Il problema maggiore relativo alla democratizzazione nel mondo arabo è costituito dalla totale o quasi totale mancanza di democrazia. Se infatti escludiamo il dubbio caso del Libano dall’indipendenza all’inizio della guerra civile nel 1974, il panorama è desolante. Le vicende di Tunisia ed Egitto dopo la caduta di Ben ‘Al¯ı e Mub¯arak sono ancora da determinare nel momento in cui vengono scritte queste note.
La relativa assenza di democrazie tra i paesi a maggioranza musulmana, e in particolare tra i paesi arabi, ha costituito negli ultimi anni una questione oggetto di preoccupazioni e considerazioni politiche e di disquisizioni teoriche. Un’opinione abbastanza diffusa tende a vedere la religione musulmana come incompatibile con la democrazia per il suo identificarsi con un preciso ordinamento politico e legale. Questa opinione, infinitamente discussa sul piano teorico, vede però nell’Indonesia, il più popoloso paese a maggioranza musulmana (una democrazia dal 2005, secondo Freedom House e Polity IV) un valido controesempio. Inoltre, la Turchia è secondo Freedom House sulla soglia della democrazia da alcuni anni, mentre Polity IV la valuta una democrazia addirittura dal 1985. Al tempo stesso, una cospicua minoranza musulmana non ha impedito all’India di essere, come spesso si dice, ‘la più grande democrazia del mondo’.
Avendo posto in dubbio il rapporto causale tra islam e assenza di democrazia, restringiamo la nostra attenzione ai paesi arabi, caratterizzati fino al 2010 da una persistente stabilità dei regimi politici, che li differenzia da molti altri paesi a maggioranza musulmana. Mentre molti paesi musulmani sono stati infatti caratterizzati dall’alternarsi di crisi dei regimi autoritari, instaurazioni e crisi di tentativi democratici, i regimi arabi (a partire dagli anni Cinquanta) denotano una notevole persistenza.
Infatti, a una prima fase di regimi di tipo elettorale, è seguita una fase di turbolenza: tra la fine degli Quaranta e gli anni Cinquanta i (fragili) tentativi costituzionali di Egitto, Iraq e Siria entrarono in crisi e furono sostituiti da regimi militari, con forti aspetti di mobilitazione nazionalista. Sia questi regimi, sia le monarchie passate indenni attraverso la tempesta rivoluzionaria si sono dimostrati complessivamente poco soggetti alla crisi del regime autoritario, ossia alla rottura della coalizione dominante che sostiene il regime. Qual è stata la ragione di tale stabilità? Nel caso delle monarchie del Golfo, in assenza di una forte dinamica demografica, la ragione è fin troppo semplice: l’état rentier scambia servizi - pagati con le rendite petrolifere - contro l’assenza di qualsiasi tipo di partecipazione politica. Più difficile la spiegazione per gli altri paesi, per i quali è anche difficile trovare un denominatore comune. Una spiegazione può essere data dalla scarsa legittimità delle istituzioni, se non come fornitrici di servizi o di favori. Questo ha permesso alle élites dirigenti, spesso strutturate anche nelle repubbliche in grandi famiglie regnanti estese (vedi i casi di Siria, Egitto, Libia, Tunisia), di usare una strategia di alleanze politiche e sociali variabili, rivolte ora a questo ora a quell’attore, sempre unite a una forte presenza delle mukhabar¯at, gli onnipresenti sevizi di sicurezza interna, che garantivano la repressione del dissenso e dell’opposizione.
Le politiche di apertura degli anni Novanta del secolo passato, che avevano destato molte speranze, possono essere viste proprio come una fase estrema e forse critica di tali strategie, che però lasciava dietro di sé poche alternative, e cercava in qualche modo di mettere sotto controllo per mezzo di una liberalizzazione controllata (esemplare come al solito nella storia dei popoli arabi il caso dell’Egitto) il grande pluralismo sociale, politico e ideologico del mondo arabo, che andava prendendo coscienza di sé anche attraverso lo sviluppo dei media, prime fra tutti le televisioni satellitari.
La crisi può essere vista proprio come l’esplodere dell’insostenibilità di tale strategia di repressione e alleanze a geometria variabile, probabilmente innescata dal deterioramento delle condizioni economiche e sociali provocato dalla crisi economica internazionale. Le rivolte sono anche state rese possibili dall’uso diffuso, almeno tra le giovani generazioni, delle possibilità fornite dai social networks come Twitter e Facebook.
Il 17 dicembre 2010 un giovane tunisino, Mohamed Bouazizi, si appiccava il fuoco (sarebbe morto il 4 gennaio) per protesta contro una serie di soprusi subiti dalla polizia. Questo gesto disperato ha innescato una catena di effetti che nessuno avrebbe previsto. È seguito in molte città della Tunisia un mese di manifestazioni di piazza contro la disoccupazione, il carovita, la corruzione e l’assenza delle libertà civili e politiche, duramente represse dalla polizia, con morti e feriti. La cosiddetta ‘rivoluzione dei gelsomini’ ha infine obbligato il presidente tunisino Ben ‘Alī, al potere dal 1987 dopo il colpo di stato con cui aveva deposto al-habīb Burghiba, a dimettersi e fuggire dal paese il 14 gennaio. Allo stesso tempo la protesta si è propagata in modi più o meno clamorosi a quasi tutti i paesi arabi. Al Cairo, in Piazza Tahrir (‘Piazza della liberazione’), le dimostrazioni hanno continuato per settimane a partire dal 25 gennaio (denominato dagli organizzatori della manifestazione ‘Giorno della collera’), con motivazioni simili a quelle delle manifestazioni in Tunisia. Nonostante i tentativi del regime di fare degenerare la protesta nel disordine e nella violenza, di fronte alla neutralità delle forze armate il presidente egiziano, Hosnī Mubārak, al potere dall’assassinio di Anwar al-Sādāt nel 1981, si è dimesso l’11 febbraio. Contemporaneamente la protesta si è estesa allo Yemen, il paese più povero del mondo arabo, anche questo caratterizzato dalla lunga permanenza al potere di Ali Abdullah Saleh. Il presidente, ferito durante scontri nell’area del palazzo presidenziale, è fuggito in Arabia Saudita. In Libia, dopo le manifestazioni iniziate il 16 febbraio e duramente represse, la situazione è velocemente degenerata in una guerra civile tra i rivoltosi, forti soprattutto nella Cirenaica, e l’esercito con i sostenitori di Gheddafi, il più longevo dei dittatori arabi, al potere dal colpo di stato del 1969 con cui aveva detronizzato re Idris. In una situazione di guerra aperta che minacciava di degenerare in massacro, si è successivamente inserito dal 21 marzo l’intervento Nato, legittimato dalla risoluzione Un 1973 del 17 marzo, sotto la forma di attacchi aerei selettivi. La protesta in Bahrein è stata stroncata dalla repressione, mentre in Siria le manifestazioni, iniziate a marzo nella città meridionale di Dar´ā, si sono poi estese a tutto il paese. Le misure limitate prese dal presidente Bashār al-Asad, tra le quali la sostituzione del primo ministro, non sono state sufficienti a fermare la protesta, che invece è proseguita. La conseguente e durissima repressione del regime ha provocato centinaia, e forse più di mille, morti.
Manifestazioni e proteste hanno avuto luogo in quasi tutti i paesi arabi nei primi mesi del 2011, portando tra l’altro alla sostituzione del primo ministro giordano e alla revoca dello stato di emergenza in Algeria.
Mentre la sorte della Libia dipenderà anche dallo svolgimento della guerra, quella di Tunisia ed Egitto vedrà invece nelle prime elezioni post-autoritarie un momento decisivo. Una delle incognite principali è costituita sia dal risultato che dal comportamento successivo dei partiti di ispirazione islamica: an-Nahda in Tunisia e il partito recentemente fondato che rappresenta i Fratelli musulmani, cioè il Partito della libertà e della giustizia (Hizb al-hurriyya wa-l-‘adala). Mentre una via di tipo iraniano appare poco probabile, a causa delle differenze sia teoriche sia organizzative tra islam politico sunnita e sciita, è però possibile una deriva di democrazia non liberale con l’assunzione di un’interpretazione letterale della sharia come fonte principale o unica del diritto. È anche possibile una transizione caratterizzata da una ricerca di consenso tra le varie componenti che emergeranno dalle elezioni, in cui si può ipotizzare una funzione di controllo da parte dei militari o dei servizi di sicurezza. In assenza, come abbiamo visto, di una legittimazione effettiva delle istituzioni se non come distributrici di favori o servizi, si prospetta importante la funzione di ancoraggio dei partiti o di altre associazioni di massa, la cui sincera devozione alla democrazia deve però essere provata.