di Riccardo Brizzi
La ‘rottura’ annunciata dal candidato ‘normale’ Hollande rispetto all’‘iper-presidente’ Sarkozy riguardava principalmente l’ambito interno. In occasione delle presidenziali del 2012 le questioni geopolitiche erano state messe ai margini dei programmi e la priorità, in politica estera, appariva a tutti gli effetti l’Unione Europea e la gestione dei problemi dell’eurozona.
All’indomani dell’ingresso all’Eliseo di Hollande, l’Africa e il Mediterraneo hanno invece riacquisito una centralità inattesa nell’agenda diplomatica francese. Emblematico è stato l’intervento militare in Mali, nel gennaio 2013, in seguito alla risoluzione 2085 del Consiglio di sicurezza delle UN. In questo stato del Sahel, confrontato all’offensiva islamista, la Francia non è intervenuta in solitaria: il lancio dell’Operazione Serval è stato accompagnato dall’invio di truppe da parte del Ciad di Idriss Déby e, soprattutto, dall’avvio della Missione internazionale di sostegno al Mali (MISMA) da parte dell’Unione Africana (UA) e della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (CEDEAO), che ha coinvolto gli eserciti di quindici paesi africani. Benché la situazione in Mali non sia ancora stabilizzata e si affaccino inquietudini relative ai progetti del neopresidente, Ibrahim Boubakar Keita, la reattività di Hollande è stata apprezzata dall’opinione pubblica francese (63% di favorevoli all’intervento), mentre il coordinamento con le istituzioni internazionali e con un’organizzazione intergovernativa africana (di cui il Mali è membro) ha contribuito a depotenziare le accuse di neocolonialismo che avevano investito Sarkozy all’indomani dell’intervento in Libia.
Una dinamica simile si è riproposta, undici mesi dopo, nella Repubblica Centrafricana, con il varo da parte della Francia dell’Operazione Sangaris, il 5 dicembre 2013, all’indomani della risoluzione 2127 delle Nazioni Unite, che ha autorizzato il ricorso alla forza per ripristinare la sicurezza del paese. L’attivismo africano di Hollande ha sollevato diverse critiche, soprattutto in considerazione del fatto che in campagna elettorale il candidato socialista si era esplicitamente impegnato (punto 58.2 del programma) a «porre fine alla Françafrique» (promessa peraltro rinnovata da tutti gli inquilini dell’Eliseo da Mitterrand in avanti). A determinare questo interventismo è il triplice obiettivo di restituire a Parigi prestigio internazionale attraverso la tradizionale strategia dell’interventismo «umanitario»; di neutralizzare l’opposizione interna e di far recuperare all’esterno dei confini nazionali la credibilità e la statura presidenziale che il capo dello stato fatica a conservare in patria. Tuttavia la ‘dottrina Hollande’, ribadita in occasione del 23° vertice franco-africano svoltosi all’Eliseo il 6-7 dicembre 2013, si fonda su due pilastri che la differenziano notevolmente rispetto alla politica africana dei suoi predecessori (a partire dalle missioni di Sarkozy in Libia e Costa d’Avorio): l’‘africanizzazione’ delle truppe e la ricerca di un ampio consenso internazionale – a partire dai partner africani – per legittimare gli interventi.
Hollande non ha invece mantenuto il medesimoprotagonismo sulla scena mediterranea. Al di là del cimitero di iniziative incompiute che ha ereditato – dal processo di Barcellona (1995), passando per la politica europea di vicinato e il progetto di Unione per il Mediterraneo (UFM, 2008) – l’azione del presidente francese è stata limitata da tre elementi di criticità.
Innanzitutto le rivoluzioni arabe hanno profondamente trasformato il quadro geopolitico di un bacino mediterraneo sempre meno coeso e viepiù atomizzato, nel quale il ripristino di un’azione multilaterale (punto 57.4 del programma di Hollande) appare ormai impraticabile. In secondo luogo il ruolo tradizionalmente svolto da Parigi è oggi sfidato dalla penetrazione in quest’area di attori extra-regionali che si impongono sul fronte commerciale (Cina, India e Brasile), che tornano alla ribalta su quello militare (Russia) e che attuano una diplomazia economica e religiosa (Qatar e Arabia Saudita). Infine Hollande è confrontato con le fratture che in Francia – a sinistra come a destra, e financo all’interno del governo Ayrault – oppongono i sostenitori di una politica estera atlantista, sensibile alle priorità di Washington,agli eredi della dottrina gollista-mitterandiana,più propensa ad avviare relazioni bilaterali con i paesi della sponda sud del Mediterraneo.
Il sommarsi di questi vincoli ha finito per paralizzare la politica mediterranea di Hollande. Le principali iniziative degne di nota su questo versante sono state un cauto recupero dei rapporti con la Turchia (peraltro frenato dai sommovimenti interni al governo Erdoğan) e il tentativo di rilanciare la moribonda UFM, attraverso la convocazione a Parigi dei 43 paesi membri, nel settembre 2013, con l’obiettivo di avviare un percorso comune di rafforzamento della partecipazione femminile alla vita politica, economica e sociale. Un tema certo rilevante ma che testimonia l’abbandono degli ambiziosi progetti di cooperazione economica ed energetica che avevano accompagnato la nascita dell’UFM.