di Marco Pinfari
L’elezione di Barack Obama a presidente degli USA nel 2008 suscitò speranze e attese nel mondo arabo. Era il primo presidente di colore della storia statunitense e il primo con antenati di religione musulmana e con due nomi (Barack Hussein) di radice araba. In più, nel giugno 2009 annunciò al Cairo la sua intenzione di cercare un «nuovo inizio» nelle relazioni tra Stati Uniti e islam, fondate sui «principi condivisi» di «giustizia e progresso, tolleranza e dignità di ogni essere umano».
Cinque anni più tardi, la politica mediorientale dell’amministrazione Obama ha solo parzialmente mantenuto l’impegno di realizzare un vero nuovo inizio rispetto alle controverse politiche del suo predecessore.
Il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq era tra le principali promesse elettorali nella campagna presidenziale di Obama e uno dei cardini della cosiddetta ‘dottrina Obama’, fondata sull’idea di rimodulare la leadership americana riconoscendone i ‘limiti in termini di risorse e capacità’. Il ritiro fu completato nel 2011 (sia pur controbilanciato da una rapida crescita della presenza di compagnie militari private) e corrispose a una espansione della presenza militare in Afghanistan, che fu poi seguita da un graduale disimpegno, reso possibile anche dall’uccisione di Osama Bin Laden nel maggio 2011.
Tuttavia, tali eventi furono in larga parte oscurati dalle cosiddette ‘Primavere arabe’, che colsero l’amministrazione Obama e il resto del mondo di sorpresa. Dopo alcune settimane di cautela e un debole sostegno espresso alla causa della rivoluzione egiziana nel febbraio 2011, Obama ha condiviso (sia pure con una certa riluttanza) l’intervento militare in Libia. Ma, a tutt’oggi, ha chiare difficoltà a sviluppare un approccio coerente alla guerra civile in Siria, in parte a causa della complessità ideologica dell’opposizione al regime di Bashar al-Assad.
In paesi come l’Egitto, Obama si è mostrato pragmatico ed aperto a collaborare anche con regimi di orientamento islamista (se democraticamente eletti) per la difesa di interessi comuni. Tuttavia, tali scelte hanno talora suscitato reazioni di sdegno da parte delle opposizioni locali e il conseguente sviluppo di forti sentimenti antiamericani, come in occasione del colpo di stato che ha portato alla rimozione di Mohammed Mursi nel luglio 2013. Tali sviluppi, uniti al rinato attivismo russo nella regione, hanno in parte ridimensionato l’aura di superpotenza regionale di cui gli Stati Uniti godevano almeno dalla fine della Guerra fredda.
In altre aree, e in particolare in relazione alle tre direttrici storiche della politica estera statunitense nella regione – l’alleanza con Israele, l’opposizione al regime iraniano e la difesa delle forniture petrolifere e del regime saudita –, l’impatto della nuova amministrazione è stato nel complesso poco significativo.
Le elezioni israeliane del marzo 2009, che riportarono al potere Benjamin Netanyahu a capo di una coalizione fortemente conservatrice, fornirono fin da subito un interlocutore poco disposto ad accettare le concessioni necessarie per far ripartire il processo di pace con la leadership palestinese. Le gelide relazioni tra Obama e Netanyahu, acuite dal sostegno di quest’ultimo a Mitt Romney nelle elezioni presidenziali del 2012, sono andate di pari passo con le frequenti, ma deboli, condanne da parte dell’amministrazione statunitense all’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e ai raid su Gaza nel 2008-09 e 2012, condanne che hanno avuto scarso impatto sulle politiche del governo israeliano.
Nel giugno 2009, sei mesi dopo l’insediamento di Obama, la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad a presidente dell’Iran fu seguita da rivolte di piazza che diedero al neoeletto presidente statunitense la possibilità di presentare le preesistenti sanzioni contro il regime iraniano come un’arma per sostenere ‘il popolo dell’Iran’ nella sua lotta per la democratizzazione del paese. Tali sanzioni furono ulteriormente inasprite nel 2010 a fronte della perdurante opacità del processo di sviluppo nucleare del paese.
L’elezione di Hassan Rouhani nel 2013 è tuttavia coincisa con alcuni significativi segnali di disgelo, testimoniati dalla prima conversazione diretta tra i leader dei due paesi dal 1979 e da un primo accordo sulla questione nucleare. Tali eventi fanno ipotizzare che anche il regime sanzionatorio (che al momento rimane estremamente duro) possa subire un ridimensionamento nel futuro prossimo.
Infine, nonostante l’accento posto da Obama sulla ricerca di una ‘indipendenza energetica’ degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita rimane un partner essenziale. Tale posizione dipende sia dalla sua abilità di influenzare i prezzi del mercato petrolifero internazionale, sia dalla sua dipendenza dall’industria militare statunitense, con la quale la leadership saudita discusse nel 2010 accordi commerciali del valore potenziale di 60 miliardi di dollari. Di conseguenza l’Arabia Saudita, in apparente contraddizione con i principi espressi da Obama nel discorso del Cairo, continua a godere di un trattamento preferenziale in relazione alle violazioni di diritti umani entro i suoi confini e nella sua regione di competenza, come in occasione dell’intervento militare contro le rivolte popolari in Bahrain nel marzo 2011.
Nel complesso, dunque, Obama ha impresso alcuni cambiamenti nei rapporti con il mondo arabo e musulmano che rivelano un approccio più costruttivo e attento alle dinamiche politiche, sociali e religiose della regione. Tuttavia, poco appare cambiato in relazione alle dinamiche fondamentali di medio e lungo periodo della politica estera statunitense nella regione, e la strada per sviluppare relazioni fondate sui principi di ‘giustizia e progresso, tolleranza e dignità’ è ancora lunga.