato, la lettera collettiva del marzo 1960 è per molti versi significativa delle categorie ancora operative nella grande maggioranza dei vescovi italiani alla vigilia del concilio. Come emerge chiaramente nel rapporto sintetico sui consigli e i suggerimenti per il Vaticano II, i vescovi italiani si presentarono all’appuntamento conciliare per lo più disattrezzati rispetto alle prospettive sottese alla scelta del concilio come mezzo proprio dell’‘aggiornamento’ della Chiesa e alla concreta individuazione del compito dottrinale del concilio stesso in una lettura della congiuntura storica che sapesse discernere le legittime esigenze del tempo presente. Pesava molto, in questo, l’onda lunga della lotta antimodernista che in Italia aveva segnatamente agito nella direzione di una dissuasione di larga parte del clero e del laicato da una seria riflessione sulla Chiesa e sulla storia; un’onda lunga i cui effetti si erano andati poi cristallizzando nel corso del ventennio fascista, anche per l’assuefazione di larghi ambienti cattolici a una tutela protettiva da parte del potere politico, consolidatasi dopo iPatti Lateranensi.
I freni e le resistenze di questa eredità fanno sentire tutto il loro peso condizionante nella sintonizzazione di gran parte dell’episcopato e di larghi settori del cattolicesimo italiano con talune delle principali istanze di rinnovamento ‘liberate’ dall’annuncio e poi dall’avvio del Vaticano II. L’inserimento nel novero degli argomenti che l’episcopato era chiamato a discutere della spinosa questione del diritto alla libertà religiosa aprì per esempio con fatica delle brecce in un episcopato che aveva profondamente introiettato le fondamentali coordinate teoriche e ideali del diritto pubblico ecclesiastico apprese dai manuali su cui avevano studiato generazioni di studenti delle università pontificie. Si trattava in fondo di quelle coordinate rispetto alle quali lo stesso partito cattolico, nella fase di reviviscenza concordataria degli anni Cinquanta, sembra essere rimasto nell’insieme tributario, attingendovi schemi concettuali e criteri più immediatamente operativi nel settore della politica ecclesiastica. Non andava del resto trascurata la sostanziale assenza di fondamenti culturali in fatto di libertà e di diritti, avendo il fascismo contribuito a smantellare il quadro delle garanzie, già sensibilmente debole, che si era formato sotto loStatuto albertino. Un ulteriore, importante elemento di ritardo rispetto a una sintonizzazione della Chiesa italiana con alcuni dei temi nuovi e più controversi messi sull’agenda del concilio era inoltre costituito, come accennato, dal fatto che essa era rimasta sostanzialmente impermeabile alle istanze del movimento ecumenico. Oltre che sul terreno delle problematiche strettamente connesse all’ecumenismo, questa latitanza fece infatti sentire tutto il suo peso anche nei confronti dei nuovi fermenti di riflessione in materia di libertà religiosa, che in altri paesi avevano trovato il loro naturale luogo di innesto proprio negli ambienti ecumenici. Questa carenza di ‘alfabetizzazione’ ecumenica – nella gerarchia come nel laicato italiani – condizionò dunque non poco le modalità e i tempi con cui la Chiesa italiana al Vaticano II si lasciò nell’insieme interpellare da un tema e da un dibattito, quello sulla libertà religiosa, che al concilio ebbe anche istituzionalmente un’evidente genesi ecumenica, in quanto messo sull’agenda dall’organismo appositamente istituito da Giovanni XXIII per aiutare i cristiani non cattolici a seguire lo svolgimento dell’assise dei vescovi. Direttamente sollecitato dai rappresentanti delle comunità separate, l’inserimento della questione della libertà religiosa nell’agenda del Segretariato per l’unità dei cristiani costituiva infatti un prerequisito fondamentale per la prosecuzione del rapporto di fiducia instaurato dagli ambienti ecumenici cattolici con il Consiglio ecumenico delle chiese di Ginevra.
Questa origine ecumenica del dibattito conciliare sulla libertà religiosa non mancò di trovare un riflesso nell’impianto dei primi schemi preparatori elaborati dal Segretariato, nei quali era evidente quell’incrocio fra prospettive e argomenti diversi che continuava a caratterizzare la riflessione sulla libertà religiosa all’interno dell’organismo ginevrino. Sull’orizzonte delle più tradizionali argomentazioni sui diritti e doveri della coscienza si affacciavano infatti simultaneamente i problemi della collaborazione intracristiana, del nesso fra ecumenismo e missione, della libertà all’interno delle Chiese, della libertà religiosa come principio essenziale del nuovo ordinamento civile e internazionale e la questione, infine, dei rapporti Chiesa-Stato. Questa eterogenea pluralità di istanze, che trovava il suo punto di convergenza in una nozione di libertà religiosa dai contorni ancora non ben definiti, era ben presente nella fase preparatoria dei lavori conciliari; dopo il tardivo approdo in aula, essa subì invece una sorta di progressivo filtraggio, che ebbe l’effetto di un sostanziale spostamento del baricentro dell’attenzione dall’humus ecumenico, su cui la problematica aveva appunto trovato il suo luogo di innesto, al più definito terreno delle relazioni Chiesa-Stato, delle libertà civili, dei diritti intersoggettivi – terreno, quest’ultimo, sul quale il contributo di John Courtney Murray fu a tutti gli effetti fondamentale.
Presentato per la prima volta ai padri conciliari nel novembre 1963 come capitolo V del testo sull’ecumenismo – dopo il drammatico confronto vissuto dalla Commissione centrale preparatoria del concilio nel giugno del 1962, in occasione della contestuale presentazione di due diversi e confliggenti schemi in materia di tolleranza e libertà religiosa, separatamente elaborati dal Segretariato per l’unità e dalla Commissione teologica presieduta dal cardinale Ottaviani –, lo schema sulla libertà religiosa venne per lo più freddamente accolto dall’episcopato italiano, generalmente accostato a quello spagnolo per l’atteggiamento diffidente nei confronti del De libertate e delle sue soggiacenti prospettive. Nel novembre 1963 a distinguersi tra le voci italiane fu significativamente quella dell’arcivescovo di Firenze, il cardinale Ermenegildo Florit che, consultatosi con il padre Lener, espresse in aula forti perplessità nei confronti di un testo rispetto al quale poneva assai interlocutoriamente il problema dell’esistenza o meno di un diritto alla diffusione dell’errore. Nei mesi della seconda intersessione conciliare, dalle secche dell’interminabile controversia sui diritti della coscienza in buona fede erronea uscì quindi soltanto un intervento dell’arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro, pronunciato in occasione di un convegno su La Chiesa e la libertà organizzato dalla «Pro Civitate Christiana» di Assisi, nel quale sviluppava soprattutto l’idea che l’acquisizione soggettiva della verità potesse variare nel corso del tempo per un infinito concorso di circostanze. Sempre nella primavera del 1964, un’altra delle rare occasioni di approfondimento su questo tema fu offerta da un convegno tenutosi a Gazzada, presso Varese, su iniziativa dell’Istituto superiore di studi religiosi di Milano, in cui si segnalarono in particolare gli interventi di Pietro Pavan, di Giuseppe Lazzati e di Carlo Colombo. Non era la prima volta che l’Istituto milanese organizzava un confronto su problematiche in qualche modo afferenti la questione della libertà religiosa, ma in questa occasione le relazioni presentate entrarono più direttamente nel vivo dei nodi toccati dallo schema del Segretariato, mettendo a fuoco la storia del principio della libertà religiosa, il suo sviluppo storico nella teologia cattolica e nell’insegnamento del magistero, gli aspetti giuridico-politici della questione, per fare quindi il punto sul dibattito teologico in corso. Di un certo interesse fu soprattutto la relazione del teologo di fiducia di Paolo VI, Carlo Colombo, sui Principi di una soluzione teologica del problema della libertà religiosa, anche per l’anticipazione di alcuni dei punti poi sviluppati, nel settembre 1964, in un intervento assembleare che segnò l’inizio di un suo diretto coinvolgimento nelle vicende redazionali del De libertate. Eletto vescovo da poche settimane, Colombo sottolineò in particolare come quello della libertà religiosa fosse soltanto un aspetto del più generale e fondamentale problema del rapporto dell’uomo con la verità, accedendo alla quale l’uomo diventa effettivamente una persona. In questa prospettiva, il punto di partenza di una riflessione teologicamente fondata sul diritto alla libertà religiosa doveva essere per il teologo milanese la considerazione del dovere costitutivo dell’uomo alla ricerca della verità – in particolare delle verità relative alla vita morale –, nonché del diritto corrispondente e delle condizioni indispensabili per l’effettiva realizzazione, in modo umano, di questa stessa ricerca, la libertà e il dialogo. Il diritto-dovere alla ricerca della verità esigeva insomma la garanzia del carattere libero e dialogico di questa stessa ricerca. Fatta eccezione per questi interventi, le uniche altre voci italiane a intervenire nel dibattito apertosi con la presentazione in concilio del primo schema sulla libertà religiosa furono quelle che si espressero su «L’Osservatore romano» per riproporre la sostanziale bontà dell’impostazione con cui tradizionalmente era stata trattata tutta la problematica della tolleranza e del rapporto della Chiesa con lo Stato.
Sempre nei mesi in cui si registrava il progressivo spostamento dello schema dal terreno ecumenico a quello più giuridico-politico dei diritti intersoggettivi, fu comunque un perito italiano, il professore dell’Università Lateranense Pietro Pavan, a svolgere un ruolo importante nel delicato lavoro di revisione, contribuendo in modo significativo ad avvicinare il testo al nodo costituzionale della questione, ovvero al problema tecnico della cura religionis a carico dei pubblici poteri. Fu in particolare Pavan, prima dell’effettivo ingresso di Murray nell’équipe redazionale del De libertate, a porre in maniera chiara il problema della duplicità dei piani su cui si muoveva lo schema del Segretariato – quello di una positiva facoltà di autodeterminazione in ambito morale e religioso e quello di una mera immunità dalla coercizione esterna – e a fornire quindi anche i criteri di massima per il rifacimento del testo. Il principale apporto di Pavan al lavoro di revisione fu in particolare l’avvio di un ripensamento dei principi della limitazione dell’esercizio del diritto alla libertà religiosa e una più chiara affermazione dell’incompetenza dell’autorità civile in materia religiosa attraverso la sottolineatura dell’evoluzione delle strutture giuridiche.
Il contributo di Pavan non era d’altra parte rappresentativo degli orientamenti più diffusi fra la componente italiana al Vaticano II, che anche nel dibattito assembleare del settembre 1964, pur con varietà di toni, si distinse soprattutto – negli interventi di Ottaviani, del cardinale di Palermo, Ruffini, dell’arcivescovo di Bari, Enrico Nicodemo, e dell’ausiliare di Roma, Giovanni Canestri – per la riproposizione della bontà della soluzione concordataria e per la messa in guardia dalla trascuratezza della realtà dell’ordine oggettivo, norma suprema per la coscienza. Quando, nella convulsa settimana dal 14 al 21 novembre 1964, dopo un ulteriore, significativo rifacimento dello schema con l’essenziale apporto di John Courtney Murray, la votazione del De libertate venne nuovamente rimandata sine die esponendo ancora una volta lo schema al rischio di una sua estromissione dall’agenda conciliare, tra i firmatari delle petizioni al consiglio di presidenza del concilio per l’aggiornamento del voto annunciato, il gruppo italiano fu il più consistente assieme a quello spagnolo e brasiliano. La parte che poneva più problemi del nuovo schema ‘americano’ era in particolare quella dedicata all’esposizione degli argomenti di ordine razionale a sostegno del diritto alla libertà religiosa: non si accettava soprattutto quello che veniva definito un illogico passaggio dal dovere-diritto di cercare la verità al diritto di esporre qualsiasi opinione in materia religiosa.
Fuori dall’aula, il dibattito che il concilio, a ritmi e in direzioni diverse, aveva innescato o accelerato in materia di libertà religiosa, cominciò d’altra parte a interessare anche il cattolicesimo italiano, sia pur limitatamente, per lo più, alla sua declinazione concordataria. Le vicende conciliari del De libertate stimolarono infatti in alcuni gruppi e riviste l’avvio di un ripensamento complessivo sull’idoneità del principio concordatario come strumento atto a regolare i rapporti fra società religiosa e società civile. Dopo un periodo di silenzio, il problema del rapporto fra norme concordatarie e principi costituzionali si reimpose infatti all’attenzione dell’opinione pubblica nel febbraio del 1965, contestualmente all’episodio del Vicario, la nota rappresentazione teatrale sui silenzi di Pio XII durante la Shoa. La novità del dibattito politico e culturale che si riaccese in questi mesi risiedeva d’altra parte proprio nel fatto che a esso cominciavano a prendere parte non soltanto settori di area laica e di sinistra, ma anche diverse voci del mondo cattolico. I nuovi orientamenti emergenti in area cattolica trovarono in particolare espressione nelle risposte inviate da quarantacinque esponenti della cultura cattolica al questionario predisposto dalla rivista «Questitalia» nel marzo del 1965 sul tema Stato, Chiesa e Concordato. La gran parte degli interpellati sostenne infatti la necessità di superare lo scarto fra la struttura formale dell’articolo 7 – imperniato sulla delimitazione delle sfere di sovranità e sulla previsione di un sistema di collegamento fra due istituzioni, la Chiesa e lo Stato – e l’esplicita affermazione, contenuta nella carta costituzionale, dei diritti e dei valori di libertà e di eguaglianza.
Si trattava ancora di posizioni assai circoscritte e in ogni caso distanti dalla sensibilità e dagli orientamenti di gran parte dell’episcopato italiano chePaolo VI ben conosceva, se nell’estate del 1965, all’assemblea dell’episcopato veneto e lombardo, Carlo Colombo spese il suo prestigio di ‘teologo del papa’ a sostegno del De libertate. In quell’occasione, ricordando i desiderata di Paolo VI per il massimo di unanimità possibile, invitò anche i vescovi presenti a esporre le loro eventuali riserve rispetto allo schema, perché potesse nel caso rispondervi o farsene portavoce presso il Segretariato. Se i suoi argomenti non riuscirono evidentemente a rassicurare chi – come Ruffini o il presidente uscente della Cei, il cardinale di Genova, Siri – restò fino all’ultimo fermo nel rigetto in toto dello schema del Segretariato e si rivolse quindi direttamente al pontefice per ricordargli le gravi conseguenze che esso avrebbe avuto in termini di incoraggiamento all’indifferentismo religioso, qualcosa stava tuttavia cominciando a muoversi anche in quella zona ‘grigia’ dell’episcopato che, pur non appartenendo alla minoranza conciliare, nutriva in ogni caso forti preoccupazione per le conseguenze di un documento evidentemente dissonante da quanto studiato sui manuali. È all’interno di questa zona dai contorni abbastanza incerti, e in cui si sarebbe in definitiva giocata la partita del voto, che si colloca la maggioranza dei vescovi italiani nell’ultimo periodo del Vaticano II – settimane convulse, nelle quali la negativa nozione di libertà religiosa, quale duplice immunità dalla costrizione e dalla restrizione, passa dal livello di definizione teologica a quello di definizione magisteriale. In questa ultima fase, in cui si assiste alla tardiva adesione dell’insieme dell’episcopato italiano alla sostanza del quarto schema presentato in aula dal Segretariato per l’unità, un ruolo significativo ebbe in particolare il patriarca di Venezia, Urbani, da poco nominato da Paolo VI alla direzione provvisoria della Cei; con un intervento preparato da Colombo, il cardinale di Venezia traghettò infatti nell’area di un consenso iuxta modum allo schema oltre una trentina di vescovi della penisola, dando il suo placet alla sostanza del testo pur ribadendo la necessità di perimetrare più chiaramente il terreno giuridico e civile su cui di fatto esso già si poneva. Nella stessa direzione si iscrisse anche un intervento dell’arcivescovo di Bari, Nicodemo, la cui maggiore preoccupazione era soprattutto per il delicato crinale dei rapporti fra fedeli e autorità ecclesiastica, rispetto alla quale occorreva a suo parere che la dichiarazione conciliare prevenisse i rischi di un individualismo religioso e di una deconsiderazione del ruolo di guida dell’autorità ecclesiastica. Meno articolato di quello di Urbani, l’intervento di Nicodemo era comunque altrettanto espressivo della timidezza con cui una parte significativa dell’episcopato italiano si accingeva a raccordarsi alle fila di una maggioranza sempre più visibilmente eterogenea, nella quale non si mancava talora di registrare una palpabile insoddisfazione per le soluzioni adottate dalle commissioni conciliari.
Rispetto al De libertate, indicative della frammentazione di una maggioranza priva di un sentire comune furono in particolare le osservazioni critiche sviluppate da Giuseppe Dossetti nel corso dell’estate 1965, in vista dell’incontro di alcuni vescovi della regione emiliano-romagnola, e che riecheggiarono quindi parzialmente in aula, nel settembre successivo, nell’intervento dell’arcivescovo di Ravenna, Salvatore Baldassarri. Vi trovava espressione il disagio, assai diffuso in molti ambienti francofoni, per uno schema che, accordando la precedenza logica agli enunciati e alle giustificazioni di ordine razionale rispetto a quelli tratti dal dato rivelato – per la preoccupazione di fare un discorso comprensibile a tutti gli uomini e di rispettare la distanza fra la dottrina scritturistica e la moderna nozione di libertà religiosa –, aveva finito invece per il perito bolognese «col non tener conto dell’affermata diversità tra la libertà civile e la libertà evangelica e col lasciare infiltrare profondamente i concetti e le prospettive razionali anche nel discorso sulla visione propriamente cristiana, la quale ne è risultata così notevolmente depotenziata»13. La proposta alternativa di schema quindi formulata da Dossetti e i vota per un’affermazione «vigorosa e convinta» della libertà religiosa sulla base della rivelazione, che avrebbe dato a suo parere «più ala a tutto il discorso» consentendo a un tempo «una più sicura distinzione dei due piani e una enunciazione più vigorosa [...] della libertà religiosa secondo ragione», non ebbero tuttavia circolazione in una fase in cui la preoccupazione dominante appariva piuttosto quella di inserire dei ritocchi ‘rassicuranti’ per tranquillizzare la minoranza e più ampi settori episcopali ancora titubanti.
Non scevro da reticenze e talora da ambiguità, anche per l’episcopato italiano questo passaggio nell’area del consenso che si esprime nel voto trovò dunque il suo innesco e il suo ritmo all’interno delle più profonde e complessive dinamiche innescate dalla convocazione di un concilio voluto, da chi lo aveva indetto, come eminentemente ‘pastorale’, percorso cioè da un atteggiamento nuovo, non più definitorio e contrappositivo, di fronte alle sfide del presente. Nonostante i flussi e i riflussi incontrati nella stagione postconciliare, il Vaticano II ha un impatto profondo e irreversibile sulla Chiesa italiana veicolando un mutamento a volte incerto, ma inarrestabile dello stesso modo di porsi dei cattolici nei confronti del consorzio civile. Il qualificarsi della Chiesa come comunione itinerante e peccatrice, piuttosto che come accentrata società perfetta; il riconoscersi solidale con il mondo del proprio tempo; un nuovo modo di porsi di fronte ai pubblici poteri – che apre la strada a una crescente diaspora dei cattolici dalla loro collocazione politica e allarga un atteggiamento di insofferenza per le compromissioni politiche della Chiesa; la maturazione di una coscienza ecumenica – che rende possibile l’apertura di nuovi spazi di disponibilità nei confronti dei cristiani non cattolici – sono tutti elementi e processi di cui difficilmente si potrebbe sottovalutare l’incidenza nella successiva riflessione su una questione, quale quella della libertà religiosa, che il concilio pose, e in qualche modo ‘impose’ alla Chiesa e ai cattolici italiani. È una riflessione che si polarizza presto, quasi esclusivamente, sulla necessità o meno di un superamento della ‘diplomazia concordataria’ alla luce delle nuove prospettive aperte dal Vaticano II, riaccendendo e soprattutto allargando un dibattito – sul rapporto tra i principi sanciti dalla Costituzione e alcune norme del regime pattizio – che esce ben presto al di fuori dei circoli degli ecclesiasticisti e vede quindi coinvolto anche un crescente numero di esponenti di area cattolica; una riflessione e un dibattito che, con evidente ritardo rispetto all’evoluzione della coscienza della società, lasciano emergere chiaramente come l’avvio di un modo nuovo dei cattolici di essere e di vivere nella Chiesa condizioni e dinamizzi lo stesso loro modo di essere cittadini.
1 Per una bibliografia essenziale di riferimento si vedano: P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, in Il fascismo e le autonomie locali, a cura di S. Fontana, Bologna 1973, pp. 331-394; G. Peyrot, Gli evangelici nei loro rapporti con lo Stato dal fascismo ad oggi, Torre Pellice 1977; C. Cardia, La riforma del Concordato. Dal confessionismo alla laicità dello Stato, Torino 1980; G.P. Fogarty, The Vatican and the American Hierarchy from 1870 to 1965, in Päpste und Papsttum, XXI, Stuttgart 1982, pp. 313-345; A. Riccardi, Il “partito romano” nel secondo dopoguerra (1945-1954), Brescia 1983; G. Sani, Da De Gasperi a Fanfani. «La Civiltà Cattolica» e il mondo cattolico italiano nel secondo dopoguerra (1945-1962), Brescia 1986; G. Alberigo, La chiesa italiana tra Pio XII e Paolo VI, in Chiese italiane e Concilio. Esperienze pastorali nella chiesa italiana tra Pio XII e Paolo VI, a cura di G. Alberigo, Genova 1988, pp. 15-34; G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’età della Costituente, Bologna 1990; L. Manetti, «La Civiltà Cattolica» e l’adesione italiana al Patto Atlantico, in L’Italia e la politica di potenza in Europa, a cura di E. Di Nolfo, R.H. Rainero, B. Vigezzi, Milano 1990, pp. 391-419; M. Velati, I “consilia et vota” dei vescovi italiani, in À la veille du Concile Vatican II. Vota et Réactions en Europe et dans le Catholicisme oriental, a cura di M. Lamberigts, Cl. Soetens, Leuven 1992, pp. 83-97; P. Chenaux, Paul VI et Maritain. Les rapports du “montinianisme” et du “maritainisme”, Brescia 1994; V. De Marco, Le barricate invisibili. La chiesa in Italia tra politica e società (1945-1978), Lecce 1994; F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Galatina 1994; G. Formigoni, La democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna 1996 ; J.A. Komonchak, The silencing of John Courtney Murray, in Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri et al., Bologna 1996, pp. 657-702; J.-D. Durand, La “furia francese” vue de Rome: peurs, suspicions et rejets des années 1950, in Religions par-delà les frontières, a cura di M. Lagrée, N.J. Chaline, Paris 1997, pp. 15-35; É. Fouilloux, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II. 1914-1962, Paris 1998; G. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi, in St.It.Annali, XIV, Legge, Diritto, Giustizia, a cura di L. Violante, L. Minervini, 1998, pp. 713-790; S. Scatena, Il mondo cattolico italiano e la questione della libertà religiosa nella prima metà degli anni ’50: il problema costituzionale, dottrinale e diplomatico, tesi di dottorato discussa nel marzo 2000 all’Università di Roma Tre, relatore P. Scoppola; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e limiti della presenza americana in Italia, Roma-Bari 1999; Storia del concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, ed. it. a cura di A. Melloni, 5 voll., Bologna-Leuven 1995-2001; S. Scatena, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione «Dignitatis humanae» sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003.
2 S. Lener, I Patti Lateranensi e la nuova Italia, «La Civiltà cattolica», 101/4, 1950, pp. 609-621.
3 A. Messineo, Democrazia e religione, «La Civiltà cattolica», 101/1, 1950, pp. 137-148.
4 A. Messineo, La coscienza soggettiva e la vita sociale, «La Civiltà cattolica», 101/2, 1950, pp. 497-510.
5 A. Ottaviani, Doveri dello Stato cattolico verso la religione, Roma 1953, pp. 32-33.
6 Lettera collettiva, in Enchiridion Cei, I, 1954-1972, Bologna 1985, pp. 41-55.
7 P. Pardo, Vita difficile per i protestanti sotto il governo Scelba, «Paese», 8 giugno 1955.
8 P. Pardo, Vita difficile, cit.
9 Fervide sollecitudini ed esortazione del Sommo Pontefice Pio XII nell’incontro con i Parroci e i Predicatori quaresimalisti di Roma, «L’Osservatore romano», 6 marzo 1957.
10 É. Fouilloux, Une Église en quête de liberté, cit., p. 254.
11 Suprema Congregatio Sancti Offici, Ecclesia et Status. De officiis Status catholici erga religionem, giugno 1958, Fondo Gagnebet, III, 1, 18, Istituto per le scienze religiose di Bologna.
12 Il laicismo. Lettera dell’Episcopato italiano al clero, in Enchiridion Cei, I, 1954-1972, cit., pp. 76-95.
13 G. Dossetti, Valutazione complessiva dello schema sulla libertà religiosa, Fondo Dossetti, VII, 587, Istituto per le scienze religiose di Bologna.