La protostoria
Il termine e concetto di «protostoria» (cui corrispondono il ted. Frühgeschichte e l’ingl. early history, quest’ultimo di carattere meno tecnico) venne coniato sin dal 1908 (J. Dechelette), ma è entrato in uso negli studi sull’antichità negli anni Trenta del Novecento, per diventare poi di impiego frequente (e con statuto accademico specifico) soprattutto a partire dagli anni Sessanta, con accezioni in parte variabili a seconda dei Paesi (per tradizioni e specificità storiche) e anche delle aree oggetto di studio; ma riconducibili a due principali filoni. Il primo uso, originario e più tecnico, è di designare come «protostoria» l’insieme di quelle fasi nello sviluppo di determinate società umane, per le quali non si disponga di fonti scritte interne e coeve, e la cui ricostruzione sia dunque affidata, da un lato, alla documentazione archeologica (per i sistemi di insediamento e la cultura «materiale») e, dall’altro, a informazioni testuali derivanti però da fonti esterne (di comunità contigue o entrate in rapporto) o da tradizioni posteriori (di natura «storiografica» o anche leggendaria). Casi tipici, cui in prima applicazione venne riferito il termine, sono quelli del mondo europeo preromano (per es. il mondo celtico, quello germanico, o la stessa Italia preromana), ben documentati archeologicamente ma oggetto di fonti letterarie solo da parte di autori greci e latini (Cesare per i galli, Tacito per i germani ecc.), a prescindere da qualche epigrafe locale di intendimento incerto e di rilevanza storica modesta.
In questa prima accezione si intendeva mantenere la tradizionale distinzione tra storia e preistoria basata sulla presenza o meno di fonti scritte, ma il concetto intermedio di protostoria palesava già di per sé un qualche disagio, se non concettuale almeno applicativo: come considerare quei periodi e quelle aree in cui la fonte scritta è modestamente presente, con informazioni esterne, o con poche epigrafi, o magari con testi indecifrati? La protostoria, inserendosi tra preistoria e storia, veniva a porre rimedio a queste difficoltà, conferendo maggiore dignità ai casi intermedi e guadagnando in qualche modo alla storia dei segmenti che non si volevano abbandonare all’indistinta preistoria. Si noti che, concettualmente ed etimologicamente, il prefisso proto sta a indicare un processo già iniziato, già in atto e tale da sfociare poi nella pienezza della storia. Si introduceva dunque (con il secondo dopoguerra) anche l’implicazione (magari inavvertita) che i popoli «senza storia» sarebbero rimasti sempre a livello preistorico (se non avevano avuto la fortuna di essere colonizzati da società storiche), mentre quelli che hanno una protostoria ben presto avrebbero avuto anche una loro storia vera e propria (basta che comincino a scrivere). Da fatto tecnico, relativo alla disponibilità di una classe documentaria, la protostoria si complicava così di aspetti storiografici e ideologici.
Il fatto è che alla metà del sec. 20° stava prendendo corpo, su scala mondiale, il processo di decolonizzazione non solo nei suoi aspetti politici, ma anche nei suoi riflessi (o presupposti) culturali e in particolare storiografici. Il concetto di storia si allargò allora, con vari sfondamenti nel tempo e nello spazio. Nel tempo, si ebbe lo sfondamento «a monte», con l’acquisizione alla storia di tutte le fasi della vicenda umana, preistoria compresa; e «a valle» in direzione del presente (con il concetto e la pratica della «storia contemporanea») e persino del futuro (con procedimenti di simulazione che prendono corpo con l’introduzione dello strumentario informatico). Nello spazio, si ebbe la grande estensione della storia da eurocentrica a mondiale, pur con tutte le difficoltà connesse a tale ampliamento, essendo non semplice sostituire un processo monocentrico con uno pluralistico, ed essendo doloroso per il mondo occidentale perdere il ruolo di asse portante della storia.
In pratica, per quanto riguarda la distinzione tra storia e preistoria, entrava in crisi il valore discriminante della scrittura, avendosi culture molto sviluppate sul piano socioeconomico e politico-istituzionale e però prive di una scrittura formale. Ai processi ideologici, in ultima analisi imperniati sulla necessità di riconoscere e conferire pari dignità a tutti gli Stati-membri della comunità internazionale, si affiancavano e intrecciavano anche fatti propriamente tecnici. Questi sono in particolare relativi alla capacità dell’archeologia (con i contributi delle scienze a essa associati in collaborazioni pluridisciplinari, dalla paleobotanica all’archeozoologia, dalla geologia alla chimica, dalla fisica all’antropologia) di fornire indicazioni di gran peso non solo sulla tipologia delle varie manifestazioni della cultura materiale, ma anche su aspetti dell’economia, della struttura sociale, dell’organizzazione politica, dell’ideologia (religiosa o meno), configurando una ricostruzione di tipo propriamente storico nel suo senso più generale. A esclusione degli apporti scientifici, la stessa pratica archeologica, come reimpostata dalla new archaeology negli anni Settanta del Novecento, era maggiormente in grado di puntare a una ricostruzione globale delle società antiche. Del resto, si verificava anche che gli apporti dell’archeologia alla ricostruzione dei periodi pienamente storici diventavano sempre più importanti (fino a invadere anche i periodi medievale e moderno, per non dire dell’archeologia «industriale»), cosicché la distinzione tra una preistoria basata sull’archeologia e una storia basata sui testi entrava in vario modo in crisi.
Si pensi anche (come caso parallelo) all’introduzione del concetto di chiefdom, a colmare uno iato ormai avvertito come troppo drastico tra un’organizzazione «tribale» e una «statale». E si pensi più in generale alla crisi dello schema ottocentesco basato sulla forte scansione tra uno stadio «selvaggio», uno «barbarico» e uno «civile», con «rivoluzioni» che segnano il passaggio dall’uno all’altro (e con il passaggio dalla barbarie alla civiltà corrispondente appunto al passaggio dalla preistoria alla storia); e la sua sostituzione con un «processi» (al plurale), che meglio rendono sia la progressività nel tempo sia la diversificazione per regioni (con vari percorsi, e «strategie» alternative più o meno consapevoli). Non a caso, nello stesso contesto culturale della decolonizzazione, prendeva impulso anche in antropologia sociale il riconoscimento che anche i popoli «selvaggi» o «primitivi» hanno la loro storia (cioè il loro sviluppo per linee interne) e raggiungono in molti casi una complessità organizzativa (socioeconomica e politica) che potremmo definire protostorica. In questo senso l’uso (tipicamente italiano) del termine «paletnologia» a indicare assieme preistoria e protostoria appare del tutto conseguente.
Prende così corpo il secondo paradigma. Ridimensionato il valore della scrittura come fattore determinante, resta la constatazione che la scrittura è culmine ed esito di un più generale processo di costituzione di società a struttura «complessa», società che proprio per gestire la complessità dei rapporti tra segmenti della comunità di diversa funzione economica e collocazione sociopolitica, devono mettere a punto procedure di registrazione e garanzia spersonalizzata, che generano poi i sistemi di scrittura formale. Dunque la scrittura non ha tanto un valore discriminante in sé, quanto un valore diagnostico; mentre i veri elementi di grande scansione storica sono nell’emergere dello Stato, della città, della specializzazione funzionale, dell’amministrazione, e nel ridimensionamento delle unità gentilizie (dal nucleo familiare al clan alla tribù) a cellule costitutive di un sistema assai più complesso perché basato su rapporti asimmetrici.
In questo modo il concetto di «protostoria» è passato a designare quei periodi (diversamente scaglionati nel tempo, da regione a regione) nei quali il percorso verso la complessità sociopolitica ha già compiuto i suoi passi fondamentali (ci sono dunque città, grandi edifici pubblici, sistemi di economia redistributiva, sistemi di registrazione e garanzia ecc.) ma non è stato ancora messo a punto lo strumento della scrittura, o il suo uso è ancora embrionale e del tutto marginale. Tipici «casi» protostorici sono la Mesopotamia del 4° millennio (dal tardo ‘Ubaid al tardo Uruk, che culmina nella messa a punto della prima scrittura), l’Egitto dello stesso periodo, la civiltà dell’Indo (Harappa e Mohenjo Daro) dalla metà del 3° millennio al primo quarto del 2° (con segni di scrittura su sigilli, di incerta decifrazione), l’Asia centrale dell’età del Bronzo, nonché l’Egeo in fase «minoica» (testi di incerta decifrazione). Altrettanto tipici i casi delle grandi civiltà dell’America precolombiana, o senza scrittura (quelle andine) o con una scrittura (quelle mesoamericane: toltechi, olmechi, maya, a partire dalla metà del 1° millennio d.C.) di impiego solo cerimoniale (calendario) e celebrativo. In ambito estremo orientale il termine di protostoria non è di abituale impiego, ma anche la Cina dell’epoca delle prime dinastie, tra la fine del 3° e l’inizio del 2° millennio, sarebbe un caso tipico (senza scrittura nel periodo Xia, con scrittura limitata a testi divinatori su scapole e carapaci nel periodo Shang). In tutti questi casi, a prescindere dall’assenza ovvero dall’uso embrionale della scrittura, si tratta di società caratterizzate da forti impianti statali, urbanizzazione, edilizia pubblica monumentale (templi e palazzi), amministrazione centralizzata.
In questo senso, mentre dal punto di vista documentario (cioè quanto agli strumenti di lavoro per la nostra ricostruzione) la «protostoria» rimane piuttosto assimilabile alla preistoria, invece dal punto di vista della dimensione (quantitativa e strutturale) dei fenomeni visibili essa risulta piuttosto assimilabile alla storia, non solo nel senso (già precedentemente indicato) che tutta la vicenda umana è da considerarsi storica, ma anche nel senso che dimensione e complessità dei fenomeni non hanno nulla da invidiare ai periodi della storia tradizionalmente intesa. Mentre il primo paradigma mantiene ancora una qualche validità (almeno a livello pratico) nello studio delle società europee (a designare in sostanza l’età dei metalli), invece il secondo si è affermato soprattutto per quelle extraeuropee. Ciò dipende da due motivi (tra di loro non collegati): sia il peso della tradizione, che è molto più forte nello studio delle società europee che nelle altre (in maggior parte riscoperte più di recente), sia lo scenario delle grandi civiltà orientali, delle quali è possibile seguire lo sviluppo progressivo nelle fasi formative, che sarebbe riduttivo respingere nel più generico mondo della preistoria.
Si veda anche