Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le posizioni sull’alchimia di Alberto Magno, Geber latino e Ruggero Bacone contribuiscono a focalizzare problematiche sulla legittimità tecnica, scientifica e morale di questa disciplina già emerse nei precedenti tentativi di assimilarla ai principi della filosofia naturale aristotelica e che ora vengono affrontate in un dibattito allargato, che va oltre le argomentazioni speculative del mondo accademico per esplorare le posizioni anche di coloro che erano più o meno direttamente coinvolti nella sperimentazione alchemica.
Durante il XIII secolo il dibattito sull’alchimia si polarizza in due prospettive contrapposte: da un lato, nel contesto della cultura universitaria, la trasmutazione di specie viene affrontata nei termini della quaestio, un metodo argomentativo di tipo dialettico utilizzato per risolvere le contraddizioni e i contrasti nelle dottrine filosofiche e scientifiche, mentre dall’altro lato gli alchimisti cercano di mostrare, come nel Liber Hermetis e nella Summa perfectionis, la legittimità e la validità delle dottrine alchemiche sul piano empirico. A questi testi si allinea anche la Theorica et Praticadi Paolo di Taranto (lo stesso autore che si cela dietro la Summa perfectionis), nella quale si cerca di dare una visione riduttiva delle problematiche antitrasmutazioniste sollevate dalle argomentazioni di Avicenna presenti nel De congelatione et lapidum e nella Epistula ad Hasen. La tesi di fondo di Paolo di Taranto è quella di riconoscere all’uomo la capacità di intervenire nei processi naturali di trasformazione delle specie.
Le arti sono classificabili in due categorie: quelle che lavorano sulle “forme estrinseche” alla sostanza, come la pittura e la scultura, e quelle che lavorano sulle “forme intrinseche”, come l’agricoltura e la medicina; questa classificazione si basa sulla distinzione tra qualità primarie (caldo, freddo, secco, umido) e secondarie (colori, odori, sapori ecc.), per la quale solo le arti che intervengono sulle prime possono essere considerate trasmutatorie. Non si tratta tuttavia di interventi diretti dell’artefice nel processo di creazione delle forme sostanziali ma, conoscendo i principi con i quali lavora la natura, l’alchimista, così come il medico e l’orticultore, crea le condizioni perché si realizzi la trasmutazione di specie. Riferendosi alla posizione antitrasmutazionista di Avicenna, Paolo di Taranto afferma che la tesi per cui le specie non sono artificialmente manipolabili è sostenibile soltanto nel caso in cui gli interventi degli artefici siano diretti alle forme secondarie, ma se invece la loro azione è diretta alle qualità primarie le modificazioni sostanziali sono possibili. Se si riconosce all’uomo la capacità di codificare i processi di generazione e corruzione naturali, il problema della trasmutazione di specie diventa una questione prettamente tecnologica e all’alchimista restano soltanto da perfezionare gli apparati sperimentali per la separazione e la sintesi degli elementi che compongono le sostanze. Nella Theorica et practica Paolo di Taranto intende proprio porre una distinzione tra le tecniche, che rimangono all’interno di una dimensione artigianale, e le scienze applicate (medicina, agricoltura e alchimia), che, invece, intervengono sui meccanismi di trasformazione della natura con cognizione di causa e nel rispetto dei principi sui quali essa si basa. Questa distinzione tra artigiani e scienziati è importante perché colloca l’alchimia tra le scienze applicate, motivando la sua appartenenza a questa categoria con una serie di evidenze sperimentali che, se non sono sufficienti sul piano tecnologico per mostrare la riuscita dell’opus, lo sono sul piano sperimentale per dare una solida giustificazione, anche se non definitiva, alla teoria della trasmutazione.
Un altro intervento autorevole a favore dell’alchimia risalente al secondo e terzo decennio del XIV secolo è quello del medico Pietro Bono da Ferrara che, nella sua Pretiosa margarita novella, affronta il tema dello statuto epistemologico di questa disciplina cercando di presentarla come un’arte subordinata alle regole generali della filosofia naturale. Per Pietro Bono le dottrine alchemiche costituiscono un corpus teorico complesso accessibile a vari livelli di specialismo, e, quindi, tutti i fraintendimenti e le incongruenze che possono sorgere tra il discorso filosofico e quello alchimistico sono da ricercare nel fatto che i due linguaggi non sono immediatamente traducibili l’uno nell’altro. Le conoscenze naturalistiche e mineralogiche sono troppo generali per una comprensione immediata delle teorie alchemiche che, seppure dipendenti da queste, sono molto più specifiche e determinate. La filosofia naturale e la mineralogia forniscono all’alchimia teorica le ragioni generali del discorso che quest’ultima riduce ed applica al proprio determinato soggetto.
Per Pietro Bono l’alchimia è una disciplina scientifica che si occupa dei corpi naturali suscettibili di moto e per questo motivo deve essere considerata parte della fisica. Risolto in questo modo il problema della collocazione dell’alchima nelle gerarchie del sapere, Bono si pone quello della sua legittimità epistemologica concludendo che talvolta la mancanza di chiarezza terminologica e argomentativa si rende necessaria agli alchimisti, perché certi aspetti della loro disciplina sono refrattari ad essere trattati sul piano razionale e la loro evidenza ci sfugge. I risultati dell’opus, si raggiungono solo per esperienza e si colgono per illuminazione e rivelazione divina. In definitiva, quindi, per Pietro Bono l’alchimia, oltre che scienza e arte, è anche un dono di Dio, il cui risultato è il frutto di argomentazioni e operazioni razionali ma, in ultima istanza, anche di interventi miracolosi.