di Giancarlo Aragona
La politica estera italiana, dalla fine della seconda guerra mondiale, si confronta con un problema che, parzialmente mascherato durante la Guerra fredda, si è palesato con evidenza negli ultimi venti anni. Per ragioni ampiamente studiate, il nostro paese ha sostanzialmente rinunciato ad una politica estera nazionale, limitandosi a contribuire, anche efficacemente, alla diplomazia di fori multilaterali quali l’Unione Europea o la Nato a guida Usa. Allorché l’azione dell’Eu è stata debole, come durante l’intero periodo Ashton, o la leadership americana si è appannata, si guardi al secondo mandato di Obama nelle aree di nostro più diretto interesse, il profilo dell’Italia, chiamata ad una problematica riappropriazione in chiave nazionale della propria politica estera, ne ha sofferto.
Il governo Renzi è succeduto a due governi, Monti e Letta, che hanno largamente eliminato le criticità che avevano pesato sull’ascolto dell’Italia, soprattutto in Europa, pur se la crisi economica e di crescita ne ha condizionato lo spazio di manovra in seno all’Eue nel più vasto mondo aperto dalla globalizzazione. Del resto, nella consapevolezza della crisi, questo governo ha svolto un’attiva diplomazia economico commerciale, sostenuto dalla rete diplomatica che da tempo ha fatto una priorità di questo settore. L’Unione Europea costituisce il più rilevante ambito di azione per qualsiasi governo Italiano e nel secondo semestre del 2014 abbiamo detenuto il turno di presidenza semestrale. Nel corso del negoziato che ha portato alla nascita della Commissione Juncker, la nomina di Federica Mogherini ad Alto rappresentante, riconoscimento della stima che il ministro ha saputo conquistarsi nelle cancellerie europee, è stato un segnale di disponibilità per il capo del governo ed il paese. Un indubbio successo. Renzi ha cercato di far lievitare il tema della crescita tra le priorità dell’agenda europea. Con il caveat che solo il tempo farà emergere i contorni dei programmi annunciati, l’Italia qualcosa ha ottenuto, anche in termini di consapevolezza della necessità di maggiore coesione e solidarietà. Renzi ha sperimentato le peculiarità dei negoziati comunitari. Sotto questo profilo, il presidente del consiglio dovrebbe calibrare più attentamente il livello della polemica, sostanziale e comunicativa, nei confronti della Commissione. Sarebbe un peccato se la significativa riserva di credito del capo del governo venisse dispersa in polemiche che, tra l’altro, si basano su un’errata, anche se diffusa, interpretazione della natura degli organi comunitari. Questo, non significa rinunciare alle rivendicazioni Italiane o a contrastare indirizzi contrari ai nostri interessi. Il caso dei Marò, anche per la così italiana strumentalizzazione in chiave politica interna, ha continuato ad essere un delicato banco di prova per la politica estera del governo. Una volta presa la fatale decisione di far entrare la Enrica Lexia nel porto di Cochin e consegnare i due fucilieri all’India, i seguiti erano scontati. Come e da chi tale decisione sia stata presa non è mai stato chiarito, mentre sarebbe doveroso che lo fosse. Adesso, per evitare che lo stallo si prolunghi oltre il comprensibile, non resta che continuare a lavorare con pazienza e coerenza sul governo di Nuova Delhi, interlocutore ostico, studiando al contempo tutte le opzioni giuridiche percorribili.
Sulle crisi regionali, il governo ha dovuto affrontare due questioni di notevole rilevanza per gli interessi italiani: la crisi Ucraina ed i sommovimenti nel mondo islamico, in Libia in primo luogo. Sull’Ucraina, lo spazio di iniziativa dell’Italia è ristretto dal sospetto di alcuni partner e alleati di una nostra asserita accondiscendenza verso la Russia e di adesione aprioristica al dialogo a tutti i costi. Questi sospetti sono ingiusti, anche se talvolta iniziative o commenti improvvisati potrebbero averli suffragati. Siamo, forse più di altri, capaci di guardare alla complessità delle crisi e degli interessi ed equilibri in gioco. Ma non ne farei un demerito della nostra diplomazia. Abbiamo forti intrecci di interessi energetici ed industriali con la Russia ma la Germania ne ha ancora più di noi. Per questi motivi e forse per non disturbare il percorso di Mogherini alla volta di Bruxelles, l’Italia non ha assunto un profilo di spicco sulla vicenda Ucraina, mentre, nella debolezza della risposta unitaria dell’Eu, la Germania si è ritagliata il ruolo diplomatico principale, anche se invero con risultati sinora modesti. Anche il relativo disimpegno Usa non ha aiutato a superare una crisi che suscita gravi tensioni e instabilità nel cuore del continente, rischiando di riportare indietro l’orologio della storia. L’altro dossier caldo riguarda il Mediterraneo, soprattutto la Libia per i rischi diretti che comporta per il nostro paese. La situazione che si è creata, in parte non indifferente a causa di errori dell’Europa e dell’occidente, nell’arco di crisi che si estende dalla Libia all’Iraq, può essere affrontata solo in virtù di un grande sforzo collettivo, in primo luogo dell’Unione Europea e degli Usa, allargato a tutti i paesi che in diversa misura sono esposti ai rischi che provengono da quell’area. La netta sensazione è che sia mancata una leadership capace di coagulare questo sforzo collettivo. Senza velleitarismi, l’Italia avrebbe potuto mostrarsi, in questa area vitale per i suoi interessi, più determinata, particolarmente sulla crisi libica, tanto più che, con un regalo avvelenato, ci è stato attribuito un ruolo specifico per la stabilizzazione di quel paese. Non è certo mancato l’impegno, la nostra ambasciata a Tripoli è rimasta operativa, sola tra le europee, ma la comunità internazionale, nel complesso, a cominciare dalle Nazioni Unite, ha dato l’impressione di rassegnarsi all’attesa che la crisi si spenga da sola per esaurimento. Ciò non avverrà e la sua radicalizzazione è troppo pericolosa per l’Italia.