Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il profondo mutamento dei flussi migratori nel corso del Novecento, pone gli Stati del continente di fronte a problemi inediti e a situazioni difficili da governare. Le politiche mirate al contenimento della mobilità internazionale si scontrano con la natura strutturale del fenomeno migratorio, la cui dimensione crescente impone la centralità della questione dell’integrazione degli immigrati nelle diverse società di accoglienza.
La mobilità internazionale
La parola migrazione copre il campo semantico della coppia emigrazione/immigrazione, ma il suo significato può essere definito con maggiore intensione in riferimento a quei processi di mobilità internazionale dei gruppi umani che incidono strutturalmente sulle società dei Paesi di destinazione. Da questo punto di vista, l’Europa del Novecento è interessata da fenomeni di migrazione soprattutto nella seconda metà del secolo, nel passaggio da terra di emigrazione a terra di immigrazione.
La dinamica dei flussi umani nell’età contemporanea è caratterizzata da congiunture mutevoli e da profonde trasformazioni. La prima guerra mondiale interrompe una fase di emigrazione di massa dal continente europeo, aperta dalla forte crescita demografica del XIX secolo e connessa al processo di industrializzazione. A trarre beneficio dall’esodo di forza lavoro dai Paesi europei sono soprattutto gli Stati Uniti e, in misura minore, il Canada, l’Australia e i Paesi dell’America Latina. Gli Stati europei esportatori di manodopera favoriscono l’emigrazione dei propri cittadini: la Gran Bretagna liberalizza l’espatrio già nel 1830 e provvedimenti analoghi sono emanati, un decennio più tardi, nei Paesi scandinavi, nel corso degli anni Sessanta, in Francia e in Germania, e, negli ultimi venti anni del secolo, in Spagna e in Italia. Nei due decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, vengono avviate le prime forme di controllo dell’immigrazione: gli Stati Uniti (seguiti dal Canada e dall’Australia) si dotano di legislazioni restrittive e discriminatorie, finalizzate a impedire l’accesso ai propri territori a certi gruppi etnici (cinesi e giapponesi) e a specifiche categorie di soggetti (analfabeti, persone con difetti fisici o infermità mentali, anarchici e sovversivi).
Alla brusca cesura della Grande Guerra segue un periodo di migrazione limitata. Nonostante vi sia una ripresa dei movimenti migratori nel corso degli anni Venti, la promulgazione di normative fortemente restrittive e la recessione economica che culmina nella Grande Depressione del 1929 concorrono sostanzialmente a bloccare la mobilità internazionale. Ancora una volta sono gli Stati Uniti i primi a imporre misure di contenimento dell’immigrazione, basate su un sistema che associa a ciascun Paese di invio una determinata quota di ingressi. In questo periodo, per effetto delle conseguenze geopolitiche del primo conflitto mondiale, i movimenti migratori sono per lo più di natura forzata, essendo prodotti da diffuse ristrutturazioni nazionali, operate spesso su base etnica e realizzate attraverso veri e propri scambi di popolazione. La seconda guerra mondiale acuisce questo processo. Durante il conflitto, nella sola Europa, circa 30 milioni di persone sono costrette a lasciare il proprio Paese. Alla fine della guerra, i profughi sono almeno 14 milioni.
La crescita economica e l’espansione della produzione industriale costituiscono il motore della ripresa dei movimenti migratori nel secondo dopoguerra. I maggiori Stati europei incoraggiano l’immigrazione attraverso programmi di pianificazione degli ingressi, basati su negoziati e accordi bilaterali stipulati con i Paesi di invio. Questa campagna di reclutamento di manodopera straniera coinvolge prevalentemente la Turchia, la regione del Maghreb, e gli Stati del nuovo e del vecchio Commonwealth britannico, ma anche (almeno fino agli anni Sessanta) i Paesi europei dell’area mediterranea. Già durante questi anni, la posizione dei Paesi esportatori di forza-lavoro appare visibilmente subalterna rispetto a quelli di destinazione: il volume, la composizione e i tempi dei flussi migratori sono definiti interamente dalla domanda piuttosto che dall’offerta di manodopera. Questo risulta evidente con il blocco unilaterale dell’immigrazione imposto dagli Stati di destinazione durante la fase di recessione economica avviata dalla crisi petrolifera del 1973. Essa inaugura il periodo del controllo delle migrazioni di cui la fase attuale rappresenta il momento culminante.
La chiusura delle frontiere dei maggiori Stati europei, insieme alle misure volte a incentivare i rimpatri volontari, contribuisce a intensificare processi di trasformazione già in atto relativi alla mobilità internazionale, che acquisisce progressivamente una maggiore complessità strutturale. Si espande la geografia delle migrazioni che tende ad assumere una dimensione sempre più globale. La partecipazione ai processi migratori si allarga e si assiste a un consistente riorientamento dei flussi verso nuove nazioni importatrici di manodopera: prima verso i Paesi del Golfo, che beneficiano delle risorse provenienti dalla vendita del petrolio, poi, nel corso degli anni Ottanta, verso i Paesi di nuova industrializzazione del Sud-Est asiatico. La rapida accelerazione della mobilità internazionale è favorita dai progressi del sistema della comunicazione e dei trasporti e dallo squilibrio sempre più accentuato tra l’alto tasso demografico e la scarsità di risorse che caratterizza i Paesi poveri e le aree in via di sviluppo. Accanto a questi fattori, il motore decisivo all’origine delle migrazioni rimane comunque la domanda di lavoro proveniente dai Paesi di destinazione. Dove questa è associata a rilevanti tassi di disoccupazione, come avviene nelle società economicamente più avanzate, risalta il carattere sistemico dei processi migratori nel capitalismo contemporaneo. Alla diversificazione dell’emigrazione, che è sempre più ispirata a strategie economiche socialmente differenziate, e alla frammentazione dei fattori all’origine della mobilità internazionale corrisponde un atteggiamento convergente e univoco dei Paesi di immigrazione, orientato al controllo e alla gestione unilaterale dei flussi, organizzati attraverso un sistema di regole, requisiti e condizioni, imposti agli Stati di invio.
In Europa la chiusura delle frontiere agli inizi degli anni Settanta, anziché realizzare un sostanziale blocco dell’immigrazione, produce un’alterazione qualitativa dei movimenti migratori. All’aumento delle domande di ricongiungimento familiare degli immigrati già presenti sul territorio, delle richieste di asilo e degli ingressi clandestini e irregolari, i tradizionali Paesi di destinazione dei flussi (cui si aggiungono in un momento successivo quelli dell’area mediterranea) rispondono adottando una politica congiunta orientata, da un lato, al massimo contenimento degli ingressi e, dall’altro, all’implementazione di programmi di inserimento sociale degli immigrati nelle comunità nazionali. Vengono progressivamente attivati dispositivi di controllo delle frontiere sempre più rigorosi e sofisticati: dall’estensione degli obblighi di visto alle sanzioni dirette verso i vettori di trasporto, le quali funzionano da ostacolo all’arrivo di migranti sprovvisti dei documenti necessari per l’ingresso; dalla diffusione delle espulsioni e dei rimpatri coatti, all’introduzione della pratica della detenzione amministrativa degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio, che agiscono come strumenti di repressione all’interno dei confini degli Stati di destinazione. L’adozione di queste misure (coordinata in base a un intensa attività intergovernativa che ha recentemente portato alla definizione in seno all’Unione Europea di un processo di armonizzazione delle politiche in materia di immigrazione e asilo) ha comunque soltanto rallentato la formazione di comunità numerose di immigrati, che è stata il risultato più rilevante del passaggio da un sistema migratorio circolare a un tipo di migrazione permanente, caratterizzato dall’insediamento di interi nuclei familiari.
Politiche di integrazione
È proprio questa novità strutturale a spingere gli Stati di destinazione, già a partire dall’inizio degli anni Settanta, a progettare politiche rivolte all’inserimento degli immigrati: a quella che oggi comunemente si chiama “integrazione”, che è vocabolo tanto polisemico quanto specifico e variabile è il processo cui si riferisce. L’integrazione, intesa come un percorso che coinvolge ogni istante della vita dell’immigrato, è da qualche decennio ritenuta una necessità. L’approccio istituzionale all’integrazione varia considerevolmente secondo le specifiche strutture sociopolitiche degli Stati di accoglienza, le diverse esperienze immigratorie e i differenti obiettivi affidati alle stesse politiche per l’integrazione. In linea generale, però, i percorsi di integrazione tendono a ispirarsi a due modelli: il modello assimilazionista, tradizionalmente associato alla Francia e alla Germania, e il modello multiculturalista, adottato dalla Gran Bretagna, dalla Svezia e dai Paesi Bassi. Il primo punta sull’inserimento sociale e culturale dell’immigrato attraverso la costituzione di istituzioni, preposte all’erogazione di servizi rivolti agli stranieri presenti sul territorio, le cui attività sono mirate a favorire l’assimilazione dell’immigrato nella comunità nazionale dello Stato che lo accoglie e a garantirgli pari opportunità rispetto ai cittadini. Il secondo punta invece ad assorbire, attraverso la predisposizione di misure antidiscriminatorie, le popolazioni immigrate nella sfera economica, sociale e politica, incoraggiando, al contempo, la preservazione delle identità culturali nella sfera privata.
Oggi le diverse tradizioni nazionali sembrano convergere su un atteggiamento comune, che concepisce l’integrazione come un processo dinamico e di lungo periodo che coinvolge gli immigrati e la società di accoglienza in un percorso di reciproca trasformazione. Il discorso politico sull’integrazione è infatti necessariamente un discorso sull’identità delle comunità nazionali e degli effetti su queste provocati dalla presenza sempre più numerosa di soggetti portatori di altre culture, altri valori e altre tradizioni. In questo contesto emerge la prospettiva politica dell’interculturalismo, che valorizza una pratica del riconoscimento culturale, entro la quale prevalgano atteggiamenti volti alla conoscenza, al confronto e allo scambio reciproco fra le culture, che siano capaci di aprire uno spazio reale per la formazione di ibridazioni culturali, per la costruzione di sintesi (sempre modificabili) delle identità che entrano in contatto per effetto del fenomeno migratorio. L’integrazione, da questo punto di vista, si presenta come l’esito, mai definitivo, di un’incessante attività di negoziazione, informata, da un lato, al recupero della natura irriducibilmente storica e contingente di quegli elementi che si considerano costitutivi della forma di vita condivisa dalla comunità nazionale, e, dall’altro, al riconoscimento del valore della differenza culturale rappresentata dalle comunità immigrate.
Nonostante gli sforzi in questa direzione, i risultati conseguiti rimangono molto modesti. Parte di questo insuccesso è dovuta alla sostanziale esclusione degli immigrati dalla sfera politica delle società di accoglienza, cui contribuisce il difficile accesso alle forme di naturalizzazione predisposte per l’ottenimento della cittadinanza. Simili orientamenti politici appaiono inadeguati alla natura strutturale del fenomeno migratorio, ma ancora più anacronistico appare il dispiegamento massiccio delle azioni negative di contrasto dell’immigrazione, mirate non già a un razionale controllo quantitativo e qualitativo dei flussi, quanto al proposito di conseguire un azzeramento tendenziale della mobilità internazionale: obiettivo che mal si adatta al ruolo centrale che le migrazioni continueranno a rivestire nel nuovo millennio, modellato da tendenze irreversibili e di lungo periodo, come gli squilibri tra il tasso di sviluppo economico e l’andamento demografico nei Paesi poveri, da un lato, e, dall’altro, l’invecchiamento delle popolazioni dei Paesi ricchi.