Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La popular music americana si diffonde in Europa agli inizi del Novecento su una base di derivazione ottocentesca. Attraverso danze afroamericane si afferma una sensibilità corporea erotica e liberatoria che investe, soprattutto nel periodo tra le due guerre, anche i compositori classici. Ciò che è percepito come jazz ha in realtà solo un debole legame con l’autentica musica neroamericana, la quale influenza i musicisti europei solo alla fine degli anni Venti. La musica popolare americana lascia così un segno sia sui giovani jazzisti sia sulla musica leggera e da ballo dei vari Paesi europei, anche nel periodo di regimi fascisti.
L’influenza americana in Europa
Le premesse per l’affermazione della popular music americana in Europa risalgono alla prima metà dell’Ottocento, quando il compositore Louis Moreau Gottschalk arriva a Parigi. È il 1842 e il pianista di New Orleans, talento prodigioso, ha solo 13 anni. Poco dopo, tra i 19 e i 21 anni, Gottschalk sforna cinque capolavori innovativi: La Bamboula op. 2, Le Bananier, Chanson Nègre op. 5, La Savane e Le Manceniller, nei quali svela a un pubblico parigino entusiasta un mondo sonoro del tutto inedito: quello dei canti creoli caraibici, dei ritmi di danza afroamericani, delle sonorità di strumenti esotici come il banjo. L’enorme popolarità di Gottschalk e il credito che riceve dai suoi amici compositori, come Georges Bizet (1838-1875), contribuiscono alla diffusione di un nuovo gusto. Edizioni a stampa dei pezzi di Gottschalk appaiono in tutta Europa; intanto Bizet inserisce un’autentica danza cubana (El Arreglito) nell’opera Carmen (1875), dando ulteriore impulso alla incipiente moda dell’habanera, che dura fino ai primi anni del XX secolo. Una moda a cui non si sottrae neanche Claude Debussy (1862-1918), allievo di Ernest Guiraud (nativo di New Orleans e amico di Bizet), quando scrive La puerta del vino per il secondo libro dei Preludi per pianoforte.
Debussy compone altri pezzi a carattere esplicitamente afro-americano, come il Golliwog’s Cake Walk o Minstrels. Gli sono stati ispirati dall’ascolto delle compagnie di minstrels americani che ormai da tempo girano per l’Europa, divulgando canzoni e danze sincopate di carattere afro-americano. I primi minstrels di colore ad arrivare in Europa sono stati probabilmente i Bohee Brothers, giunti in Inghilterra intorno al 1880; in breve hanno fatto tournée anche cori di spiritual da concerto come i Fisk Jubilee Singers o piccoli gruppi di vaudeville come i Black Troubadours. È la Francia ad ospitare i migliori gruppi di musica nera in Europa: nel 1900 l’orchestra del bianco John Philip Sousa (1854-1932), uno dei maggiori compositori americani, fa scoprire il ragtime al pubblico di Parigi che affolla i padiglioni dell’Esposizione Universale; alla fine della prima guerra mondiale, la straordinaria banda militare del 369° Fanteria americana diretta dal nero James Europe, raccoglie l’entusiasmo delle popolazioni per cui suona una sorta di proto-jazz imbevuto di ragtime. Di lì a poco, l’orchestra di Will Marion Cook rivela agli europei il talento jazzistico del giovanissimo Sidney Bechet, che lascia stupefatti musicisti classici come Ernest Ansermet e apre al pubblico le seduzioni dell’intonazione blues sugli strumenti a fiato. È così aperta la strada ad alcuni jazzisti neroamericani e soprattutto a Jospehine Baker, che nel 1925 si stabilisce a Parigi con la sua Revue Nègre, raggiungendo un enorme successo.
I balli
Nella Parigi degli anni Dieci impazza anche una danza dal nome bantu, il tango. Ostacolato dalla Chiesa – che gli preferisce l’arcaica e inoffensiva furlana –, il tango, che richiede approccio alla danza di coppia sessualmente più spregiudicato, libera un’inibizione corporea plurisecolare. È questo il punto chiave della grande trasformazione di costume e gusto che sta attraversando l’Europa: per secoli e secoli la cristianità ha inibito sotto un’efficace cappa repressiva ogni aperta manifestazione corporea, che in passato ha dominato in danze e riti di antica ascendenza africana nel Mediterraneo dei Fenici, dei Greci, dei Cartaginesi. Più volte questo substrato è tornato violentemente alla luce, come nelle epidemie coreutiche medievali o nella diffusione, tra XVI e XVII secolo, di danze afro-americane come sarabanda, follia, ciaccona, passacaglia, i cui i passi e movimenti, discendenti da modelli africani, celebrano le capacità creative ed erotiche del corpo.
L’avvento del tango argentino negli anni Dieci, la prima ondata del samba nel 1925, il successo del fox trot e dello shimmy in Germania nei primi anni Venti, scuotono non solo il mondo della musica popolare ma anche quello della musica classica. Già gli spartiti e i dischi di ragtime distribuiti in Europa hanno sollecitato l’interesse dei compositori classici, da Erik Satie (1866-1925) a Igor Stravinskij (1882-1971). Le danze afro-americane offrono un’occasione di rinnovamento e ringiovanimento del linguaggio a tutti quei compositori impegnati tra le due guerre su un terreno “neoclassico”, nonché l’opportunità di avvicinare un pubblico più vasto. È un fenomeno di vaste proporzioni che investe, tanto per fare qualche nome di punta, Paul Hindemith (1895-1963) ed Erwin Schulhoff (1894-1942) in Germania, Maurice Ravel (1875-1937) e Darius Milhaud (1892-1974) – quest’ultimo più vicino alla musica brasiliana – in Francia, Alban Berg (1885-1935), con motivazioni diverse, in Austria. In questo panorama l’Italia rimane in secondo piano, poiché le tournée delle compagnie e delle orchestre nere raramente vi approdano. Tuttavia l’attività di compositori come Giovanni Rinaldi, vicino al ragtime, e l’attenzione di alcuni compositori classici per la musica americana – testimoniata tra l’altro dal Puccini (1858-1924) di Scossa elettrica, una marcia in puro stile Sousa e da certi pezzi pianistici di Alfredo Casella – indicano che anche tra Roma e Milano si diffonde un gusto nuovo.
L’equivoco del jazz
In realtà tutto questo interesse per il jazz negli anni Venti è fondato su un notevole equivoco: sia i compositori classici sia i direttori di orchestre da ballo che fondano la loro fortuna su fox trot e shimmy sanno poco o nulla dell’autentico jazz afro-americano. In effetti il grande jazz che si fa a Chicago nei primi anni Venti, quello di King Oliver, Jelly Roll Morton, Johnny Dodds, Louis Armstrong, è virtualmente sconosciuto fuori dal circuito dei locali per neri e dalla distribuzione discografica dei ghetti. L’americano medio considera il jazz una musica leggera sincopata e piccante eseguita da piccoli gruppi od orchestre bianche in hotel lussuosi o in affollate sale da ballo. In Europa i legami di questa musica con la grande tradizione nera si fanno ancora più flebili: di certo l’intonazione blues, l’improvvisazione e il grande repertorio di New Orleans o della canzone americana rimangono estranei al pubblico di Milano o Berlino. E tuttavia la musica americana, comunque la si chiami, è in ogni caso veicolo di eccitazione e di liberazione erotica, di umore positivo e di giocoso ottimismo.
È solo nella seconda metà degli anni Venti che il jazz autentico inizia a circolare in Europa, e in particolare in Italia, i cui jazzisti giungono a padroneggiare il linguaggio proprio a cavallo degli anni Venti e Trenta. Grazie anche alla tournée dell’orchestra di Sam Wooding, che tocca varie grandi città europee, spingendosi fino all’Unione Sovietica, il pubblico scopre lo swing più autentico, il senso del blues e il valore di grandi solisti come Sidney Bechet e Tommy Ladnier, destinati a lasciare una traccia profonda sui jazzisti europei.
Nella prima metà degli anni Trenta, l’adesione ai modelli afro-americani è favorita dalla presenza prolungata di alcuni musicisti neri di prima grandezza come Louis Armstrong, Benny Carter e Coleman Hawkins, che influenzano il linguaggio solistico dei giovani improvvisatori europei: tra gli italiani si affermano Sesto Carlini, Romero Alvaro, i fratelli Alfio e Rocco Grasso, Matteo Ortuso, Pippo Barzizza e l’Orchestra Angelini. La musica popolare in Europa si evolve in due direzioni: da un lato il jazz che segue i modelli americani – con la straordinaria eccezione di Django Reinhardt –, dall’altro la musica leggera – che acquista in ogni Paese un’identità nazionale – esibisce un colore “americano”, swingante, ballabile e sincopato, come nell’eccellente Trio Lescano. Quando le dittature fasciste dilagano in Europa, la musica di matrice afro-americana è ufficialmente proibita ma continua a essere praticata e ascoltata in condizioni semi-clandestine grazie a musicisti coraggiosi e astuti, qualche volta con la complicità dei regimi stessi (perfino ad Auschwitz vi è un’orchestrina che suona musica sincopata). Durante la guerra il jazz e la canzone sincopata sono assunti come uno strumento di opposizione e resistenza ai regimi, subendo restrizioni sempre più rigide.
L’avanzata americana tra il 1944 e il 1945 apre un nuovo fronte: i soldati portano i V(ictory) Disc, incisioni di grandi musicisti americani – jazz, classici, pop – realizzate appositamente per le truppe al fronte. Una volta terminata la guerra, quei dischi – soprattutto di jazz – divengono merce di scambio con le popolazioni locali, che si trovano a contatto con le forme più aggiornate di musica popolare americana. Con il cinema, quella musica sarà la chiave di volta per la trasformazione della musica popolare europea in senso sempre più afro-americano: l’era dello swing, mentre si va spegnendo negli Stati Uniti, trionfa in Europa e una nuova generazione di jazzisti brillanti e originali si affaccia sulla scena internazionale.