La politica della scienza nel secondo dopoguerra
Scrivere sull’evoluzione della politica della scienza in Italia dopo la Seconda guerra mondiale significa descrivere una parabola che vede la ricerca e l’attività volta all’innovazione tecnologica partire da una condizione gravemente disastrata, qual era quella dell’immediato dopoguerra, per toccare livelli e logiche di investimenti migliorati, raggiungendo su alcuni fronti risultati di eccellenza negli anni del boom economico. Mai, tuttavia, gli investimenti e l’organizzazione hanno raggiunto livelli e qualità tali da rendere il sistema italiano stabilmente competitivo e, dagli anni Settanta, quando l’economia occidentale ha iniziato a produrre congiunture sfavorevoli, il sistema è entrato in una fase di declino apparentemente irreversibile.
All’indomani della Seconda guerra mondiale le condizioni del sistema della ricerca italiano erano disastrose. Il regime fascista non aveva investito in ricerca e innovazione, nonostante la fondazione nel 1923 del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR). Un dato eloquente è il numero di laureati nelle scienze pure, sceso da 15,9 su 100.000 abitanti nel periodo 1921-25 a 10,6 per il 1935, e solo di poco risalito a 11,6 prima del conflitto. Il fascismo aveva sottratto braccia e cervelli in ogni ambito della società, imprigionando gli antifascisti o facendo emigrare gli stessi prima e gli ebrei poi. A ciò si aggiunsero, nella fase finale delle vicende belliche, la sistematica requisizione di strumenti di laboratorio (e in particolare di quelli di maggior valore) da parte delle autorità tedesche, e i danni collaterali dei bombardamenti delle forze alleate, che danneggiarono anche le istituzioni scientifiche.
I governi di Alcide De Gasperi non considerarono la ricerca una priorità del Paese. La United Nations relief and rehabilitation administration (UNRRA) aveva dimostrato un minimo interesse per la ripresa delle attività scientifiche: propose la costruzione di una fabbrica di penicillina e obbligò il governo italiano a un contributo straordinario per il CNR, stabilito per il 1946 in 200 milioni, che l’esecutivo erogò in ritardo e con notevole riluttanza. Negli anni successivi, il governo non fece molto di più, stanziando per il CNR appena 300 milioni per il 1948 (a fronte dei 500 richiesti dal presidente dell’ente) e ancora 540 milioni per il 1950-51.
Alle necessità della ricostruzione del Paese, e quindi alle scarse risorse destinate, faceva anche fronte un rinnovato aumento del numero di studenti a ogni livello. Se la guerra aveva ricreato un problema di analfabetismo di massa, dovuto soprattutto alla mancata scolarizzazione dei più piccoli, per fasce di età superiori si era verificato una sorta di blocco, eliminato a partire dal 1946. Prima del secondo conflitto mondiale vi erano 171 facoltà per 85.000 studenti, mentre nel 1948 gli studenti erano più che raddoppiati, arrivando a 190.000, con sole 12 facoltà in più. Anche per questi motivi, già alla fine degli anni Quaranta era evidente la necessità di una riforma degli istituti formativi (scuole superiori e università), soprattutto modificando in senso tecnico anche le università, così da rendere possibile una maggiore integrazione con la produzione industriale. Un tema, questo, oggetto di dibattito anche nei decenni successivi e che richiamava un altro aspetto della politica della scienza: il finanziamento privato e la partecipazione delle imprese alla ricerca scientifica. Il problema presentava due aspetti: da un lato, il finanziamento interno, diretto a gruppi di tecnici e scienziati in strutture proprie dell’azienda; dall’altro, la partecipazione dei privati, in diverse forme, nel sostegno e nell’indirizzo della ricerca svolta in strutture pubbliche. Nel clima di forte divisione ideologica degli anni postbellici, quest’ultima opzione era percepita come una minaccia per i principi di libertà della ricerca e dell’insegnamento sanciti dall’art. 33 della giovane carta costituzionale.
In numerose aziende private, nel dopoguerra, si svilupparono centri di ricerca di ottimo livello. Un esempio sotto molti aspetti fu l’Olivetti, simbolo di una visione innovativa dell’industria e della sua ricaduta sociale. L’azienda di Ivrea ebbe un ruolo importante nella nascita dell’industria dei computer, in diretta concorrenza con le imprese americane, e la ragione per cui un progetto dalle formidabili potenzialità economiche fallì è imputabile al ritardo culturale della politica economica del Paese. Adriano Olivetti aveva creato a Ivrea nel 1954 un laboratorio per la ricerca elettronica che collaborava, dal 1956, con l’Università di Pisa, ed era guidato da Mario Tchou. Dopo la costruzione di Elea 9003, il primo elaboratore automatico a transistor della storia, Olivetti morì nel 1960, e Tchou l’anno dopo. L’Olivetti finì sotto il controllo degli industriali e finanzieri italiani economicamente e politicamente più influenti, i quali decisero di disinvestire dal settore elettronico. La Divisione elettronica Olivetti, in cui era confluito nel 1962 il Laboratorio di ricerche elettroniche, fu venduta per il 75% alla General electric nel 1964, ma nel frattempo a Ivrea era stato realizzato il primo personal computer della storia, cioè il P101 (Programma 101 o ‘Perottina’).
Più importante, per dimensioni e durata, è stato il ruolo di Montecatini, dove la collaborazione tra il presidente dell’azienda Guido Donegani e l’ingegnere chimico Giacomo Fauser diede vita a un illustre laboratorio, fondato a Novara nel 1922 e tuttora attivo. L’Istituto Guido Donegani (come fu chiamato a partire dal 1941) diventò celebre, tra l’altro, per lo sviluppo dei polimeri plastici. Grazie alla visione lungimirante di Piero Giustiniani, dal 1947 la Montecatini finanziò generosamente le ricerche di Giulio Natta, professore di chimica industriale al Politecnico di Milano, che vinse il Nobel per la chimica nel 1963 grazie alle sue scoperte nel campo della chimica e della tecnologia degli alti polimeri. Con i finanziamenti di Montecatini, Natta sviluppò nel 1954 i primi polimeri isotattici, tra cui il Moplen (nome commerciale del polipropilene isotattico): prodotto industrialmente a partire dal 1957, diventò uno dei simboli della rinascita industriale italiana.
Nell’ambito della chimica farmaceutica vanno poi ricordati gli investimenti e i risultati ottenuti dalle case farmaceutiche Lepetit e Farmitalia. Finanziando ricerche interne e laboratori universitari svilupparono antibiotici, antitumorali e fattori cosiddetti neurotrofici, e dimostrarono anche una notevole vitalità commerciale.
Sul fronte degli enti pubblici, nel corso degli anni Cinquanta si produssero altri sviluppi importanti. Grazie al legato della Seconda guerra mondiale e della scuola romana di via Panisperna la ricerca nel settore del nucleare conobbe uno sviluppo enorme, connettendosi ai principali network internazionali e riuscendo a garantirsi anche le istituzioni capaci di strutturare adeguatamente la disciplina. Sul fronte privato, invece, va ricordata l’avventura del CISE (Centro Informazioni Studi ed Esperienze) fondato a Milano nel 1946 da un gruppo di giovani fisici (Giuseppe Bolla, Carlo Salvetti, Giorgio Salvini) insieme a un giovane ingegnere della Edison, Mario Silvestri, che convinsero la stessa Edison e altre industrie a investire nella ricerca sui reattori nucleari, ovvero nella tecnologia del nucleare civile. Al di là dei progetti elaborati, con poche ricadute nell’immediato, il CISE svolse un ruolo per la formazione di una nuova generazione di fisici e ingegneri che riuscirono negli anni successivi a raccogliere le nuove sfide poste dalla tecnologia nucleare. Il CISE, tra alterne fortune, fu il principale protagonista del progetto nucleare italiano almeno fino al 1957, quando il CNR si svincolò dalla collaborazione iniziata qualche anno prima.
Nel frattempo, infatti, erano nati l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN) e il Comitato nazionale di ricerche nucleari (CNRN). Fu quest’ultimo, creato nell’estate del 1952, ad assumere la responsabilità principale del nucleare italiano, mentre dal punto di vista della ricerca fondamentale i compiti maggiori furono svolti dall’INFN, creato nell’agosto del 1951 dal presidente del CNR. In questa vicenda, va sottolineata la grande influenza che i fisici ebbero sulle prime fasi di ricostruzione della scienza italiana, sfruttando il prestigio internazionale di cui godevano Enrico Fermi e la scuola di via Panisperna. In quegli anni si stabilì una sorta di dominio della fisica nucleare sulla scienza italiana, non solo in termini di finanziamenti ma anche di prestigio culturale nazionale e internazionale. L’Italia diventò uno dei Paesi trainanti nell’integrazione scientifica europea per ciò che riguarda le grandi strutture come il CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire), l’EURATOM (nome convenzionale della Comunità europea dell’energia atomica), la European launcher development organization e la European space research organization.
Anche l’Istituto superiore di sanità (ISS) si proiettò su scala internazionale, arruolando scienziati del valore di Daniel Bovet e di Ernst Chain, entrambi premi Nobel. Domenico Marotta, chimico allievo di Emanuele Paternò, era a capo dell’ISS sin dal 1935, ed era passato indenne dal fascismo alla Repubblica. Convinto che la ricerca pura fosse fondamentale anche per il personale addetto a compiti istituzionali e amministrativi, riuscì a realizzare il suo sogno di trasformare l’ISS in un grande e moderno istituto di biochimica, non più quindi solo un organo tecnico al servizio del ministero dell’Interno per il controllo della sanità pubblica. L’assunzione di Chain e Bovet andava in questa direzione, facendo diventare preponderante all’interno dell’Istituto la ricerca di base. La visione di Marotta, tuttavia, non escludeva le ricadute tecnologiche e industriali della ricerca. L’arrivo di Chain si intrecciava alla complessa vicenda della fabbrica di penicillina dell’Istituto stesso che aprì i battenti nel 1952 e fece da sponda applicativa per le ricerche di Chain e del gruppo da lui diretto. L’aspetto rilevante della storia della fabbrica di penicillina all’ISS e in Italia fu proprio l’idea di integrare la ricerca di base alla componente produttiva, con la creazione di un laboratorio di chimica microbiologica e tecnologie per la fermentazione, il Centro internazionale di chimica microbiologica diretto da Chain, di livello internazionale.
Nel corso di un convegno organizzato il 2 e 3 dicembre 1961, l’anno del centenario dell’Unità, dal Centro attività culturali della Democrazia cristiana sul tema Una politica per la ricerca scientifica, emersero tuttavia le criticità della situazione. Nel quadro mondiale l’Italia aveva (già da allora) un numero di laureati, per milione di abitanti, che era tra la metà e un quarto di quello di Gran Bretagna, Unione Sovietica e Stati Uniti. Oltretutto, la maggior parte con laurea in diritto, economia, medicina, farmacia e lettere. Il tasso di scolarizzazione era (ed è rimasto) un problema cronico per l’Italia, che in 150 anni è passata da poco più di 1 a 10,8 anni di frequenza scolastica media pro capite: un tasso che rimane il più basso dei 12 Paesi dell’Europa Occidentale, a cui si aggiunge un livello di analfabetismo di ritorno e funzionale tra i più elevati nel mondo occidentale. Apparve chiaro che andava potenziato l’insegnamento delle scienze nelle scuole medie e liberalizzato l’accesso all’istruzione superiore: una condizione, quest’ultima, che formalmente si realizzerà solo nel 1969. Altrettanto chiara era l’urgenza di sviluppare istituti scientifici multicattedra e di riformare l’università attraverso la creazione di dipartimenti: in quegli anni se ne parlava anche nel Piano Fanfani per la scuola, che tuttavia non portò ad alcun risultato.
Peraltro, minimi finanziamenti (0,2 % sul PIL, cioè 10 volte meno della media occidentale) andavano quasi tutti alla ricerca applicata: nel 1959-60 sui 39,1 miliardi, il 14,2% era destinato alla ricerca applicata, il 6,6% alla ricerca applicata di base, il 6% alla fondamentale, il 5,7% alle infrastrutture e ben il 6,3% alle spese generali. Il Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN) si portava via ben 20,4 miliardi, il CNR 4,1, il ministero della Pubblica istruzione 6,5, quello dell’Agricoltura 2,8 e quello della Sanità 2,4. Anche nel CNR solo il 28% dei finanziamenti andava alla ricerca fondamentale. Gli investimenti nella ricerca industriale erano stimati in 8,2 miliardi nel 1952-53 e in circa 20 nel 1959-60. Però gli esborsi per brevetti superavano gli introiti e l’apparato industriale era intrinsecamente debole, nonostante la crescita. Il forte ritardo della ricerca industriale aveva ragioni specifiche. Il miracolo economico italiano era una rivisitazione del modello fordista e non necessitava di una qualificazione troppo elevata: bastavano l’istruzione di base e un adeguato numero di ingegneri creativi. Peraltro, la struttura economico-industriale del Paese, con una prevalenza di piccoli distretti industriali, non incentivava la ricerca, che si svolgeva in modo consistente solo dove l’industria assumeva notevoli dimensioni quantitative.
Nel 1957 il CNR creò a Milano la Commissione per la ricerca industriale che doveva studiare come incoraggiare e diffondere la ricerca fra i piccoli distretti industriali italiani, e si propose di sviluppare strutture di cooperazione fra piccole industrie. Il problema, alla fine, non sarà mai risolto. Il PIL crebbe, in Italia, del 5,3 all’anno dal 1950 al 1973, con un tasso di crescita della produzione industriale dell’8,2 e del 6,2% per la produttività. In quegli anni il reddito medio degli italiani passò dal 38% al 64% di quello dei cittadini statunitensi. Tuttavia l’industria del Paese rimase bloccata in una specializzazione produttiva in settori a bassa e media tecnologia, optando per una crescente ricerca della qualità in comparti che definiranno il made in Italy.
Qualcosa si era mosso come abbiamo visto nella fisica nucleare, con la fondazione, nel 1952, del Comitato nazionale per le ricerche nucleari del CNR, e grazie al CISE. Nel CISE il mondo dell’industria era direttamente presente, benché solo con la partecipazione delle aziende pubbliche, tramite l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) e il ministero dell’Industria. Quest’ultimo finanziò il CISE con un miliardo di lire nel bilancio 1952-53, sostenendo il progetto di un reattore di produzione nazionale, idea poco dopo abbandonata. Tra progetti europei e italiani, alle varie discipline del settore andarono porzioni molto rilevanti del finanziamento totale della ricerca, che in generale rimase largamente sotto la media degli altri Paesi sviluppati: nel 1959 la cifra è ancora un imbarazzante 0,3%, in confronto all’1% europeo e al 2,2 statunitense. Tuttavia, con il CNRN i fisici riuscirono a compiere un salto di qualità. Il nuovo Comitato nel 1957 si rese infatti autonomo dal CNR, e quindi anche dall’università che condizionava il Consiglio. Fu proprio questo uno dei temi principali discussi negli anni Cinquanta da un gruppo di ricercatori insofferenti delle baronie accademiche. Il CNRN diventò per molti di loro una possibilità di fare il mestiere di scienziato senza dover sottostare ai tanti vincoli che l’ingessata struttura universitaria poneva.
La logica baronale gravava soprattutto nell’ambito delle scienze biologiche, che solo dagli anni Cinquanta avevano conosciuto un processo di internazionalizzazione e registrato l’arrivo di ingenti finanziamenti grazie agli sviluppi entusiasmanti della biologia molecolare. Fino agli anni Sessanta, in Italia, la genetica non fu materia obbligatoria per i corsi di laurea in biologia e medicina, e ci volle un grande impegno da parte dei genetisti per far sì che questa disciplina uscisse dalle sabbie mobili in cui era finita durante il fascismo.
Adriano Buzzati-Traverso, professore di genetica a Pavia, direttore del centro di biofisica del CNR, grazie al decisivo contributo del CNRN riuscì a importare in Italia i nuovi metodi della biologia molecolare. A lui si devono i due corsi biennali sull’effetto biologico delle radiazioni, tenutisi a Pavia tra il 1957 e il 1960, che prevedevano un basso numero di studenti, uno stretto rapporto con i docenti (anche stranieri), un training serrato in laboratorio e un periodo di studio all’estero. Frequentarono quei corsi praticamente tutti i genetisti italiani della generazione nata negli anni Quaranta, e buona parte di loro partecipò alla successiva grande impresa di Buzzati-Traverso, il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica (LIGB) di Napoli. Questo fu il frutto di anni di lavoro svolto in favore della creazione di un centro di studio d’eccellenza, completamente svincolato dall’accademia. Assumendo la guida della Divisione biologica del CNRN (costituita alla fine del 1956), e operando all’interno del gruppo di lavoro sulla biologia dell’EURATOM, Buzzati-Traverso riuscì a far stipulare un contratto quinquennale da CNR, CNRN ed EURATOM per la creazione del centro. Il LIGB nasceva ricco, in una piccola area a Napoli Fuorigrotta. Inaugurato nella primavera del 1962, dotato di attrezzature di buon livello e di un ottimo staff, sin dall’inizio fu caratterizzato da una produttività scientifica molto alta. La ‘Cold spring harbor’ all’ombra del Vesuvio divenne in pochissimo tempo un centro di attrazione internazionale, grazie anche ai corsi di specializzazione tenuti regolarmente e diretti ai ricercatori di tutto il mondo. Una delle differenze fondamentali tra il LIGB e il resto dei laboratori esistenti era l’uso di contratti atipici, senza concorso pubblico. Ciò consentiva una rotazione rapida dello staff scientifico. Di fatto, il LIGB aveva un’autonomia amministrativa notevole dal CNR, almeno finché fu attivo il finanziamento dell’EURATOM.
Nel 1962 il primo governo di centro-sinistra realizzò alcune delle riforme promesse, e in particolare nazionalizzò la produzione di energia elettrica, come richiesto dalla componente socialista della maggioranza. In questo frangente, il CNEN fu uno snodo cruciale, in quanto responsabile del programma nucleare civile. Felice Ippolito (1915-1997), artefice e dominus del CNRN e del CNEN, era convinto che lo Stato dovesse avere pieno controllo sullo sviluppo del nucleare. Non a caso, l’unico progetto privato (della Edison) per la costruzione di una centrale fu l’ultimo realizzato (a Trino Vercellese, ed entrato in funzione nel 1964), anche grazie agli ostacoli posti dal CNRN e dal governo. Ippolito diventò il bersaglio delle manovre di chi si era opposto alla nazionalizzazione dell’elettricità, e più in generale ai governi riformisti.
Lo scandalo noto come caso Ippolito esplose nell’agosto 1963, e già alla fine del mese il ministro dell’Industria lo sollevò dall’incarico al CNEN, la cui gestione venne aspramente criticata da importanti esponenti del Partito socialdemocratico, mentre PSI e PCI, nonché una buona parte dei suoi colleghi scienziati, presero le difese dell’accusato. Alla rimozione seguì un’inchiesta amministrativa, i cui esiti diedero il via all’azione giudiziaria, culminata nell’arresto il 3 marzo 1964. Le inchieste rilevarono numerose irregolarità che riguardavano cifre anche ingenti di cui Ippolito aveva disposto in modo non trasparente o che erano state utilizzate illegalmente. L’inchiesta giudiziaria si concluse in ottobre e Ippolito venne condannato a undici anni di prigione.
La vicenda Ippolito paralizzò il CNEN che si vide rinnovare i fondi assegnati negli anni precedenti senza che però fossero adeguati né all’inflazione né all’aumento delle dimensioni del comparto nucleare che aveva ormai tre centrali in funzione. Quasi contemporaneamente esplose anche lo scandalo che coinvolse Marotta, accusato di peculato, falso ideologico e materiale, relativamente alla gestione dell’ISS (dai rimborsi per consulenze esterne, alla compravendita di apparecchiature, fino alla gestione dei brevetti). Ormai in pensione da quasi tre anni, Marotta aveva lasciato la direzione a Giordano Giacomello, anch’egli coinvolto nell’inchiesta insieme al direttore amministrativo dell’Istituto, Italo Domenicucci. Venne messo sotto accusa tutto il sistema di direzione dell’Istituto, e in particolare si additò la ‘disinvoltura’ mostrata di fronte alla rigidità della burocrazia italiana.
L’arresto di Marotta avvenne circa un mese dopo quello di Ippolito, ma la vicenda era in realtà iniziata qualche settimana prima di quella del CNEN, e si gonfiò (con un’interrogazione parlamentare da parte di due deputati del PCI e la pubblicazione di documenti da parte dell’«Unità») nel luglio del 1963. Agli esordi sembrò un banale regolamento di conti interno all’Istituto, diretto a colpire Marotta ma non una politica più generale, come fu invece nel caso del CNEN. Marotta aveva promosso importanti collaborazioni con le imprese farmaceutiche, dopo l’iniziale ostilità dei privati nei confronti della fabbrica di penicillina. L’ISS era un vero centro di ricerca all’avanguardia e molto importante anche nel nuovo assetto amministrativo seguito all’istituzione del ministero della Sanità nel 1958. In questo senso, Marotta mantenne la stessa autonomia, ispirandosi ai National institutes of health statunitensi, investendo molto sulla ricerca di base anche come strumento per svolgere al meglio i compiti di sanità pubblica attribuiti all’Istituto. Tuttavia, all’interno dell’ISS in molti erano scontenti di questa ‘perversione’ della missione originaria dell’ente, attuata spesso con una ‘libera’ interpretazione delle norme. Con l’arresto di Marotta la grandeur dell’Istituto ebbe fine: Chain interruppe la collaborazione, la fabbrica di penicillina fu chiusa, e nel 1966 anche Bovet abbandonò il laboratorio. Marotta fu condannato a quasi sette anni in primo grado, ridotti notevolmente in appello.
I casi Ippolito e Marotta determinarono la semiparalisi non solo delle istituzioni scientifiche direttamente coinvolte. Il CNR – che riuscì a rimanere fuori dagli scandali – reagì con l’irrigidimento dei controlli burocratici. L’ente aveva d’altra parte appena intrapreso un percorso di rinnovamento, culminato nel 1963 con una legge di riforma (l. nr. 283 del 1963 per l’Organizzazione e lo sviluppo della ricerca scientifica), che prevedeva l’istituzione di nuovi comitati (comprendenti per la prima volta anche le scienze umane), ulteriori facoltà di organizzazione dei propri laboratori e dei propri programmi di ricerca, e una maggiore integrazione con l’industria. Significativamente, il CNR si trovava ora sotto la tutela del Comitato interministeriale per la ricostruzione, a sottolineare la nuova importanza attribuita alla ricerca per lo sviluppo tecnologico.
Lungo questo sentiero di innovazione e sviluppo della ricerca, i due scandali disseminavano mine per chiunque avesse responsabilità di qualche tipo. I vertici restrinsero le autonomie periferiche e centri come il LIGB, che dalla snellezza amministrativa traevano grande vantaggio, ne risentirono. Il LIGB si differenziava dagli altri centri di ricerca del CNR per l’autonomia della gestione finanziaria, che consentiva di pagare stipendi più elevati ai ricercatori rispetto all’accademia e agli altri centri. Tale autonomia era avversata da alcune forze politico-burocratiche che influenzavano, e influenzano, sia l’università sia l’amministrazione della ricerca in Italia. Buzzati-Traverso fu costantemente avversato per le sue idee meritocratiche e laiche. Nel 1969, quando l’accordo con l’EURATOM era scaduto da un anno e il CNR aveva assunto il controllo di quello che diventava così l’Istituto internazionale di genetica e biofisica, Buzzati-Traverso si dimise dalla direzione.
Né l’università né il CNR seppero fare fronte alla marea montante delle proteste politico-sociali che negli ultimi anni Sessanta interessò anche l’Italia: del resto, il mondo politico e il governo furono chiaramente presi in contropiede. I finanziamenti avevano continuato a crescere negli anni Sessanta, ma lentamente e senza mai raggiungere livelli paragonabili alle altre nazioni, rimanendo cioè costantemente sotto la soglia dell’1%. Invertendo la rotta rispetto al decennio precedente, i finanziamenti per la partecipazione a organizzazioni internazionali calarono costantemente anche in termini assoluti. Dai 37 miliardi del 1968, si rimase stabili intorno ai 30 (nonostante l’inflazione) fino al 1974, anno in cui si risalì a 44 miliardi. Nel 1967 il 3,6% dei finanziamenti alla ricerca in Italia proveniva dall’estero, ma nel 1970 la cifra era crollata all’1,3%. Il Paese si giocò in parte il prestigio acquisito durante il breve boom del decennio precedente. Quando nel 1969 la NASA distribuì preziosi campioni di rocce lunari che la missione statunitense aveva riportato sulla Terra, all’Italia non toccò nulla.
Parziale risposta a questi problemi, e in particolare alla distribuzione poco efficace delle risorse, si ebbe con lo sviluppo dei progetti speciali o finalizzati del CNR e della rete interna di istituti e laboratori alle dipendenze dell’ente. Contemporaneamente furono formalizzati i compiti di ricerca di tutta una serie di istituzioni esterne al CNR stesso. Nei primi anni Settanta si scontò la negativa congiuntura economica interna e internazionale: il sostanziale rallentamento della crescita e la crisi petrolifera del 1973 portarono nel comparto della ricerca a una diminuzione in termini reali della spesa pubblica e all’arresto del costante aumento del personale di ricerca nelle imprese. Ne risentì, per es., il Progetto S. Marco, che tra il 1962 e il 1964 aveva visto l’Italia entrare anche nella ricerca aerospaziale e continuare con importanti successi fino al 1969. Nel 1975 fu effettuato l’ultimo lancio dal centro spaziale allestito in Kenya nel 1966.
La crisi indusse a una riorganizzazione del sistema della ricerca e a una nuova assunzione di responsabilità da parte della politica: il Comitato interministeriale di programmazione economica (istituito nel 1967) avocò a sé il compito di disegnare le linee d’indirizzo e d’individuare i settori prioritari dello sviluppo scientifico e tecnologico nazionale, con la consulenza e la partecipazione della comunità scientifica. Fu inoltre rinnovato, con la creazione nel 1968 del fondo IMI (Istituto Mobiliare Italiano, che dal 1969 gestì, sulla base della valutazione espressa da un gruppo di ingegneri, i fondi governativi destinati a promuovere la ricerca industriale) per la ricerca applicata, l’impegno a sostenere l’innovazione tecnologica nelle imprese. Tuttavia, questi interventi non determinarono un maggior coinvolgimento delle aziende nel processo di innovazione. Non tanto per gli strumenti che il fondo aveva a disposizione, comunque insufficienti, ma in generale per la refrattarietà culturale, dovuta anche a un tradizionalismo familiare, verticistico e personalistico nel controllo del credito, delle imprese italiane verso l’investimento in ricerca e innovazione. La percentuale dell’investimento delle imprese private nella ricerca seguì una china discendente: dal 40% del 1970 al 30% del 1985, in netta controtendenza rispetto a ciò che accadeva negli altri Paesi industrializzati.
Solo dal 1980 la politica cominciò a occuparsi, per così dire seriamente, del tema, producendo le prime leggi complessive relative alla ricerca e alla formazione universitaria. Si entrò quindi in una fase di transizione, dalla quale sarebbe scaturita un’università non funzionale socialmente, basata su un’autonomia sempre solo dichiarata, ma di fatto bloccata e limitata. La l. 21 febbraio 1980 nr. 28 assegnò al governo la delega per il riordinamento della docenza universitaria. Il d.p.r. 11 luglio 1980 nr. 382 affermò che l’università è sede primaria della ricerca scientifica e che ai professori universitari è garantita la libertà di ricerca, oltre che quella di insegnamento. Fu altresì istituita l’Anagrafe nazionale delle ricerche, sotto la sovrintendenza di un Comitato, con l’obbligo per i professori di iscriversi all’Anagrafe per accedere ai finanziamenti pubblici. Lo stanziamento annuale per la ricerca universitaria fu ripartito per il 60% tra le università, tramite decreto del ministero della Pubblica istruzione, sentito il Consiglio universitario nazionale (CUN), e per il 40% fu assegnato a progetti di ricerca di interesse nazionale e di rilevante interesse scientifico. Comitati consultivi creati dal CUN ricevettero il compito di vagliare i progetti di ricerca presentati da gruppi di docenti e ricercatori, infine accettati e deliberati dal ministero.
L’obiettivo della legge era anche quello di garantire la libertà della ricerca autonomamente sviluppata dalle università, di organizzare la formazione delle nuove leve di ricercatori, di incentivare la ricerca, di promuoverne il rapporto con la committenza pubblica e privata, di investire sui settori di maggiore rilevanza e, contemporaneamente, di sostenere forme di aggregazione tali da consentire la gestione di progetti di larga portata in termini di risorse umane e finanziarie. Ma gli effetti della legge furono spesso controproducenti, non riuscendosi a conseguire l’instaurazione di una meritocrazia generale.
Dagli anni Novanta intorno all’università e alle politiche della ricerca si sono combattute sterili battaglie di potere, e l’autonomia a fatica conquistata tra contrasti politico-baronali trasversali, passando attraverso tre leggi e un decreto tra il 1989 e il 1999 (l. 168/1989, l. 537/1993, l. 210/1998 e d.m. 509/1999), ha di fatto consentito solo larghi margini di spesa, senza una logica funzionale e un piano a media e lunga scadenza. L’ultima legge significativa sull’università, la l. 240/2010, ha tentato un riordino economico-finanziario e didattico, nonché il cambiamento della logica di governance, ma gli effetti ancora non si vedono. I tagli lineari al fondo ordinario e agli stanziamenti per la ricerca mettono d’altro canto a rischio la sopravvivenza di numerosi atenei e portano all’estinzione di linee di ricerca e all’impossibilità di mantenere il sistema internazionalmente competitivo.
Per quanto riguarda il CNR, la nascita del ministero dell’Università e della ricerca, nel 1989, sottrasse formalmente autonomia al Consiglio, che infatti rappresentò un forte elemento di resistenza nei confronti della visione di Antonio Ruberti sul ruolo del ministero che fu il primo a governare. Nella sostanza il CNR è andato incontro a successivi processi di riorganizzazione, che prima (1999) ridussero di 2/3 gli istituti; quindi portarono a una riforma della governance che, con il d.l. 127/2003, introdusse i dipartimenti come strutture organizzative delle macroaree scientifiche intermedie tra gli organi di governo e la rete degli istituti. Nel 2009, con il d.l. nr. 213, l’ente fu dotato di autonomia statutaria.
Nel frattempo si avviavano anche in Italia le prime attività di valutazione della ricerca, promosse dalla Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI), che pubblicava i risultati nel 1996, usando come parametri il numero medio di libri e articoli pubblicati dai docenti, il numero di convegni su invito e il numero medio di docenti per dipartimento. Nella legge finanziaria del 1994 (dicembre 1993) si annunciò per la prima volta la valutazione universitaria e la costituzione di un nucleo di valutazione locale, ma solo nel 1996 fu istituito l’Osservatorio per la valutazione del sistema universitario. In modo un po’ confuso, nel 1999 l’Osservatorio fu trasformato in Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, mentre nel 1998 era nato anche il CIVR (Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca). Nel 2002 furono pubblicati i primi indici bibliometrici italiani (CRUI, La ricerca scientifica nelle università italiane, 2002) e nel 2007 la relazione del CIVR relativa al triennio 2001-2003 fu presentata al ministro. Dopo una crisi finanziaria della valutazione triennale della ricerca, fu messo in moto un processo per istituire un’agenzia nazionale, l’ANVUR (Agenzia Nazionale per la Valutazione della Università e della Ricerca), nominata nel 2011.
Negli ultimi vent’anni, in pratica dall’inizio della cosiddetta seconda Repubblica, è completamente mancata in Italia una strategia politica complessiva in merito al ruolo della scienza e della formazione tecnico-scientifica nel quadro dello sviluppo economico e sociale del Paese. Il regresso culturale della vita politica, consentito dall’arretramento dell’antropologia civile del Paese, ha avuto effetti devastanti anche sulla ricerca scientifica, dato che al succedersi dei governi cambiavano le strategie, in gran parte ispirate da convenienze più che da analisi empiriche delle sfide.
Mentre nell’Europa più sviluppata il sistema della ricerca si è riorganizzato anche in funzione del cambiamento della formazione accademica, che nei Paesi più competitivi si è differenziata attraverso processi di riorganizzazione dei parametri funzionali (composizione del personale, offerta didattica, proporzione di dottorati di ricerca, fonti di finanziamento) per adattare le singole istituzioni al contesto demografico ed economico locale, le università italiane, nonostante l’autonomia, non sono riuscite, per es., a ridurre la loro dipendenza dai finanziamenti governativi: questi erano vicini all’80% nel 2002, con solo 16 università sotto il 70%. In un contesto di crisi finanziaria e di deficit di bilancio, i governi tendono quasi naturalmente a tagliare le spese dove si concentrano i numeri più bassi di votanti, senza riflettere sul fatto che gli investimenti in istruzione, come dimostrano numerosi studi empirici, sono gli unici davvero utili per garantire qualche chance futura di crescita. L’Italia è il Paese dove i finanziamenti privati all’università sono i più bassi: 5% del totale contro il 12% della Spagna o addirittura il 25% della Gran Bretagna. L’incapacità e il disinteresse dei governi italiani verso la creazione di condizioni che incentivino investimenti privati e donazioni alle università appaiono notevoli.
Al dissesto in cui versa l’università italiana, e che comporta ovvie conseguenze per la politica della scienza, poiché in Italia la ricerca si conduce prevalentemente nelle università e i professori universitari controllano la pianificazione degli obiettivi e la destinazione dei finanziamenti, ha contribuito un declassamento del titolo di laurea per l’Italia. E la penultima riforma dei concorsi universitari, che ha introdotto l’idoneità, ha determinato ulteriori effetti perversi. L’inflazione dei professori ordinari ha sbilanciato la composizione del personale universitario, dove il rapporto tra staff accademico e amministrativo è passato dallo 0,90% nel 1996-97 all’1,15% nel 2002, cambiando la struttura delle carriere a causa di una procedura concorsuale che ha abbassato la qualità accademica e quasi raddoppiato le spese per unità di risultato scientifico tra il 1996 e il 2002. Le università meno produttive sono quelle in cui la quota di professori ordinari è cresciuta di più. Insomma, la mancanza di competizione e di pressioni selettive – insieme al corporativismo della classe docente e alla mancanza di governanti capaci e responsabili – non ha consentito alle università italiane di differenziarsi, modulando adeguatamente i parametri funzionali e le risorse, come è accaduto in tutti i Paesi con un’economia basata sulla conoscenza, in università orientate verso la ricerca e università volte all’insegnamento.
Se sul piano della cosiddetta governance la classe politica si è dimostrata negli ultimi due decenni incapace di guidare il sistema della ricerca verso un miglioramento armonico con gli standard internazionali, per quanto riguarda la manipolazione ideologica della ricerca si è posta invece all’avanguardia. Si è andati dall’interferenza nei metodi di valutazione dell’efficacia di un trattamento, come per il caso Di Bella alla fine degli anni Novanta, che ha introdotto l’intervento dei tribunali su fatti e prove il cui accertamento spetta a procedure sperimentali, alla promulgazione di legislazioni (come la l. 40/2004 sulla fecondazione assistita, o i decreti sugli organismi geneticamente modificati) che hanno vietato la ricerca in settori biotecnologici strategici sulla base di scelte confessionali o ideologiche.
Non va, infine, sottovalutato il fatto che le nomine alla guida degli enti di ricerca in Italia, ma anche l’individuazione dei leader di importanti finanziamenti per progetti strategici lanciati a livello ministeriale, sono state sempre di natura politica (fanno eccezione gli ultimi due presidenti del CNR, nominati sulla base di una selezione competitiva). Similmente, un problema di trasparenza si è posto nelle sedi decisionali, che si trattasse di decidere la ripartizione di finanziamenti per la ricerca, o di esaminare questioni tecnicamente o eticamente controverse. Molto spesso i risultati sono stati viziati da palesi conflitti di interesse, o si sono verificati pesanti condizionamenti confessionali o ideologici. E in sede di legge finanziaria non è mancato che ingenti finanziamenti siano stati assegnati a certi enti di ricerca, senza giustificazione o competizione.
In conclusione, si può dire che l’Italia ha vissuto una modernizzazione incompleta anche nello sviluppo del sistema della ricerca, segnato prima dalle ristrettezze, poi dai tentativi – meritori ma insufficienti – di programmazione, poi dalle turbolenze sociali, infine dalla nuova organizzazione della ricerca e dall’introduzione di un concetto anomalo di politica scientifica. Alcune discipline hanno saputo comunque raggiungere e conservare posizioni di eccellenza internazionali; in altre aree si è invece rimasti sempre in ritardo e sono apparsi i limiti di politiche della scienza che attendono sempre le emergenze per affrontare un problema, e non sono quasi mai in grado di investire adeguatamente sulla formazione superiore e sulla creazione di un sistema capace di valorizzare i talenti. L’incremento di investimenti in ricerca e sviluppo c’è stato, in particolare, negli anni Sessanta. Nei decenni successivi, però, è del tutto mancato lo scatto necessario per raggiungere i livelli delle nazioni più sviluppate. In assenza di incentivi di carriera legati alla valutazione della produttività scientifica e didattica, di una seria politica di ricambio del personale, di finanziamenti adeguati, di strategie di gestione di lungo periodo, già nella crisi seguita alla crescita disordinata degli anni Sessanta si intravedevano quelle difficoltà che ancora oggi impediscono alla ricerca scientifica in Italia di essere un motore culturale, sociale ed economico.
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