Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le ragioni che portano al conflitto il sistema delle alleanze dei decenni precedenti fanno agio sulla complessa questione balcanica e sul nazionalismo etnico che la sostanzia. La guerra assume progressivamente un andamento mondiale e si evolve da una originaria strategia di rapide conquiste militari verso la staticità delle battaglie di trincea e della guerra di logoramento. Alla fine la vittoria tocca alle potenze che hanno un maggior retroterra economico e di risorse, mentre alla potenza più debole, la Russia zarista, tocca una rivoluzione sociale e politica che fa nascere il primo Stato comunista. La fase decisiva del conflitto è costituta dall’intervento in guerra degli Stati Uniti del presidente Wilson, che offrono altresì ai belligeranti occidentali un progetto di riordinamento democratico del mondo postbellico. La conclusione vittoriosa del conflitto per gli Stati dell’Intesa apre invece una fase storica che in gran parte smentisce i progetti wilsoniani.
La crisi balcanica e gli equilibri internazionali
Nel decennio precedente la guerra mondiale si verifica tutta una serie di conflitti locali in cui le grandi potenze si fronteggiano, ma alla fine raggiungono un accordo sui rispettivi interessi di potenza. Contrariamente a quanto ha avuto modo ripetutamente di osservare un grande rivoluzionario come Lenin (1870-1924), l’imperialismo coloniale delle grandi potenze non è stato, infatti, la causa del conflitto mondiale. Così avviene per le due crisi marocchine, dove si confrontano le esigenze coloniali tedesche da una parte, e quelle anglo-francesi dall’altra. La crisi viene risolta, in questi frangenti, dalla ragionevolezza della diplomazia soprattutto tedesca; così avviene nel groviglio di questioni nato attorno all’iniziativa italiana di conquista della Libia (1911), che è parte dell’Impero ottomano e che provoca una guerra italo-turca risolta, alla fine, dalla mediazione della diplomazia europea. La guerra italo-turca viene altresì preceduta e seguita da due guerre balcaniche, in cui rimangono coinvolti gli Stati della regione in un conflitto di tutti contro tutti che con difficoltà la diplomazia internazionale riesce a circoscrivere. Esaurito il ruolo di garante dell’ordine balcanico che l’Impero ottomano per secoli ha svolto nella regione, la questione balcanica diviene la questione di una decina di piccoli Stati, per la maggior parte slavi, alla spasmodica ricerca di affermazione delle proprie differenze etniche e religiose, che spesso segmentano in maniera indecifrabile gli abitati di molte regioni. Nel groviglio di ambizioni espansionistiche, se non altro per ragioni di numero di abitanti e di antichità di formazione statale (inizio dell’Ottocento), la Serbia tende a svolgere un ruolo che si vorrebbe simile a quello che il Piemonte ha avuto per l’unità italiana. Le ambizioni serbe non possono che rivolgersi verso le regioni appartenenti all’Impero austro-ungarico e che, come la Bosnia e l’Erzegovina, sono state annesse di fatto all’Impero asburgico pur tra i mugugni della diplomazia delle grandi potenze. La Serbia è alleata della Russia e, indirettamente, quindi, rientra nell’orbita della Triplice intesa. Il nodo balcanico si aggroviglia così attorno ai rapporti tra i due sistemi di alleanza in cui l’Europa è divisa: la Triplice alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Italia) e la già citata Triplice intesa anglo-franco-russa.
Il 28 giugno 1914 vengono assassinati a Sarajevo l’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando (1863-1914) e la moglie, a opera di un attentatore, Gavrilo Princip, che si scopre legato ai servizi segreti della Serbia. Quando l’assassinio viene compiuto, si dice che la Serbia intenda con questo colpire i progetti dell’arciduca Ferdinando di trasformare l’impero dualistico austro-ungarico in una struttura trialistica, con un riconoscimento adeguato all’autonomia dei popoli slavi, pur nell’ambito della monarchia asburgica. La reazione del governo austro-ungarico è volutamente eccessiva, con un ultimatum pesantissimo che, su consiglio della Russia, la Serbia accetta per gran parte. Ma il governo asburgico ha ormai deciso di sciogliere una volta per tutte il nodo balcanico mentre l’imperatore di Germania Guglielmo II (1859-1941) delega completamente al suo alleato austro-ungarico la responsabilità di decidere per la guerra e per la pace. Al momento decisivo, di fronte ad alcune esitazioni austriache, pesa soprattutto l’intransigenza del governo ungherese, coinvolto nelle rivendicazioni interetniche e responsabile dei pessimi rapporti tra le nazionalità slave e l’impero di Francesco Giuseppe (1830-1916). L’Austria-Ungheria si dichiara perciò insoddisfatta della risposta serba. Ed è guerra.
Mobilitazione generale diviene sinonimo di guerra per l’opinione pubblica di tutti i Paesi coinvolti nel conflitto; si tratta di un termine di gergo militare che implica la formazione dei reparti combattenti, la dislocazione degli stessi nelle zone di confine con i Paesi nemici, l’organizzazione dei servizi di rifornimento. La velocità con cui la mobilitazione deve essere effettuata può dimostrarsi d’importanza decisiva per l’esito stesso del conflitto. Si sa che la Germania potrebbe essere la più lesta e così avere un vantaggio militare certamente sfruttabile sul fronte occidentale; per parte sua lo Stato Maggiore tedesco, nel tentativo di operare una manovra a tenaglia nei confronti dell’esercito francese, invade il Belgio violandone la neutralità riconosciuta da un trattato secolare firmato anche dai Tedeschi. Si ritiene anche che la Russia non sarà in grado di mobilitare la sua farraginosa macchina bellica, se non con tempi molto lunghi che potranno facilitare le azioni militari austriache, soprattutto nei Balcani. L’avvio del conflitto smentisce le previsioni degli esperti, perché il piccolo esercito belga si sacrifica in un’eroica resistenza per un numero di giorni sufficienti a consentire ai Franco-Inglesi una rapida riconversione alla strategia tedesca e, quando i due eserciti (nel settembre 1914) si affrontano sulla Marna, l’equilibrio tra le forze in campo si dimostra perfetto e il conflitto si trasforma da guerra di movimento, come hanno previsto gli Stati Maggiori, in guerra di trincea. Alla trasformazione delle operazioni belliche contribuisce altresì la tecnologia militare allora prevalente, in particolare l’uso del cannone e delle mitragliatrici, armi entrambe prettamente difensive, poiché in grado di infliggere all’esercito attaccante perdite elevatissime; armi che favoriscono gli offensori sono certamente l’aereo e il carro armato, ma per il momento la loro rudimentalità tecnica ne rende l’uso alquanto pericoloso. Da qui la staticità delle operazioni belliche sul fronte occidentale, cui corrisponde un numero molto alto di vittime durante le sanguinose offensive. Sul fronte orientale l’esercito russo riesce nel miracolo insperato della mobilitazione in poche settimane; l’enorme numero di uomini che lo compongono rende possibile un’offensiva vittoriosa contro gli Austro-Tedeschi, che dà risultati positivi e impensierisce non poco gli imperi centrali. Alla fine, tuttavia, il rafforzamento militare tedesco consente di equilibrare le forze in campo e anche sul fronte orientale la guerra assume un carattere statico. Il secondo anno di guerra comincia male per l’Intesa, poiché i Russi vengono ripetutamente sconfitti e perdono la Polonia e la Lituania (luglio-settembre 1915); nel contempo l’esercito austro-tedesco spazza via la resistenza serba (ottobre 1915). Di particolare importanza strategica si dimostra perciò l’intervento in guerra dell’Italia (maggio 1915), che costringe gli Austriaci ad aprire un nuovo fronte a sud. Il governo Salandra dichiara guerra alla sola Austria-Ungheria, sottolineando il carattere limitato degli obiettivi italiani (il “sacro egoismo”). I due eserciti si dispongono su un lungo fronte che dal fiume Isonzo giunge fino alla catena alpina orientale e gli scontri assumono il carattere di guerra di trincea. Il terzo anno di guerra porta sui vari fronti a un mutamento della tattica offensiva da parte degli Stati Maggiori. Essi scelgono infatti di concentrare in un solo punto del fronte di guerra, considerato di grande valore strategico, una quantità enorme di uomini e mezzi bellici, da lanciare contro l’avversario con tutta la violenza offensiva possibile, tentando di incunearsi nelle linee nemiche e determinandone la crisi. I Tedeschi tentano lo sfondamento a Verdun (21 febbraio 1916), gli Anglo-Francesi sulla Somme (settembre 1916), gli Austriaci con la “spedizione punitiva” in Trentino.
Milioni di uomini sono sacrificati in queste offensive che si trasformano in una carneficina, senza che il fronte si sposti più di qualche chilometro. Appare allora evidente che le speranze di una conclusione del conflitto con una vittoria sul campo sono da considerarsi illusorie. La guerra è diventata di logoramento di tutte le risorse umane, belliche ed economiche che gli Stati belligeranti sono in grado di mettere in campo; a vincere saranno le potenze dotate di riserve più ampie di quelle degli avversari. In questo senso l’esito del conflitto già nel 1916 appare scontato a favore delle potenze dell’Intesa. Francia, Inghilterra e Russia hanno alle spalle enormi imperi coloniali, per di più possono usufruire di una struttura produttiva formidabile, quella statunitense, formalmente neutrale, ma che ha lasciato alle flotte mercantili il compito di trasportare in Europa tutto ciò di cui gli Stati dell’Intesa possono aver bisogno (secondo la politica del cash and carry, ossia del “paga e porta via”). La Germania ha costruito nei decenni precedenti una grande flotta da guerra, ma essa per tutto il conflitto non si avventura in mare aperto, temendo le azioni belliche degli Inglesi nel Mare del Nord. Altrettanto avviene per la flotta asburgica, imbottigliata nei porti sull’Adriatico (Trieste e Pola) dalla flotta italiana. Gli imperi centrali non dispongono perciò delle riserve necessarie per continuare a lungo il conflitto. Alla morte del vecchio imperatore asburgico Francesco Giuseppe, gli succede sul trono austro-ungarico il figlio Carlo I (1887-1922), che sia pure attraverso gli strumenti, in tempo di guerra assai limitati, della diplomazia, convince il governo tedesco dell’eventualità di trattare una pace senza vincitori e senza vinti. L’offerta è fatta conoscere alle potenze dell’Intesa, ma il governo inglese e quello francese non l’accettano, pretendendo, nella previsione di una vittoria, l’umiliazione degli avversari; e il conflitto continua.
Le ripercussioni sul sistema economico e sociale
Al loro interno i Paesi in guerra operano interventi eccezionali sul sistema economico, nel tentativo di utilizzare le risorse disponibili per rafforzare lo sforzo bellico. Le risorse finanziarie dei privati sono rastrellate attraverso un aumento della pressione fiscale (imposte sui redditi, sui profitti, sulle negoziazioni); il debito pubblico è aumentato attraverso la distribuzione, talvolta forzosa, di buoni del tesoro (prestito di guerra) non rimborsabili fino alla fine del conflitto; non sono consentiti movimenti di capitali all’interno o verso l’estero per la chiusura delle borse valori; l’adozione del corso forzoso (cioè del regime per cui non viene più assicurata la conversione della moneta nazionale in oro o argento) aumenta notevolmente la moneta circolante e, per la rarefazione dei beni di consumo, produce un generale aumento dei prezzi, che quadruplicano rispetto all’anteguerra. Laddove le risorse finanziarie nazionali si mostrano esigue, i governi si impegnano in richieste di prestiti internazionali, concessi ai Paesi dell’Intesa soprattutto dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. Per la prima volta nella storia viene creato da governi di Paesi prima gelosissimi della libertà del mercato, un comitato di mobilitazione industriale che interviene nel predeterminare le quote di prodotti industriali, il livello degli investimenti, i salari. Provvedimenti non dissimili interessano il settore agricolo, mentre anche la distribuzione dei beni di consumo sperimenta forme di centralizzazione burocratica, attraverso il razionamento dei beni primari (pane, pasta, patate) e la loro distribuzione attraverso tessere annonarie.
Alla mobilitazione delle risorse corrisponde quella degli spiriti dei popoli, fiaccati dalla durata del conflitto. Si creano “unioni sacre” di tutti i partiti per portare avanti l’ultimo sforzo fino alla vittoria, ritenuta immancabile. In Italia perciò il governo Salandra, con i suoi angusti obiettivi politici, deve lasciare il campo a un nuovo governo, sostenuto da tutti i partiti italiani escluso il PSI, contrario per principio alla guerra. Alla guida dell’esecutivo (dal giugno 1916 all’ottobre 1917) viene chiamato Paolo Boselli (1838-1932). Il nuovo governo allarga gli obiettivi di guerra adottando il programma dell’interventismo democratico: lotta agli imperi autoritari, guerra per la democrazia.
Da un punto di vista militare la situazione vede l’intensificarsi della guerra sottomarina da parte dei piccoli sommergibili tedeschi, che sugli oceani tentano di impedire, affondando il naviglio mercantile, i rifornimenti alle potenze dell’Intesa. Ma poiché molti convogli mercantili appartengono a Paesi neutrali, il governo tedesco, cedendo alla logica della guerra totale, decide di attaccare anche le navi di questi Paesi. Il quarto anno di guerra, il 1917, si presenta ancora più spaventoso dei precedenti. Durante l’inverno è giunta in Europa un’epidemia influenzale dall’esito spesso letale, la “spagnola”, che ha fatto un numero enorme di vittime tra una popolazione indebolita dalla scarsità dell’alimentazione, dal netto peggioramento delle condizioni di vita nei centri urbani, dai gravi disagi delle truppe chiuse nelle trincee. Dappertutto la popolazione stremata e affamata dà il via a manifestazioni, spesso sanguinose, di insofferenza verso i governi e la guerra.
In Russia
In Russia sono le popolazioni affamate delle grandi città a dare l’avvio a insurrezioni popolari spontanee. Il governo zarista non si è assolutamente preoccupato di farsi sostenere nello sforzo bellico dai grandi movimenti politici presenti, almeno potenzialmente, nel Paese. La Duma, concessa dalla Costituzione del 1907, è divenuta un’istituzione meramente consultiva, perché il governo zarista non ha mai creduto nella necessità di dover appoggiarsi sul consenso di un’opinione pubblica borghese che, sia pure in maniera limitata, esiste nel Paese; né tanto meno ha cercato rapporti con la socialdemocrazia (sia menscevica che bolscevica) considerata una struttura politica sovversiva. Il più dotato dei ministri dello zar Nicola II (1868-1918) nell’anteguerra, Pëtr Stolypin (1862-1911), ha prodotto una vigorosa riforma nelle campagne russe, dove l’antica comunità agricola del Mir (villaggio contadino che gestisce in forma comunitaria buona parte delle terre ed è responsabile del pagamento delle imposte allo Stato) è stata sciolta, favorendo la formazione di un ceto di medi e grandi proprietari terrieri (kulaki), che devono costituire il nerbo sociale a sostegno della monarchia zarista. La guerra ha tuttavia inevitabilmente alienato le simpatie dei contadini per la riforma, non fosse altro perché la mobilitazione riguarda proprio gran parte dei contadini. Nicola II, dopo la morte di Stolypin, si trova isolato nel condurre una guerra che costa al suo popolo sacrifici umani spaventosi. Dopo le prime giornate di agitazione spontanea, nel febbraio 1917, menscevichi e bolscevichi prendono a guidare le operazioni di sedizione civile nelle città, mentre nelle campagne è fortissimo il Partito Socialista Rivoluzionario, un movimento legato alle comunità agrarie della tradizione russa. L’esercito zarista, inviato a sedare i moti insurrezionali, fa causa comune con gli insorti. Il destino del governo è segnato e Nicola II è esautorato. Si forma un governo provvisorio espresso per la prima volta dalla Duma, che prende nelle sue mani la direzione dello Stato; ma nelle città i gruppi di insorti non hanno alcuna intenzione di delegare al nuovo governo il controllo della complessa situazione. Si formano come nel 1905 dei soviet, organismi di autogoverno popolare cui prendono parte delegati degli operai, dei soldati, dei contadini e che rispondono delle proprie decisioni direttamente alla popolazione che li ha designati. La Russia è perciò governata da due poteri, quello della Duma e quello dei soviet, quest’ultimo operante secondo logiche diverse da luogo a luogo. I governi del principe Georgij L’vov (1861-1925) e poi del socialista rivoluzionario Aleksandr Fëdorovic Kerenskij (1881-1970), espressioni della Duma, tentano di guidare il Paese, portando nel contempo avanti la guerra contro gli imperi centrali. Si tratta di un compito proibitivo, poiché da una parte bisogna intervenire per democratizzare una struttura statale arretrata e dispotica, dall’altra occorre continuare la guerra con un esercito demotivato e in cui fortissima è la propaganda rivoluzionaria che contesta l’autorità della gerarchia militare e del governo provvisorio.
La svolta nella vicenda russa si ha nella primavera del 1917, quando i Tedeschi consentono al capo bolscevico Lenin di attraversare in un vagone blindato le linee tedesche (proveniente dalla Svizzera) e di giungere in Russia nel momento di maggiore marasma politico. Lenin fa approvare dal suo partito un documento, le Tesi di aprile, in cui sostanzialmente si prospetta una soluzione radicale al conflitto in corso nella società russa. Essa passa attraverso il trasferimento ai soviet di tutto il potere statale, liquidando il potere della Duma; prosegue con il richiedere la conclusione a qualsiasi costo del conflitto con gli imperi centrali; pone l’obiettivo di una rivoluzione socialista che riconosca ai contadini la terra e agli operai il controllo delle aziende. I mesi successivi sono utilizzati dai bolscevichi per conquistare la maggioranza nei soviet delle grandi città russe; quando l’operazione può dirsi compiuta, giunge l’ora della seconda rivoluzione, detta “di ottobre” (in realtà di novembre per un ritardo di 13 giorni nel calendario ortodosso), in virtù della quale i bolscevichi si impadroniscono del potere statale, creando un governo di commissari del popolo, formalmente espressione dei soviet, ma sostanzialmente costituito dal gruppo dirigente bolscevico. Soppressa la Duma, vengono avviate trattative con i governi degli imperi centrali per una pace separata. La pace di Brest-Litovsk, firmata dai rappresentanti del governo sovietico e dalla Germania, sanziona il passaggio delle regioni occidentali dell’ex impero zarista nelle mani dei vincitori. Polonia, Lituania, Ucraina e altre nazioni finiscono in mano tedesca.
I successi dal fronte italiano e l’intervento degli USA: la fine della guerra
Sul piano militare, gli imperi centrali, liberati dagli impegni sul fronte orientale, possono concentrare le risorse militari sul fronte occidentale e su quello italiano. Se sul primo le conseguenze sono il ripetersi di sanguinose offensive tedesche senza sostanziali esiti, poiché nel frattempo si è verificato il fatto nuovo dell’intervento in guerra degli Stati Uniti, sul fronte italiano l’esercito austro-tedesco (poiché la Germania è ormai anch’essa in guerra con l’Italia) concepisce un piano d’invasione del Nord Italia, concentrando l’attacco su Caporetto (24 ottobre 1917). Questa volta la massiccia pressione bellica ha successo; le truppe italiane sono respinte indietro e il fronte meridionale sembra sul punto di capitolare, lasciando ai Tedeschi via libera fino a Milano. È un momento di alta drammaticità per il Paese; in parlamento si costituisce un nuovo governo di unità nazionale, guidato da Vittorio Emanuele Orlando (ottobre 1917), mentre i socialisti riformisti con Filippo Turati affermano che “anche per noi Monte Santo è l’Italia”, aderendo di fatto all’unione sacra. Poi l’esercito compie il miracolo sul fiume Piave, bloccando l’offensiva nemica. Il fronte di guerra si ricostituisce su una linea meno difficile da difendere per le truppe italiane, comandate da Armando Diaz (1861-1928), che ha sostituito Luigi Cadorna (1850-1928), la cui gestione autoritaria delle truppe al fronte è stata causa non ultima della sconfitta.
Si è già accennato che l’anno della rivoluzione russa è anche l’anno dell’intervento in guerra degli USA a fianco delle potenze dell’Intesa. Nel corso del 1917 la guerra sottomarina tedesca ha preso di mira il piroscafo Lusitania (maggio 1915), il cui affondamento, con il drammatico corredo di migliaia di vittime civili, colpisce profondamente l’opinione pubblica americana. Il governo statunitense, guidato dal presidente Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), decide perciò la dichiarazione di guerra agli imperi centrali, ponendo in evidenza immediatamente e pubblicamente gli obiettivi di guerra che esso si propone, condensati in 14 punti. Il presidente americano propone un ordinamento dell’Europa dopo la pace, secondo il principio “ogni nazione uno Stato”; l’adozione di profonde riforme politiche all’interno degli Stati europei per garantire i principi di democrazia politica a tutti i popoli; la creazione di una istituzione internazionale, la Società delle Nazioni, cui dovrebbero aderire tutti gli Stati democratici, per risolvere pacificamente i conflitti internazionali e far nascere un embrione di governo del mondo; la garanzia dei principi internazionali di libertà dei mari e di rispetto dei trattati, assieme alla denuncia di ogni forma di diplomazia segreta; l’avvio del processo di liberazione dei popoli extraeuropei dalla sudditanza nei confronti dei grandi imperi coloniali.
Si tratta di enunciazioni di principio di grande significato democratico, che denunciano i metodi della diplomazia segreta e le politiche egoistiche delle grandi potenze responsabili dello scoppio del conflitto. È significativo che la dottrina Wilson si aggiunga alla conoscenza che l’opinione pubblica mondiale viene acquisendo dei veri termini delle alleanze che hanno portato alla guerra, i cui testi, già segreti, vengono resi pubblici dal governo bolscevico con obiettivi non diversi da quelli americani. Meno noto è un ultimo aspetto della mondializzazione del conflitto, verificatosi nel corso del 1917; poiché anche il Giappone entra in guerra contro gli imperi centrali, affiancandosi all’Intesa, con l’obiettivo di garantire il controllo dei mercati dell’Estremo Oriente all’emergente struttura industriale giapponese.
L’ingresso in guerra del poderoso esercito americano, con i suoi milioni di uomini e soprattutto con le sconfinate risorse tecnologiche, legate agli strumenti di guerra più sofisticati, ha un peso decisivo sull’esito finale del conflitto. In Germania e in Austria scoppiano rivoluzioni sociali e in Ungheria si crea un regime comunista, che scardinano le vecchie strutture imperiali, dalle cui ceneri nascono Stati repubblicani. Di fronte all’estrema pericolosità della situazione sociale interna, lo Stato Maggiore tedesco, nell’impossibilità di continuare un conflitto militarmente perduto, decide di chiedere l’armistizio (4 novembre 1918). Nel contempo in Italia le truppe di Diaz passano all’offensiva e riescono a rompere lo schieramento avversario a Vittorio Veneto (24 ottobre 1918), liberando gli ultimi lembi di terra italiana in mano agli Austriaci. Alla fine del 1918 la prima guerra mondiale si è conclusa su tutti i fronti.
La conferenza di pace di Parigi
Com’è nella tradizione della diplomazia europea da circa tre secoli, alla fine del conflitto si tiene una conferenza generale di pace per fissare i principi guida del nuovo ordine mondiale. Questa volta tuttavia alla conferenza di pace non sono invitati i rappresentanti delle potenze sconfitte. Nel 1814-1815, al Congresso di Vienna, la Francia, dopo la restaurazione borbonica, viene invitata in qualità di monarchia legittima e il principe di Talleyrand (1754-1838) diviene uno dei protagonisti dell’azione di sistemazione generale compiuta dalle grandi potenze, a cui si riconosce il merito di avere garantito mezzo secolo di pace in Europa. A Parigi invece, nel 1919, vengono invitati solo gli Stati vincitori e i principi guida del nuovo ordine europeo, assieme alle decisioni dei trattati di pace, sono semplicemente dettati agli Stati sconfitti. I protagonisti di quella conferenza dovrebbero essere, e in parte lo sono, i principi della dottrina Wilson, accettati a suo tempo da tutte le potenze dell’Intesa come obiettivi di guerra delle democrazie occidentali. Ciò che caratterizza la conferenza di pace è lo spirito di rivincita sui Tedeschi che vi fanno aleggiare due dei protagonisti di quella conferenza, l’inglese David Lloyd George (1863-1945) e il francese Georges Clemenceau (1841-1929). In questo quadro, l’idealismo di Wilson assume aspetti velleitari, diminuito altresì dai “sacri egoismi” di Orlando e dai nazionalismi della Serbia e della Romania, anch’esse nel novero delle potenze vincitrici.
Ma per quanto velleitario il principio di nazionalità costituisce uno degli strumenti fondamentali attraverso il quale viene creata una nuova Europa. Il pluricentenario Impero asburgico viene dissolto, dalle sue ceneri nascono Austria, Ungheria, Cecoslovacchia; altre province balcaniche come Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina vengono unite alla Serbia, che nel 1929 costituisce la Jugoslavia; la Transilvania viene unita alla Romania. Nel Nord-Est d’Europa rinasce, dopo un secolo e mezzo dalla sua spartizione, la Polonia che si vede restituiti territori già occupati da Tedeschi, Austriaci e Russi; sempre nella stessa regione, ottengono l’indipendenza nazioni baltiche come Estonia, Lettonia e Lituania e, nella Scandinavia, la Finlandia. Anche un altro impero plurinazionale, quello turco, scompare quasi dall’Europa, limitandosi ormai a una regione attorno a Costantinopoli, mentre giovani Paesi, come l’Albania, nascono dalla sua ultima spartizione, o si ingrandiscono, come la Grecia, la Romania e la Jugoslavia. In Occidente, ricostituita l’indipendenza del Belgio, alla Germania viene imposta la retrocessione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena, strappate da Bismarck nel 1871; a sud, infine, ai sensi del patto di Londra, vengono riconosciute all’Italia non solo il Trentino e la Venezia Giulia, ma anche il Tirolo meridionale (Alto Adige) austriaco per raggiungere lo spartiacque alpino e l’Istria, abitata in maggioranza da slavi.
Le assegnazioni di province abitate da stranieri al Regno d’Italia mettono in evidenza che il principio di nazionalità viene accantonato a favore di altri, tra essi il principio dei confini naturali. Eccezioni come quelle a favore dell’Italia sono in realtà numerose. La più importante colpisce la Germania, che è divisa in due da un corridoio che consente alla Polonia di avere uno sbocco sul Baltico, con il porto di Danzica; scelta determinata in parte soltanto da principi geoeconomici, poiché vi si scorge una volontà punitiva dei vincitori nei confronti della grande avversaria sconfitta, di cui si lacera l’unità geografica. Scelte più o meno inevitabili hanno portato altresì minoranze nazionali tedesche nella Cecoslovacchia; magiare e bulgare nella Romania. Ma in tutti questi casi comunque risulterà impossibile ritagliare confini sulla base del solo principio della nazionalità, poiché gli insediamenti dei popoli in Europa orientale spesse volte si intersecano in maniera inestricabile.
Nella logica dei principi wilsoniani si muove l’istituzione della Società delle Nazioni, per salvaguardare la pace e i diritti degli Stati associati, tutti in possesso dei requisiti di indipendenza nazionale e di ordinamento democratico che fanno parlare di “voga per la democrazia”; d’altra parte agli Stati membri vengono assegnati compiti di alto valore simbolico, poiché gli imperi coloniali degli Stati sconfitti non vengono divisi tra i Paesi vincitori, come pure richiede una certa opinione pubblica nazionalista, bensì assegnati come mandati della Società delle Nazioni, con il compito per lo Stato assegnatario di guidare il Paese ex-coloniale verso lo sviluppo socio-economico e l’indipendenza nazionale.
Sempre nella stessa logica democratica si inserisce l’individuazione dei responsabili del conflitto mondiale, identificati naturalmente nella Germania e nell’Austria-Ungheria; tale riconoscimento segna la messa in discussione del principio di politica realistica secondo il quale la volontà di uno Stato di fare e muovere guerra è da considerarsi una prerogativa assoluta e insindacabile; la costruzione di un embrione di governo mondiale da parte della Società delle Nazioni richiede necessariamente la condanna delle guerre di aggressione, nei confronti di qualunque Stato le ponga in essere, da parte della comunità internazionale.
Qui termina tuttavia la vigenza dei principi democratici nel nuovo ordine costruito dagli Stati vincitori della guerra mondiale, che lascia il posto a progetti di ben altra natura e portata nelle relazioni internazionali del primo dopoguerra.