di Anna Bosco
La natura multinazionale dello stato spagnolo ha creato a più riprese fasi conflittuali. La spinta indipendentista delle regioni lontane da Madrid si è scontrata con il tentativo di unificazione del centro. Nel caso della Catalogna la perifericità territoriale, coniugata con la centralità economica, ha amplificato la sfida autonomista. Distinta dal resto della Spagna da una propria lingua e cultura, la Catalogna aveva avanzato rivendicazioni nazionaliste già durante la Seconda repubblica (1931-36). La centralizzazione perseguita dal regime franchista, che cancellò ogni simbolo dell’identità regionale (inno, bandiera) e vietò l’uso pubblico e privato della lingua, arrivando a distruggere la corrispondenza in catalano, non dissolse il desiderio di autonomia. Al contrario: la transizione dal franchismo alla democrazia fu accompagnata da un processo di decentramento che istituì lo ‘stato delle autonomie’, delineato dalla Costituzione, approvata consensualmente nel 1978. In quanto nazionalità storica, la Catalogna ottenne subito un livello di autogoverno elevato, con competenze su istruzione, sanità, lingua e mezzi di comunicazione. Tuttavia, poiché la Costituzione non stabiliva un elenco fisso delle competenze regionali, ma proponeva piuttosto un menu di scelte possibili su cui Madrid e le autonomie potessero accordarsi, il processo di decentramento restò incompiuto e destinato a rimettersi in moto al variare delle contingenze politiche.
Così, negli anni Novanta l’autonomia di cui godeva la Catalogna fu ampliata, con il sostegno della coalizione nazionalista e conservatrice Convergència i Unió (CIU) ai governi di minoranza del PSOE (1993-96) e del PP (1996-2000). Contrattando il proprio appoggio nel Parlamento di Madrid, la CIU riuscì a ottenere il trasferimento alla Catalogna di nuove risorse, competenze e ambiti di autonomia fiscale e legislativa. Dopo il secondo governo Aznar (2000-04), contrario a ogni ulteriore decentramento, il socialista Zapatero (al governo dal 2004 al 2011) ha aperto una fase di dialogo con le regioni che ha permesso la riforma degli statuti di autonomia. In questo quadro, nel giugno 2006, il nuovo statuto della Catalogna è stato approvato con un referendum dal 74% dei Catalani, dopo un lungo negoziato conflittuale che ha investito sia il Parlamento regionale sia quello nazionale. Contro il nuovo statuto si è pronunciato il PP, che lo ha considerato un attentato all’unità del paese e ha deciso di impugnarlo davanti al Tribunale costituzionale. La risposta al ricorso è arrivata soltanto nel 2010, dopo quattro anni segnati dalla divisione dei giudici, nonché da crescenti tensioni tra la classe politica catalana e il governo spagnolo. Il Tribunale ha dichiarato incostituzionali 14 degli oltre 200 articoli che componevano il documento e ha imposto un’interpretazione restrittiva di altri 27. Tra i punti più importanti che sono stati rigettati: la concezione dello statuto come documento in grado di definire i poteri regionali attraverso l’elenco dettagliato delle competenze della comunidad; la ridefinizione dei rapporti con il governo centrale attraverso relazioni bilaterali; la dignità statutaria assegnata alla politica linguistica, fino a quel momento raccolta in leggi ordinarie. Inoltre il riferimento introdotto dallo statuto alla ‘nazione’ catalana e ai ‘simboli nazionali’ è stato depotenziato. La sentenza è considerata l’elemento scatenante di una nuova fase di rivendicazioni nazionaliste. Tra il 2010 e il 2013 diversi fattori, di natura politica ed economica, hanno avviato una spirale di polarizzazione tra il nazionalismo catalano e quello spagnolo che, a differenza di quanto avvenuto in passato, è stata accompagnata dalla crescita del sentimento indipendentista popolare. La sentenza sullo statuto di autonomia ha sollevato, in particolare, una forte indignazione, esplosa nella oceanica manifestazione di protesta che si è svolta a Barcellona il 10 luglio 2010 con lo slogan «Siamo una nazione. Decidiamo noi». Le elezioni catalane del novembre 2010 hanno poi segnato, dopo sette anni di assenza, il ritorno al governo della CIU che, sotto la guida di Artur Mas, ha adottato un programma incentrato sulla richiesta a Madrid di un sistema di finanziamento più favorevole alla Catalogna. Inoltre, l’alternanza al governo centrale, con il Partido Popular che, dal novembre 2011, ha sostituito il PSOE, si è tradotta in una linea di rigida austerità economica e ri-centralizzazione decisionale. Le richieste fiscali catalane sono state respinte. Contestualmente si è esacerbato il rapporto centro-periferia. Nel luglio 2012 la crisi economica ha obbligato la Catalogna, esclusa dai mercati finanziari internazionali, a chiedere un bailout al governo centrale. La necessità del salvataggio è stata presentata come prova del ‘saccheggio’ cui è stata sottoposta la regione, il cui contributo alle entrate dello stato è superiore ai trasferimenti ricevuti, con una differenza che oscilla tra il 6,4 e l’8,7% del PIL regionale. Nel novembre 2012, CIU ha perso le elezioni anticipate che aveva convocato promettendo un referendum sull’indipendenza. I risultati hanno quindi obbligato Mas a un accordo di legislatura con la formazione indipendentista radicale balzata al secondo posto, Esquerra republicana de Catalunya (ERC). Le richieste di ERC hanno accelerato i tempi, con la convocazione del referendum sull’indipendenza il 9 novembre 2014. Resta da vedere se si terrà, e con quale esito. Da un lato, la Costituzione vieta ai governi regionali di indire referendum, compito che spetta al premier previa autorizzazione del congresso dei deputati. Dall’altro, invece, benché i catalani che sostengono l’indipendenza siano in crescita – dal 25% dell’ottobre 2010 al 48,5% del novembre 2013, secondo i sondaggi della Generalitat –, esiste una ampia maggioranza che, pur insofferente ai limiti imposti da Madrid, ritiene la secessione una scelta troppo rischiosa.