Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La parabola del successo ottenuto dalla polifonia fiamminga in tutta Europa nasce agli albori del XV secolo, tocca il suo culmine all’inizio dell’età moderna per concludersi alla fine del Cinquecento; questo stile, giustamente definito internazionale, tuttavia non cesserà: i suoi contenuti troveranno sbocco negli idiomi musicali dei Paesi coi quali i fiamminghi entrano in contatto.
Il Ducato di Borgogna è un’unità territoriale che oggi non esiste più e che coincideva solo in parte con gli attuali territori di Olanda, Belgio e Lussemburgo e con alcune zone della Francia e della Germania settentrionale.
In questa nazione (unificata nel Quattrocento, il regno si disgrega nel 1579, soprattutto a causa delle lotte di religione) che deve la sua prosperità ai traffici commerciali marittimi e fluviali, il benessere favorisce lo sviluppo delle arti: pittura e musica saranno a volte accomunate da un destino simile, in un percorso che le porterà a raccogliere consensi in tutta Europa. La musica in particolare avrà un tale riscontro nel continente, da detenere per più di due secoli una sorta di primato.
La nascita di uno stile fiammingo trova radici già verso la fine del Trecento: esso trae le sue principali energie dalla vita musicale delle grandi cattedrali borgognone di Cambrai, Tournai, Utrecht, Liegi, che possono permettersi di fornire ai futuri musicisti una formazione scolastica gratuita sin dall’infanzia. Questo stile elabora l’espressione locale con idee assimilate da altre culture musicali (la polifonia inglese, il trattamento italiano della melodia), ma soprattutto raccoglie l’eredità della scuola francese, ormai in declino.
Il secolo d’oro della musica fiamminga va dalla metà del Quattrocento alla metà del secolo successivo: per il periodo quattrocentesco ricordiamo i nomi di Johannes Ciconia, primo fiammingo in Italia; Guillaume Dufay, celebre per avere fissato nel mottetto e nella messa i generi prevalentemente frequentati da questa scuola; Gilles Binchois, noto per le sue chansons; Johannes Ockeghem, Jacob Obrecht.
L’arte fiamminga si esprime soprattutto in ambito sacro, nel genere definito “a cappella” (e cioè nell’esecuzione vocale senza accompagnamento degli strumenti). Accanto alla messa polifonica troviamo forme liturgiche o paraliturgiche più brevi, ma non per questo meno complesse: il mottetto, l’inno e il Magnificat.
La musica dei fiamminghi è la musica delle grandi occasioni, che poco o nulla ha a che vedere con le normali celebrazioni religiose: vanto delle corti e delle grandi cattedrali, essa richiede vaste compagini di esecutori tecnicamente preparati ed educati musicalmente.
La messa, suddivisa in cinque parti (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei), è la composizione di portata più ampia, con un’architettura musicale estremamente articolata la cui coerenza è data dall’unità tematica delle varie sezioni. Il tipo più diffuso è, specialmente fra le prime generazioni di compositori, quello della messa ciclica, costruita aggiungendo altre due o tre voci a una melodia (detta tenor, per il fatto che “tiene”, “regge” tutta la struttura del brano, ed è costituita da note molto lunghe, “tenute”, appunto) scelta dal repertorio sacro (cantus firmus) o da motivi popolari. Tra questi ricordiamo il celebre canto L’homme armé, che molti compositori prendono come spunto per l’elaborazione di messe polifoniche.
Successivamente si affermano la messa-parodia, nella quale una o più voci riprendono liberamente il materiale tematico di una chanson polifonica, e la messa-parafrasi, con il cantus firmus alternativamente affidato a tutte le voci. Se escludiamo la messa ciclica, ancora legata a schemi compositivi medievali, le tecniche successive si distinguono per l’uguale importanza data a tutte le voci, un requisito che andrà affermandosi come caratteristica della musica rinascimentale.
Il metodo compositivo adottato per le messe viene usato generalmente anche per le altre composizioni sacre. Per i brani più brevi si impiegano anche altre tecniche, una delle quali è il falso bordone, uno stile omoritmico in cui il cantus firmus è affidato alla voce più acuta, e quelle inferiori procedono parallelamente a esso, a intervalli di quarta e sesta.
Nel genere musicale profano, la forma tipicamente fiamminga è la chanson, di norma su testo francese, a scrittura polifonica imitativa, a tre o quattro parti. Al di fuori dell’ambito sacro, tuttavia, i Fiamminghi sono inclini ad applicare il loro stile alle forme musicali locali con le quali entrano via via in relazione, scrivendo dunque frottole, villanelle, canzoni, madrigali, Lied, brani strumentali.
Il successo dei musicisti fiamminghi, come compositori e come cantanti, è un fenomeno che coinvolge l’Europa per più di due secoli: nei manoscritti di tutto il continente la polifonia fiamminga occupa sempre la parte più rilevante e talvolta la quasi totalità del repertorio, e negli elenchi a noi giunti dei musicisti attivi presso le maggiori istituzioni musicali, i Fiamminghi sono sempre in maggioranza rispetto agli esecutori locali.
I percorsi dei principali compositori si somigliano tutti tra loro. A un periodo di apprendimento e di iniziale attività musicale presso qualche nota cattedrale del Paese d’origine, segue una carriera itinerante, al servizio di corti straniere laiche o clericali, non solo come musicisti, ma spesso in qualità di diplomatici, ambasciatori, dignitari ecclesiastici. Nonostante i più grandi maestri di questa scuola trascorrano la maggior parte della loro vita in luoghi diversi da quello di nascita, appare tuttavia evidente nelle loro opere uno stile comune che essi stessi definiscono “musica reservata” su indicazione di Adrianus Petit Coclico: i fiamminghi sono portatori del loro stile ovunque operino e, allo stesso tempo, rivestono a pieno titolo il ruolo di uomini nuovi del secolo in quanto poliglotti, cosmopoliti, umanisti a tutti gli effetti.
I maggiori centri di cultura nei quali i musicisti fiamminghi esercitano la loro attività sono le corti francese e borgognona, specie nel periodo prerinascimentale, la cappella pontificia, le signorie italiane e la corte imperiale. Sin dal Trecento la cappella papale si serviva di musicisti oltremontani, e questa consuetudine continua nei due secoli successivi, con autori quali Prioris, Weerbecke, de Orto e Carpentras.
I più noti musicisti fiamminghi che operano in Italia nella prima metà del secolo sono Josquin Desprez, attivo in ambito milanese, ed Heinrich Isaac, vissuto a lungo a Firenze come musicista presso la corte medicea (nel celebre brano Palle! Palle! egli celebra lo stemma della casata).
Amico di Lorenzo il Magnifico, maestro di musica dei suoi figli, fra cui Giovanni, futuro papa Leone X, poliglotta anche musicalmente, Heinrich Isaac coltiva accanto al genere sacro la musica per organo o liuto, la frottola, il Lied, accogliendo spunti dal genere popolaresco nei suoi canti carnascialeschi.
L’umanesimo influenzerà profondamente i Fiamminghi, determinando, nelle composizioni vocali, una maggiore adesione fra testo e musica. Soprattutto Josquin contribuisce alla creazione di una nuova tradizione ed è una figura dominante del XVI secolo. Nicolas Gombert è invece l’ultimo esponente della scuola medievale, come si può evincere dal suo stile severo e solenne; la sua carriera gravita attorno alle capitali dell’Europa del nord, ma può considerarsi un caso isolato: tutti i suoi conterranei vantano lunghi soggiorni in Italia.
Nel pieno Cinquecento sono attivi nella penisola Adrian Willaert, Cipriano de Rore e Giaches de Wert, legati l’un l’altro da un diretto rapporto di maestro-allievo. Willaert è maestro di cappella in San Marco a Venezia per un trentennio e la sua influenza sui compositori italiani nell’ambito della musica sacra è innegabile. Suo discepolo è Cipriano de Rore, che lavora nelle corti del settentrione e diviene celebre per i suoi madrigali. Giaches de Wert, giunto in Italia poco più che bambino, incontra Rore a Ferrara presso gli Estensi; egli lavora tuttavia anche a Napoli, sotto i Farnese, a Parma e Novellara, e dai Gonzaga a Milano.
La seconda metà del secolo vede la decadenza politica dei Paesi Bassi: dopo l’abdicazione di Carlo V, la cappella imperiale si scioglie, molti dei suoi musicisti si pongono al servizio di Filippo II di Spagna (ove si crea la cosiddetta “capilla flamenca”), altri del nuovo imperatore Ferdinando I.
Orlando di Lasso è la figura più rappresentativa del periodo, con una carriera divisa fra le corti italiane e quella imperiale: a Monaco diverrà maestro di cappella e qui si stabilirà, pur continuando a viaggiare tutta l’Europa per il reclutamento di nuovi musicisti. In Italia è molto attivo come madrigalista, e l’influenza di questa forma musicale profana avrà grande peso anche nella sua produzione sacra.
Altro rappresentante di quest’ultima stagione fiamminga è Filippo De Monte, che inizialmente vive in Italia, poi, al seguito dell’imperatore Massimiliano II, si trasferisce a Vienna, quindi a Praga, conferendo prestigio alla cappella musicale di quella città. A seguito dei suoi spostamenti egli abbandona la produzione madrigalistica appresa in Italia per dedicarsi alla polifonia liturgica, la cosiddetta ars perfecta, lo stile sacro di fine secolo che, specie nei territori di lingua tedesca, va a sostituirsi alla pratica locale. È in questo ambiente che opera Sweelinck, ultimo esponente della scuola fiamminga, importante per la sua musica strumentale, nella quale si avvertono l’influenza italiana e quella dei virginalisti inglesi; a lui dovranno molto gli esponenti della “scuola organistica del nord”, in particolare Buxtehude, colui che Bach additerà come suo maestro.