Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La politica economica dei vari Stati è progressivamente mutata nel corso del Novecento. Dai principi del laissez-faire molto in voga nel XIX secolo, caratterizzati però da pericoli deflattivi e da eccessive spinte euforiche dei mercati finanziari, ci si è sempre più spesso orientati verso uno Stato imprenditore che interviene direttamente nel sistema delle relazioni economiche. Si impongono tre modelli principali: lo Stato sovietico, il welfare state e quello caratteristico delle grandi potenze dell’Europa continentale, basato sul controllo delle grandi imprese e delle grandi banche. Verso la fine del secolo a questi si sostituirà un modello di Stato regolatore volto a creare le condizioni di contesto necessarie per un ordinato funzionamento delle economie monetarie di produzione.
L’economia del laissez-faire: dal gold standard al dollar standard
Nel secolo XIX la politica economica è stata dominata dai principi del laissez-faire: lo Stato lasciava gli uomini d’affari liberi di agire sulle scelte che riguardavano la natura delle merci da produrre, il prezzo al quale collocarle sul mercato e il modo in cui realizzare, sotto il profilo tecnologico e organizzativo, quelle produzioni. Questo atteggiamento verso la politica economica era assai diffuso nella comunità degli affari come nelle cancellerie degli Stati. I governi, tuttavia, agivano con decisione sulla creazione di reti infrastrutturali che agevolavano gli scambi e la produzione, favorendo la mobilità delle merci e delle persone. Il regime monetario, invece, era rigidamente dominato dal rispetto del criterio di gold standard: il contenuto di valore delle singole monete nazionali doveva essere riconducibile a un multiplo stabile delle riserve auree disponibili nelle casse della banca centrale nazionale.
In presenza di un deficit nella bilancia dei pagamenti, cioè di uno squilibrio tra le risorse cedute e quelle importate – sia in termini di merci e di servizi che in termini di capitali finanziari – il governo doveva agire, attraverso le imposte o la manovra di politica monetaria, riducendo il livello dell’attività economica. La formazione di un debito strutturale verso il resto del mondo, infatti, veniva considerata come un eccesso di attività rispetto alle capacità dell’economia nazionale e il governo doveva agire come se quel debito fosse da ripagare mediante la cessione delle riserve auree per un valore corrispondente. Il vincolo, che imponeva il mantenimento di una relazione rigida tra massa monetaria legale e riserve auree, si traduceva, di conseguenza, in una contrazione della massa monetaria e/o in un incremento della pressione fiscale, per ridurre il ricorso al credito della banca centrale da parte delle amministrazioni pubbliche per finanziare i propri programmi. L’economia nazionale rallentava, si riduceva la domanda di beni e capitali nei confronti del mercato internazionale, si riducevano le dimensioni della popolazione lavorativa e si ritrovava l’equilibrio dei conti con l’estero, avendo ripristinato il rapporto tra massa monetaria legale e riserve auree e quello, da esso derivante, tra massa monetaria legale e volume della produzione domestica di beni e di servizi.
Nei primi decenni del XX secolo questa ortodossia monetaria viene contraddetta dall’espansione della moneta fiduciaria e dei finanziamenti bancari. Sono le banche commerciali che, utilizzando i depositi raccolti tra il pubblico, finanziano nuovi progetti che espandono sia le dimensioni della produzione che quelle della circolazione monetaria. La creazione delle infrastrutture domestiche e di quelle internazionali – si pensi allo sviluppo delle reti ferroviarie e tranviarie, alla produzione e alla distribuzione di energia elettrica o di gas e alla crescita delle organizzazioni postali – negli ultimi decenni del secolo precedente e nel periodo che precede lo scatenarsi della prima guerra mondiale, stimolano nuovi investimenti privati e la creazione di nuove imprese che vengono finanziati proprio dalla dilatazione dell’offerta di crediti commerciali e finanziari da parte delle banche. Semplificando si può affermare che il secolo XVIII sia quello della rivoluzione industriale e della trasformazione dell’artigianato nella moderna produzione di serie, che il secolo successivo abbia consolidato gli equilibri nazionali e le dimensioni dei singoli Stati sovrani in Europa e che, nel trapasso tra l’Ottocento e il Novecento, si siano realizzati il consolidamento degli intermediari finanziari e la nascita di una rete di rapporti tra gli intermediari attraverso gli stessi confini dei nuovi Stati nazionali. Un esempio di queste relazioni internazionali, nell’ambito del perimetro europeo, fu il concorso delle banche tedesche alla nascita e alla crescita della Banca Commerciale Italiana.
La conclusione della prima guerra mondiale viene segnata da due eventi singolari: l’economia europea, ma anche quella degli altri grandi Paesi industriali, riprende il tumultuoso ritmo espansivo che aveva caratterizzato l’inizio del secolo; l’impegno degli Stati Uniti per la conclusione del conflitto rifluisce in una prospettiva isolazionista rispetto al teatro europeo che impedisce il definitivo superamento dei conflitti tra le singole potenze europee che avevano dato luogo al conflitto.
Lo Stato imprenditore e la pianificazione socialista
I governi europei ritengono, in questo contesto, di poter riproporre il regime di gold standard e una politica di laissez-faire, che affidava alla comunità degli affari il ritmo e il destino dello sviluppo economico. La combinazione di liberismo e regime monetario aureo, il gold standard, contiene in sé, tuttavia, un implicito rischio di deflazione automatica e di euforia irrazionale dei mercati finanziari, che possono subire il fascino delle aspettative, perennemente espansive, dei singoli componenti della comunità degli affari. Quando con gli anni Trenta l’euforia finanziaria declina nella crisi, e la politica economica reagisce con lo spirito deflattivo, che deriva dall’adesione dei governi e delle banche centrali alle regole del gold standard, l’unica via di uscita dalla crisi sembra essere il ricorso a un intervento penetrante degli Stati sul sistema delle relazioni economiche. Congiurano in questa direzione le suggestioni, diverse ma convergenti, paradossalmente, dell’avvenuto inizio dell’esperimento socialista nel grande continente sovietico e la proposta di un nuovo contratto tra Stato e società, il New Deal di Roosevelt, per superare, nell’ambito dei suoi confini nazionali, la crisi e il ristagno dell’economia americana.
L’epilogo della mancata soluzione dei problemi europei sarà prima lo scoppio della seconda guerra mondiale e, poi, la nascita del mondo bipolare dominato dalla guerra fredda tra i due sistemi che, convergendo tra loro, avevano sconfitto i regimi autoritari delle potenze europee continentali. Sul terreno della politica economica, tuttavia, il Novecento può esser considerato, di conseguenza, come un grande laboratorio per tre modelli di comportamento.
Le tre economie
Durante la prima parte del secolo si manifestano gli effetti e i limiti del liberismo, il laissez-faire, laissez-passer, e del suo corollario in termini di ortodossia monetaria. Nel centro del secolo, in molti Paesi europei, si dilata la presenza del settore pubblico nell’attività economica e l’autonomia di banche e imprese, condotte in regime di proprietà privata, viene progressivamente sostituita dalle scelte di enti e organizzazioni controllati dal governo, anche se essi, a volte, non appartengono in senso stretto al sistema delle amministrazioni pubbliche. Soluzioni che accentuano il ruolo diretto di intervento dello Stato prevalgono nell’Europa continentale: in Spagna, in Italia e in Germania. Nel Regno Unito, e negli Stati Uniti, si afferma la percezione dell’esigenza di un ruolo di regolamentazione attiva dei potenziali squilibri economici a livello di sistema e di una politica di sicurezza sociale che assicuri, contro l’incertezza dal futuro, i singoli individui mediante politiche e organizzazioni promosse dagli Stati e finanziate con la dilatazione della pressione fiscale e del debito pubblico.
Questa centralizzazione burocratica delle decisioni economiche riflette, per certi versi, anche la grande standardizzazione dei cicli organizzativi che il taylorismo induce nella grande industria americana in termini assolutamente simmetrici al consolidamento di modelli di industrializzazione pesante che si consolidano nei Paesi socialisti durante la stagione dello stalinismo.
In definitiva, durante il periodo compreso tra le due guerre, si presentano sulla scena tre ipotesi che mettono in discussione la tradizione liberista del secolo precedente: lo Stato sovietico che pianifica l’offerta nazionale e distribuisce il prodotto lordo tra consumi e investimenti secondo le esigenze dettate dalle proprie burocrazie; lo Stato che regola la dinamica macroeconomica e garantisce il regime di benessere per la popolazione che governa, il welfare state; lo Stato che dirige l’economia nazionale attraverso il controllo diretto delle grandi imprese e delle grandi banche.
Il secondo modello si sviluppa nel solco delle culture anglosassoni; il terzo nella tradizione delle grandi potenze dell’Europa continentale e il primo rappresenta una proiezione radicale del terzo che si afferma nell’Unione Sovietica, una grande entità politica sovranazionale, dalle radici asiatiche che, grazie all’economia socialista, crede di poter accelerare radicalmente il proprio processo di sviluppo industriale.
Dalla pianificazione alla programmazione: la lezione keynesiana
La conclusione del secondo conflitto mondiale porta con sé la diffusione generalizzata dei principi keynesiani nella politica economica e la nascita di un nuovo regime monetario internazionale, quello del dollar standard. Entrambi gli approcci ripropongono, nel teatro dei mercati domestici, come nella scena delle relazioni internazionali, la concertazioni tra governi e parti sociali e la creazione di istituzioni ad hoc, relativamente autonome dal potere dei governi, come autorità regolatrici del mercato ma rispettose della sua autonomia. Nascono da questi approcci due possibili strade per lo sviluppo della politica economica in un regime che riconosca la necessità ma non la esclusività della presenza di liberi mercati. Quello della programmazione, che rappresenta un’attenuazione dell’eccessiva pervasività della pianificazione socialista ma che si muove, comunque, in una logica di supplenza autoritaria delle scelte individuali rispetto alla libera dinamica dei mercati. E quello delle autorità indipendenti, che producono beni pubblici e intervengono sui fallimenti del mercato ma lasciano a imprese, banche e consumatori la piena libertà di scelta in ordine alla produzione e allo scambio dei beni, quando essi siano contendibili e la loro proprietà sia garanzia della esclusività della loro utilizzazione. Questo ultimo modello di riferimento diventerà il paradigma più diffuso, anche perché più aderente alla soluzione dei problemi da affrontare, nel mondo della globalizzazione durante il XXI secolo, che rappresenta l’avvenuta tracimazione delle dimensioni dei singoli mercati domestici rispetto al perimetro amministrativo e agli strumenti di controllo degli Stati nazionali.
La programmazione economica si afferma, invece, nella lunga fase di espansione – il “miracolo economico” – che si realizza in Europa e in Italia a partire dalla conclusione del secondo conflitto mondiale. Una fase che si può considerare conclusa con lo scoppio delle crisi energetiche e la disdetta degli accordi di Bretton Woods, negli anni Settanta. Essa prende le distanze sia dal modello della pianificazione socialista che dalle forme di intervento pubblico, che si erano manifestate negli anni Trenta per fronteggiare la crisi di crescita nelle economie industriali mature. Nei Paesi a economia socialista non esistono imprese ma solo impianti industriali affidati alla regia di organismi centrali che pianificano e gestiscono l’espansione della ricchezza, in termini di quantità e di tipologia dei beni e servizi prodotti. La presenza dello Stato era cresciuta anche nei Paesi a economia di mercato negli anni Trenta. Essa doveva compensare il fallimento di banche e intermediari mobiliari, che avevano alimentato, oltre i limiti di sopportabilità economica, la moltiplicazione della ricchezza finanziaria e la parallela contrazione nelle dimensioni della ricchezza reale dei livelli di occupazione. La canalizzazione del risparmio nazionale verso l’opera di risanamento finanziario e di riorganizzazione industriale viene realizzata, in questa stagione, dando vita a enti e a organizzazioni, controllate dallo Stato, ma estranee alla macchina organizzativa e alla giurisdizione dei regolamenti amministrativi, che si sostituiscono, con variegata intensità nei Paesi dell’Europa continentale, alle imprese e alle banche nella gestione dei processi di intermediazione finanziaria e nelle scelte relative alla produzione di beni e servizi.
Questa dilatazione della presenza pubblica nell’economia, insomma, lascia inalterate la natura giuridica e la struttura organizzativa di banche e imprese ma ne sussume il controllo a una proprietà riconducile ai governi e a un management, designato e controllato da quella proprietà. È una dilatazione di ordine microeconomico e istituzionale che crea una oggettiva dipendenza dal potere politico di molte decisioni che riguardano le banche e le imprese. La politica di programmazione, realizzata nella stagione successiva alla conclusione del conflitto mondiale, allarga la presenza pubblica anche sul terreno macroeconomico, mediante la dilatazione degli strumenti fiscali e l’adeguamento delle politiche monetarie ai programmi di espansione dettati dal governo, per settori di attività o ambiti territoriali di carattere regionale. Essa convive con il mantenimento di enti ad hoc e con la creazione di agenzie, alimentate dalla finanza pubblica, per il perseguimento di compiti e missioni puntuali. Famoso, ed emblematico, il caso italiano della Cassa per il Mezzogiorno: una tecnostruttura cui venne affidato, negli anni Cinquanta, il compito di realizzare un piano straordinario di infrastrutture nelle regioni meridionali del Paese. Nei decenni successivi quella funzione venne estesa alla gestione di un regime di agevolazioni finanziarie e creditizie per le imprese che investivano nei territori affidati alle competenze della Cassa.
Le politiche di intervento diretto, come gli investimenti delle imprese e degli intermediari finanziari, controllati dallo Stato ed ereditati della stagione iniziata negli anni Trenta e conclusasi con il conflitto mondiale, si collocano in quadri di indirizzo e documenti di contesto, fondati su previsioni di ordine macroeconomico, nei quali, spesso solo in termini residuali e complementari, si vanno a inserire le scelte di investimento delle imprese private e quelle di spesa delle famiglie consumatrici.
A questo insieme di scelte, pubbliche e private, che riguardano consumi, investimenti e finanziamenti, si affiancano le spese, crescenti, in materia di previdenza, sicurezza sociale e servizi sanitari e scolastici, che, insieme alla realizzazione di opere pubbliche, trovano copertura nei bilanci degli Stati.
Verso la cooperazione tra Stato e mercato: il modello delle autorità indipendenti e il superamento della programmazione economica
La spesa complessiva dei singoli Stati, in percentuale del volume del prodotto interno lordo, si incrementa progressivamente nel corso del Novecento in ragione di questo affiancamento di funzioni; l’eredità dello Stato imprenditore, lo sviluppo del regime di welfare state e l’ambizione di governare il controllo della crescita attraverso strumenti di programmazione vincolanti, anche se non coercitivi, delle scelte degli attori privati. La dilatazione della spesa pubblica rappresenterà la radice della crisi fiscale delle democrazie negli anni Ottanta e della dilatazione del debito pubblico in tutte le nazioni europee. Il deflagrare di questa crisi fiscale si collega alla manifestazione di processi di integrazione economica internazionale che attenuano la capacità degli Stati di governare le dinamiche dei mercati domestici. Prende corpo, anche grazie alla terza rivoluzione tecnologica, quella dell’industria dell’informazione e della comunicazione, la globalizzazione del sistema economico. Concorre in questa trasformazione il collasso delle economie pianificate e prende piede un modello di gestione, della politica economica, che riduce il ruolo dello Stato alla produzione di beni pubblici e alla soluzione dei fallimenti del mercato, piuttosto che alla supplenza delle scelte individuali di consumatori e imprese.
Beni pubblici e beni privati: le autorità indipendenti
Si può riassumere questa ultima stagione della politica economica nel Novecento con una formula sintetica: lo Stato programmatore, che aveva sostituito nei Paesi a economia di mercato lo Stato imprenditore, diventa solo uno Stato regolatore. L’espressione potrebbe sembrare ambigua perché tutti gli Stati, nella misura in cui dispongono del potere legislativo, dettano regole e le fanno rispettare attraverso le corti di giustizia.
Per spiegare la natura di questa regolazione dell’economia, che sostituisce la programmazione, dobbiamo sviluppare una piccola parentesi analitica. Possiamo classificare i beni e i servizi, che vengono prodotti e scambiati in una economia monetaria di produzione, in una tassonomia fondata su due criteri discriminanti. Consideriamo due caratteristiche comuni a tutti i beni e servizi: la contendibilità e l’esclusione dall’accesso per i soggetti diversi dal proprietario.
Va da sé che per applicare questa tassonomia dobbiamo trovarci in una economia fondata sullo scambio che agisce nell’ambito di regole e organizzazioni che rappresentano un contesto istituzionale condiviso. Le moderne economie di produzione e i Paesi europei ricadono certamente nei margini di applicazione di questa definizione. Se i criteri discriminanti che utilizziamo sono due, la nostra tassonomia individua quattro possibilità. Beni escludibili e contendibili, come i gelati al limone o i telefonini portatili: questi beni sono beni privati puri e possono essere affidati alle libere scelte di produttori e consumatori nello spazio economico del mercato globale e il mercato, fatta salva la libera competizione tra le imprese, dovrebbe garantire efficienza delle condizioni produttive e libera circolazione delle merci nel regime di scambio.
Beni condivisi, e non contendibili, e per i quali esista la possibilità di opporre una barriera fisica alla loro utilizzazione, come le reti infrastrutturali, ad esempio le autostrade. In questo caso, che rappresenta le reti condivise che permettono a più utenti di raggiungere la soddisfazione dei propri bisogni, l’assenza della competizione richiede la presenza di una autorità che regoli la produzione e la gestione della rete condivisa e che amministri il pagamento di coloro che accedono, grazie al controllo delle barriere all’ingresso. È evidente che il mercato, inteso come coordinamento spontaneo delle decisioni indipendenti di singoli attori autonomi, non potrebbe raggiungere simili obiettivi.
Beni che generano fenomeni di competizione tra gli utilizzatori ma che non siano tutelati da una barriera all’accesso degli stessi, come i beni naturali, l’aria o i pesci del Mediterraneo, ad esempio. In queste circostanze serve, ancora una volta, un regime di regolazione per evitare conflitti intergenerazionali nella utilizzazione di questi beni. L’assenza di un titolare della loro proprietà, che vigili sul loro costo di utilizzazione, rischia che essi vengano consumati a una velocità molto superiore a quella necessaria per la loro riproduzione. Con un danno evidente per le generazioni future.
Esistono, infine, beni pubblici puri. Essi non sono contendibili tra i consumatori e non si può escludere alcun individuo dall’accesso ai loro servizi. Si pensi alla conoscenza, che deve essere utilizzata per essere utile ma che, una volta utilizzata, è fungibile con costi irrilevanti di applicazione. Ma si pensi anche alla competizione, che serve per rendere efficienti gli scambi, o alla moneta, che serve per consentire il funzionamento dell’economia monetaria di produzione. Produrre beni pubblici è costoso e non è remunerativo: non esiste, di conseguenza, una motivazione razionale per la loro esistenza se non nella logica di una consapevole azione collettiva, realizzata nell’interesse della comunità di appartenenza. Autorità indipendenti dal governo sembrano essere gli strumenti più idonei per assolvere questo compito mentre, per una lunga stagione, i governi, attraverso la pubblica amministrazione, hanno provveduto alla tutela dei beni naturali, alla creazione di infrastrutture e alla produzione di beni pubblici.
Lo Stato regolatore, insomma, dovrebbe ridurre la sua funzione alla produzione di istituzioni, regole e organizzazioni, che possano, in termini autopoietici, senza il controllo e l’indirizzo di una volontà terza ed estranea a quelle istituzioni, provvedere a creare le condizioni di contesto necessarie per un ordinato funzionamento delle economie monetarie di produzione, oltre i confini dello Stato nazione, e nello spirito di cooperazione e tolleranza che dovrebbe dominare una civiltà degli scambi che si dilata fino a coincidere con l’intero pianeta.