La politica con i sasanidi
Conflitti, diplomazia e nuove problematiche religiose
I primi tre decenni del IV secolo sono un periodo abbastanza tranquillo per quel che concerne il rapporto con l’impero persiano. Conclusasi, nel III secolo, la fase virulenta dell’avvento della dinastia sasanide, con Ardashir, e della politica espansionistica di Shabur I, con la sconfitta di Valeriano e la sua prigionia, e contrastato il regno di Wahram II e poi di Narseh, a cui venne imposto, con Diocleziano e Galerio, il trattato del 299, gli anni che preparano l’ascesa politica di Costantino non vedono l’emergenza persiana all’ordine del giorno e dell’agenda di governo. Rispetto alle campagne dei tetrarchi contro la Persia sasanide, e a quelle dei successori Costanzo II, Giuliano e Gioviano, il regno di Costantino presenta, infatti, soltanto un annuncio di preparativi bellici contro i sasanidi, che non hanno luogo a causa della sua morte. Ma la Persia è un convitato di pietra dell’età di Costantino e della sua educazione culturale, condotta su opere di strategia e di tattica che ne affinano le qualità e le attitudini nella conoscenza di un ‘altro’ onnipresente e potenzialmente ostile, un vicino ingombrante e temibile da imparare a scrutare e a prevenire nelle sue mosse.
Forse anche in grado di proiettare la sua ombra su alcune scelte difficili di Costantino, come quella relativa all’episodio di Crispo e Fausta. E inoltre, un vicino che è presente anche in una varietà di suggestioni, transiti e imprestiti culturali, che si riflettono negli addobbi da guerra, nello sfarzo decorativo e nell’arte trionfale che coniuga tipologie stilistiche romane con apporti esterni: in un processo di osmosi e imitazione creativa che non inficia i caratteri originali delle due potenze – uguali ma differenti –, anzi, le stimola nella ricerca di forme e modalità espressive nuove, e che promuove una reciproca accettazione e un mutuo riconoscimento. Tanto nella ostentazione bellica quanto nell’arte delle negoziazioni, che germoglia sul tronco di solide esperienze pregresse nelle relazioni internazionali (tregue, accordi) che Roma già intratteneva con i parti, prima, e con i sasanidi poi, e che Costantino rinnova e perfeziona nella sua poligrafa attività di promulgatore di leggi, editti e lettere, tra le quali vi è la missiva inviata al re dei re Shabur II: un documento del linguaggio protocollare di studiata abilità, anche se con qualche imperfezione, che coniuga autoreferenzialità di magnificenza e preoccupazioni verso le comunità cristiane, motivo principale di questa epistola secondo Eusebio. Perciò deve essere letta, nei pregi e nei difetti, come importante testimonianza di una fase intermedia, tra la tregua imposta ai persiani nel 299 e la disfatta della spedizione di Giuliano nel 363, in cui Roma si esercita nella sottile arte della retorica diplomatica, destinata a raggiungere i suoi frutti più maturi nei secoli successivi (V e, ancor più, VI secolo), in età giustinianea, sempre in parallela e contrastiva evoluzione con la potenza sasanide. Anche se non mancano le pianificazioni militari, come la spedizione che Costantino tenta di intraprendere contro la Persia o come quando designa il nipote Annibaliano rex regum, per arginare l’incombente minaccia sasanide, che successivamente alla sua morte avrebbe iniziato, dopo le recenti avvisaglie incursive, la lunga guerra condotta sotto i regni di Costanzo II e poi di Giuliano.
La morte non ne sbiadisce la memoria, persino all’interno dell’impero sasanide e in specie nella comunità dei cristiani, di cui voleva ergersi a tutore. La sua personalità e la sua azione politico-religiosa forniscono, difatti, un modello per plasmare l’immagine del monarca ideale a est del limes, che i padri della Chiesa di Persia useranno, pochi decenni dopo, per il re dei re Yazdgird I: auspicato protettore dei cristiani, al pari di Costantino, sovrano illuminato e tollerante, magnanimo, vittorioso e pio, che regna per grazia divina1.
La nascita di Costantino (272/273) coincide con la fine del regno trentennale di Shabur I (240-270/2) e con gli esordi dei brevi regni dei suoi due figli Hormizd I (270/2-273) e Wahram I (273-276), mentre gli anni della sua giovinezza e adolescenza lo vedono crescere in contemporanea al lungo regno di Wahram II (276-293) e in seguito, se si esclude il breve interludio di Wahram III, alla entrata in scena di Narseh (293-302). Questi diviene sovrano e re dei re dell’Iran e del non-Iran dopo avere sconfitto Wahram III in una contesa di lotte dinastiche, giocate sul filo della legittimazione e della lesa maestà, risolte nel consenso finale della nobiltà iranica e nell’approvazione di Roma, come declama la sua iscrizione, fatta erigere dopo la sua salita al trono (293): «E Cesare (kysly) e i romani erano in gratitudine, pace e amicizia con noi»2. Tutto ciò prima che Narseh invadesse l’Armenia per deporre il re Tiridate (296), provocando la reazione dei tetrarchi.
Wahram II e Narseh sono i sovrani che accompagnano il tempo della sua evoluzione di bambino, di ragazzo e di giovane uomo, che cresce e vive all’ombra delle istituzioni romane tardo-imperiali dei tetrarchi, dei suoi palazzi e della sua corte, dei suoi precettori e delle figure educative che, insieme alla formazione militare e politica, sono adibite a plasmarne le virtù e a temprarne il carattere, l’indole e l’intelletto. Negli anni che precedono la sua elezione non mancano occasioni e circostanze in cui può rendersi conto, personalmente, di quanto il nemico secolare di Roma sul fronte orientale si riveli per il suo prestigio e la sua ricchezza, oltre che per la capacità militare e la perizia nelle tecnologie belliche e negli armamenti.
Non minore interesse deve poi aver esercitato su Costantino la cultura di politica estera che, sensibilmente, i due imperi continuano a elaborare, in un lungo processo di apprendistato secolare3, nelle relazioni internazionali e nella pratica di negoziazioni: per affiancare al duro esercizio della guerra le ricomposizioni di dissidi, sul piano degli accordi e delle tregue, e scongiurare gli esiti funesti dei conflitti, le pesanti conseguenze economiche e sociali, negli spazi neutrali della diplomazia. E nel suo migliore compimento di scienza di governo, di burocrazia, diritto e arte del discorso: il trattato.
Una volta esauritasi, nel III secolo, la spinta aggressiva di conquista di Ardashir e di Shabur I, personalità esordienti della neonata dinastia che necessita di affermarsi imperiosamente sullo scacchiere mediorientale, per legittimarsi sul fronte interno, mediante il prestigio di una ideologia carismatica della vittoria, tipica dei più ancestrali caratteri dell’iranismo, e una volta attenuatosi l’impeto che porta Narseh a scontrarsi con Galerio e Diocleziano – con una prima vittoria del sasanide e una successiva rivincita di Galerio – per poi accettare il trattato che gli è imposto, si può dire che entrambi gli imperi siano in una condizione di stallo. La Persia può ritirarsi nei limiti dei confini stabiliti dal trattato e Roma, dal canto suo, può tornare al riordino dei propri assetti interni, che sono stati duramente provati dalle vicende del III secolo e che necessitano di una riorganizzazione tetrarchica e di un nuovo stile di governo, basato su nuove forme di legittimazione carismatica e nuovi codici segnici, linguaggi, simboli ed emblemi, da infondere nelle gerarchie e negli apparati, nei cerimoniali pubblici e di corte, nelle scenografie del potere e nella sua monumentale arte celebrativa4. E soprattutto nell’esaltazione della figura del princeps clausus inaccessibile, circonfuso da un’aura mistica e solare di invincibilità divina. In tale esigenza di inventiva, la dialettica tra Roma e Persia è un potente catalizzatore di stimoli reciproci.
Lo spazio quotidiano del giovane Costantino è, quindi, pervaso da continui riferimenti alla realtà politico-statuale della Persia, nei toni dell’attenzione dovuta a un vicino ingombrante e potenzialmente invadente, comunque presente da tempo nei discorsi, nelle preoccupazioni e negli inevitabili scambi culturali che, dall’una e dall’altra parte del limes, si verificano ormai da tempo, nelle arti suntuarie e decorative, nelle tecniche militari e negli armamenti: in particolare, per questo ultimo punto, all’indomani della rovinosa sconfitta romana a Carre (53 a.C.) e dell’effetto di acculturazione bellica che produce negli sconfitti reazioni che modificano le strutture organizzative dell’esercito5, creando le premesse di future immissioni di elementi iranici (o di altre culture delle steppe, come le altaiche) al fine di affiancare alla ‘germanizzazione’ delle truppe una presenza di stirpi, costumi, tecniche e mentalità che formeranno i contingenti orientali (iranici, caucasici, armeni, arabi) dalla fine del IV secolo in poi6. La propaganda è invece più capziosa, e nella pubblicistica (testuale, iconografica e monumentale) ammannisce l’illusione del barbaro persiano, vinto e sottomesso – in una fortunata millanteria iconica che va dalla statuaria augustea al dittico Barberini –, per fare da contraltare ideologico al dilagare dello sfarzo e del gusto orientale (profumi, vesti) favorito dagli stessi imperatori come Caracalla, che si compiacciono di abbinarli ai prodotti delle industrie romane7.
Stanti queste premesse, è facile disegnare il clima e l’ambiente di crescita propri del giovane Costantino. Dall’età dei suoi vent’anni, il servizio sotto Diocleziano e Galerio; dal 293 in poi, e fino al 305, a Nicomedia con Diocleziano, che lo inserisce con maggior coinvolgimento negli aspetti della gestione imperiale degli affari politici, strategici, diplomatici e militari, a cui Roma attende nella sua incessante opera di controllo degli ampi spazi delle frontiere danubiane e germaniche, insieme con quelle mesopotamiche e armene che delimitano la linea di contrasto con la Persia. Troppo giovane, financo bambino, al tempo degli scontri tra Wahram II e l’imperatore Caro (282-283), è invece testimone del periodo dei contrasti con Narseh (293-302), nell’alterna vicenda della sconfitta di Galerio e poi della sua rivincita finale contro il re persiano, di certo spronato dalla umiliazione che Diocleziano gli impone, facendolo correre vestito della porpora di fianco al suo cocchio trionfale, per punirlo dell’incapacità mostrata nel condurre la prima spedizione inavvedutamente. L’effetto di rivalsa e di vendetta per questa pubblica derisione è comunque positivo, visti i risultati ottenuti e il trionfo di Galerio così magnificamente raffigurato nel suo arco di Tessalonica.
Quello dell’arte pubblica, in relazione alla Persia, è un ulteriore aspetto che bisogna tenere presente, per comprendere l’evoluzione di Costantino e i molteplici influssi e stimoli che ne accompagnano il progressivo sviluppo educativo e comportamentale, nel solco dei diversi linguaggi – verbali, visivi, iconografici, architettonici, urbanistici e artistici – della società dell’epoca tetrarchica, in cui germina la sua formazione e che porta a compimento, nello slancio innovativo e rivoluzionario che segna la sua carriera e le sue radicali scelte e trasformazioni delle molteplici eredità di cui è testimone appassionato, non meno che audace interprete, specialmente nella promozione della sua immagine pubblica. Questi fattori convergono nell’abbozzo continuo della sua effigie, vertice che riassume le pluralità di linguaggi e codici sopramenzionati, declinati secondo le modalità scenografiche e di cerimonialità che in questo scorcio dell’antichità tardoantica, e nei periodi successivi, giungono a una fortunata composizione di apporti colti e di partecipazione collettiva, in una ritualità dell’omaggio imperiale che armonizza l’ekphrasis dei panegirici con la sua trascrizione nelle coreografie pubbliche di momenti trionfali come l’adventus8. La presenza dei sasanidi – nei discorsi, nelle reminiscenze letterarie di antica tradizione, che rievocava gli scontri delle guerre greco-persiane, nei suoi prodotti e nei suoi molteplici richiami visivi di statue, dipinti e iconografie – forma una trama diffusa di riferimenti e di segni, variamente colorata nei toni e nei contrasti di attrazione e repulsione, fascino e diffidenza, che da secoli la Persia suscita nei suoi vicini e rivali nelle competizioni per il dominio geopolitico. Anche in ciò Costantino non si differenzia dai suoi contemporanei e precursori: che senza ambiguità e contraddizione possono assumere tratti del ricco e fastoso decoro orientale, senza per questo dimenticare gli imperativi di vigilanza e di cautela verso quell’Oriente da cui provengono insidie di secolari avversari, astuti e infidi, secondo gli stereotipi della pubblicistica, ma anche merci ricche e preziose, che possono facilmente innescare meccanismi di imitazione, mode e atteggiamenti.
L’accusa di ‘medismo’, sintomo di atteggiamenti filopersiani, per l’ambito greco classico, è da tempo ridimensionata, nei suoi accenti di collaborazionismo e tradimento identitario, e ricondotta alla sua innocua dinamica di adozione estetica di vesti e di oggetti9. E la stessa cosa deve applicarsi all’epoca romana e tardoromana, in cui tali apporti sono massicci e al cui interno bisogna distinguere con attenzione la natura di questi influssi e contaminazioni, da valutarsi come elementi estranei che possono ingenerare dinamiche di acculturazione cosciente, su una base già preesistente e di lunga durata costituita da un vasto repertorio culturale di tradizione ellenistico-romana che può essere esplicitato e modellato sulla base di consonanze e similitudini reinterpretate e adattate ai propri idiomi. Si spiegano così le molte simmetrie nel decoro e nella simbologia di emblemi solari e celesti che hanno ampia diffusione e analoga ispirazione sia a Roma sia nella Persia, in quanto segni di maestà e di eccellenza uranica che alludono a una divina discendenza.
Stessa cosa dicasi per l’arte, non solo nei manufatti dell’artigianato suntuario, ma anche in quelle forme monumentali dell’arte dinastica e imperiale e delle sue iconografie trionfali. Come quelle dei rilievi sasanidi e della loro disposizione di testi figurativi e di testi epigrafici, specialmente quello di Shabur I alla Ka‛ba-i Zardusht, nella Perside. Non è un caso che tale monumento della vittoria sasanide su Roma debba ritenersi normativo e ispirativo anche per i vinti, nella sua maestosa apparenza di celebrazione e di monito, ostentato con impatto visivo e linguistico, grazie anche alla versione greca di tali res gestae del re dei re Shabur I, che affianca alle epigrafie autoctone in medio-persiano e in partico un messaggio espresso nella koinè della lingua ecumenica dell’Oriente ellenistico. La vittoria del sovrano persiano è dunque propalata iconograficamente e verbalmente, anche nell’idioma internazionale del tempo, seppure in modalità non del tutto corrette ma di sicuro effetto propagandistico; come di certo lo è una parola del lessico istituzionale romano quale ‘senatore’, che, ricalcata in iranico (partico santur), accresce il prestigio del vincitore con il censo di un funzionario di alto rango divenuto prigioniero e ostaggio.
È quindi da accogliere come suggestione propositiva, e stimolo di ricerche e verifiche, il giudizio espresso di recente10 sui possibili echi di questa iscrizione nella lettera di Costantino a Shabur II, in base a una simmetrica proclamazione di ispirazioni divine e di celeste sostegno, che rivelerebbe un’ulteriore analogia di idiomi e di metafore tra i due contendenti. E su ciò si ritornerà, dopo aver affrontato le ripercussioni stilistiche e artistiche che questo monumento dovette riverberare nell’Occidente romano, per trafile e percorsi di diffusioni che, attraverso le province orientali e il Mediterraneo, veicolano, da una parte all’altra, maestranze, stili, forme e materiali. A cui si deve aggiungere la testimonianza di mercanti11, viaggiatori e soldati che, nei flussi reciproci, dei rifugiati e dei transfughi di prigionie e deportazioni, possono trasmettere parole e discorsi (e presumibilmente brani e stralci) di questo importante documento esposto alla vista e alla lettura.
I riverberi di questa arte propagandistica si possono cogliere anche nell’arco di Galerio12 a Tessalonica. La sua imponente struttura e il racconto iconografico che si dispiega, incastonato nei suoi blocchi, guidano l’osservatore che si inoltra sotto le sue arcate e può volgere lo sguardo tutt’intorno, per leggervi le sequenze figurative della vittoria di Galerio sui persiani, e dell’istituto tetrarchico nel suo complesso, in una varietà di istantanee che fissano le scene più significative ed emblematiche: la cattura dell’harem di Narseh, l’inseguimento dei persiani oltre il fiume Tigri, le personificazioni delle città sasanidi, il ricevimento di una delegazione persiana; il corteo dei donatori persiani; il combattimento equestre tra Galerio e Narseh. La presenza di un animale esotico come l’elefante rende poi la scena ulteriormente gloriosa e carica di significati di vittoria e di valore, dato che questa scelta iconografica si posiziona nell’ambito di quella simbologia di trionfo, di solidità e di longevità: qualità attribuite a questi animali e perciò doni graditi e consueti del re di Persia, anche se qui raffigurati come bottino, che trovano ampia rappresentazione nelle iconografie delle processioni, come si può vedere, nel tardo IV secolo, nella pregevole fattura del dittico eburneo dei Simmachi13.
Si tratta quindi di un panegirico iconografico di soggetti, personificazioni divine e mitologiche, simboli di vittoria e fortuna, parate trionfali che celebrano l’invincibilità di Galerio e la gloria imperiale della tetrarchia nelle figure degli Augusti, Diocleziano e Massimiano, e dei Cesari, Galerio e Costanzo Cloro, padre di Costantino, allora nei suoi vent’anni. E presumibilmente consapevole e orgoglioso di tale grandiosità di onori che rifulgono su di lui dalla sua famiglia, a cui è fortemente legato e di cui deve sentire la responsabilità di emularne le gesta e la comprovata rinomanza, esemplata nel trionfo di questo arco, che non racconta soltanto una storia, quella della guerra vinta contro la Persia, ma svela il significato essenziale della storia di Roma dominata dai tetrarchi, le loro virtù, il successo della loro missione e l’invincibilità dell’imperatore semper et ubique victor. Anche questo sottofondo di narrazioni esplicite e di una panoplia di qualità morali, quali clementia, concordia, virtus e pietas, esercitano certo una forza magnetica, non solo sull’osservatore anonimo ma ancor più sul figlio di uno dei protagonisti del riquadro. Costantino perciò trasfonde nel suo arco14 – inaugurato nel 315 – un analogo programma figurativo di celebrazione pubblica delle proprie vittorie, in un’aura simbolica e mitologica di personificazioni numinose e di soggetti, presenze e icone che riassumono l’ideologia imperiale e la volontà di comunicarne i messaggi agli astanti. E plausibilmente il trionfo sulla Persia deve aver suscitato analoghi desideri di gloria contro il secolare avversario.
Nella sua composita fattura di reimpiego di materiali, stili, apporti e tendenze figurative di ogni parte dell’Impero, l’arco di Costantino ricalca e riassume la grandiosità massiccia delle opere del periodo tetrarchico, che si ergono in contrapposizione osmotica e monumentale di fronte alla grandezza persiana: che da Diocleziano in poi è sempre più attenzionata e sulla quale si modellano e riposizionano costantemente i termini del confronto, non solo sul fronte bellico, ma in quello più sottile delle relazioni internazionali e della diplomazia. In ciò Costantino appare nel suo ruolo significativo di personalità che testimonia scenari e strategie che in parte continuano modalità già esperite del rapporto tra Roma e la Persia, e in parte ne rinnova le forme e le procedure.
La Persia domina, quindi, la percezione del mondo intorno a Costantino, nelle esigenze di governo e della difesa di confini orientali dell’Impero, nella ricezione di stimoli e motivi che percorrono le due frontiere in uno scambio di gusti, forme e ispirazioni artistiche che convivono a margine della consapevolezza politica dei reciproci antagonisti. Il linguaggio monetario della propaganda sasanide15 non è parimenti immune da adozioni di motivi di schietta derivazione romana, che confermano la permanenza di influssi ellenistici, in una categoria di oggetti quanto mai esclusiva e di forte connotazione di iranismo regale e di legittimazione, come quella della numismatica. Tipologie iconografiche ellenistico-romane ornano il repertorio della sigillografia persiana del III e IV secolo, con ibridazioni che affiancano a un busto di Tiberio iscrizioni medio-persiane esemplate su un lessico religioso tipicamente zoroastriano16. E sulla scorta di Ammiano, il principe Hormizd, fratello di Shabur II e transfuga persiano, alla corte di Licinio prima, e poi di Costantino e di Costanzo, mostra delle conoscenze architettoniche17 che gli permettono di paragonare la monumentalità di Roma all’edilizia della capitale sasanide di Ctesifonte, ulteriore indizio di una reciprocità di informazioni e di scambi di maestranze, che nelle alterne vicende conflittuali dei due Stati lasciano comunque traccia di imponenti realizzazioni, nelle arti, nell’urbanistica e nell’abbigliamento.
La stessa adozione dell’elmo diademato18 (kamelaykion), di chiara derivazione persiana, riscontrabile in emissioni monetarie del 313, del 315, del 321 (diviene poi raro, per comparire nella monetazione di Costanzo II e di Giuliano), è ascritta al rivoluzionario Costantino e alla sua particolare originalità nel reinterpretare un’insegna iranica del decoro bellico. Un tradizionale attributo della sovranità partica e sasanide è qui declinato secondo le nuove istanze politico-religiose costantiniane, con propri demarcatori segnici e simbolici, in particolare il cristogramma, che suggellano una sorta di innovazione epocale, nel promuovere una tipologia iconografica modellata su emblemi di un’alterità imperiale, assimilata e aggiornata in senso cristiano; e in quella utilizzazione pubblica che con Costantino si amplifica, come ulteriore sviluppo e compimento di valori e tendenze tetrarchiche di scenografia del potere e di cerimonialità.
Il rapporto con la Persia si esplica, dunque, in dinamiche sovrapposte di disinvolte assimilazioni e rimodulazioni, e in quello più cruciale delle modalità di approccio e dialogo che un simile confronto impone, coinvolgendo un insieme di professionalità e istituzioni nel mestiere della guerra, come pure in quello della deterrenza a scopo dissuasivo e persuasivo, esercitato nella duttilità di prassi e consuetudini affinate nell’arte del discorso e della diplomazia, adibite a scongiurare, nella infiorita oratoria delle ambascerie, lo spettro del conflitto e del suo carico di perdite umane e di risorse. La lettera a Shabur si situa in un arco cronologico teso fra i due estremi della tregua imposta da Diocleziano e Galerio a Narseh (298/299) e la resa ignominiosa (363) seguita alla disfatta romana nella spedizione di Giuliano contro Shabur II. Tra i due opposti esiti, il tono della lettera di Costantino si rivela un documento di raffinata trattativa, costruito su un uso accorto di elogio, di blandizie e di dissuasione sottile, di propaganda autocelebrativa non priva di un certo rischio di incrinatura, nel dosaggio non sempre riuscito di parole ed espressioni che possono non valutare esattamente la psicologia del destinatario e le sue reazioni alle intenzioni e alle proposte di Costantino. La lettera è composta in un lasso di tempo compreso tra il 324 e il 337, all’interno di un periodo che segna una progressiva reattività di Costantino di fronte all’avversario, manifestata in un’accorta attenzione ispirata alla ragion di Stato e alla risoluzione di programmi e iniziative che si confrontino con la Persia, sul confine morale di atteggiamenti e di scelte, questa volta tutt’altro che imitative, tese anzi a demarcare opposizioni irriducibili e inconciliabili tra le due parti in causa.
Non è certo un caso che in tale arco di tempo di tredici anni si verifichino alcuni episodi che alludono e rimandano a un movente persiano o a un pretesto e una influenza che divengono sospetto e istigazione, da usare come una lente per scrutare in filigrana taluni accadimenti, che sottolineano una inconciliabilità di culture e di usi. E la necessità di sanzionarne lo statuto di alterità nelle disposizioni giuridiche imperiali, come nel caso della vicenda del figlio di Costantino, Crispo, condannato a morte nel 326 per sospetto di una relazione adulterina con la moglie Fausta. L’episodio, che è motivo di rimorsi e di tormentate ansie di purificazioni e di redenzioni per Costantino, può rivelare delle modalità di tensioni e di pressioni che spingeranno l’imperatore a condannare Crispo e Fausta non solo e non tanto per l’adulterio, quanto per le sue aggravanti implicazioni di incesto, che inaspriscono la già severa legi;slazione romana sul matrimonio con un supplemento di riprovazione e di scandalo: quello che la società romana, sia pagana sia cristiana, prova verso le esecrabili usanze persiane del matrimonio consaguineo, duramente proscritto in epoca tetrarchica (295) e ancor più nel IV secolo, con rinnovate epurazioni e sanzioni19. Per i cristiani si tratta poi di un argomento centrale, nella polemica degli apologeti e nelle reprimende di denuncia contro usanze pagane di dissolutezza, a cui contrapporre la propria austerità e la propria castità.
È quindi probabile che la reazione di Costantino dinanzi a un’accusa che configura l’incesto come reato ascrivibile a empie costumanze persiane, avvenuto all’interno della sua famiglia, in una situazione di equilibrio sempre incerto nella gestione del consenso tra il fronte cristiano e quello pagano della società del tempo, vada vista come un gesto estremo ed esemplare per fugare ogni sospetto dalle molteplici conseguenze: non solo quello di un generico paganesimo atavico ma, ancor più, quello maggiormente deprecabile di indulgere in usanze persiane, oltre che pagane. Ciò spiega le circostanze sottese al panegirico che Giuliano dedica a Costanzo nel 356 e l’elogio ipocrita di Fausta, sorella, madre, moglie e figlia di imperatori, a differenza di Parisatide, che si macchia d’incesto sposando Dario II, il fratello: una excusatio non petita contro accuse che circolano al tempo di Costantino e sono ancora diffuse in mormorazioni che continuano sotto Costanzo. La prima orazione di Giuliano a Costanzo (I.9b-c, 7, 15) dimostra l’efficacia retorica dell’uso di exempla, costruiti in un’argomentazione che annoda eventi trascorsi a eventi attuali, in una contrapposizione che in questo caso denuncia la promiscuità di Parisatide di contro alla castità di Fausta. E, per confutare le accuse d’incesto a lei rivolte, attinge a riferimenti letterari propri della Persia achemenide, noti nella cultura romana, e qui messi assieme in difesa di Fausta, contro le dicerie che Giuliano mette in evidenza allo scopo di respingerle20, anche se, probabilmente, con una sottile vena di allusiva malignità dissimulata, per la sua ostilità verso Costantino.
Nella congettura di tali scenari, e di motivazioni esplicite o ambigue, si colgono un ambiente e un clima in cui la Persia è percepita nella sua più atavica valenza di minaccia e di pericolo, quindi tale da suggerire reazioni che, anche se perfettamente comprensibili nel quadro delle istituzioni romane, appaiono in qualche misura determinate dalla sua sovrastante e invadente presenza, in grado anche di condizionare, inconsapevolmente, pronunciamenti e decisioni della corte e di Costantino stesso, che deve marcare una sua estraneità nei riguardi di accuse e sospetti compromettenti per la stabilità dell’organizzazione imperiale e della sua persona. In base ai doveri del suo ufficio, e della sua condizione di Augusto, è ovvio che l’impero persiano sia al centro della sovrintendenza imperiale verso le regioni mediorientali, in una varietà di approcci e di pianificazioni strategiche di interventi possibili e di soluzioni che assolvano a un medesimo scopo di controllo e prevenzione, per cogliere ogni valenza favorevole e sfruttarla di conseguenza, su un ampio scacchiere geopolitico, che dal Mediterraneo al Vicino Oriente si inoltra verso l’Armenia e il Caucaso, la Mesopotamia e i territori degli arabi.
Lo studio, oltre che l’esperienza sul campo, forma l’insieme delle attitudini volitive e intellettuali, necessarie a un saggio e avveduto intervento che ottimizzi risorse umane e logistiche, in un programmato calcolo di probabilità e in una ‘sorpresa strategica’21 che sia il risultato di una lunga e paziente opera di indagine, di ricognizioni e di confronti con la trattatistica posseduta negli archivi. In questa sorpresa strategica di Costantino (ereditata poi da Giuliano) deve cogliersi l’influsso di un insieme di scritti, di cui si fa menzione nell’opera di Giovanni Lido, attivo nella prefettura del pretorio di Costantinopoli nel VI secolo, e che oltre al De bello Parthico di Cornelio Celso menziona un corpus di testi (progetti, memorie, lettere, consigli, disposizioni testamentarie) riconducibili a Costantino – da lui commissionati o scritti a suo nome – in forma di trattati, che di certo influiscono sulla formazione culturale di Giuliano e sulle sue vaste letture. Giuliano si avvale poi di persone e ambienti che sono testimoni di una pianificazione strategica che Costantino sviluppa probabilmente verso la fine del suo regno, nella preparazione di una spedizione di guerra che rimane incompiuta e che è forse in parte nota agli stessi avversari persiani, non certo inferiori a Roma nella rete di informazioni e di spionaggio. Nonostante l’ostilità di Giuliano a Costantino, e a causa del biasimo della pubblicistica romana, conseguente alla disfatta del 363, che con Libanio22 imputa a lui uno stato di belligeranza decennale contro la Persia, sfociata in una tregua umiliante – una sconfitta resa più dilacerante, se guardata con la lente del disastro di Adrianopoli23 del 378 –, la tattica combinata di sorpresa, velocità e segretezza propiziata da Giuliano rientra pienamente nella strategia del suo predecessore.
Oltre a questa velocità di sorpresa, anche la tattica di una ‘difesa aggressiva’ caratterizza l’azione di Costantino, in base al principio di rispondere a un attacco nemico con un più duro contrattacco e porre così le basi per un insediamento – a differenza di Diocleziano, che è più attento a ristabilire le difese dei territori –, e per far ciò l’imperatore si serve di un esercito da campo mobile (il comitatus) che assolve a funzioni di intelligence e di polizia, molto efficace, aggressivo e di forza espansiva, dal punto di vista sia militare sia politico24. Questo schema di forze sarebbe stato da lui utilizzato nei confronti dei persiani così come sull’altro fronte nevralgico dell’Impero, se la sua spedizione contro il re dei re fosse avvenuta. I conflitti sono del resto scongiurati da qualche decennio: nel periodo successivo al trattato del 299 non vi sono movimenti significativi di eserciti, a parte taluni atteggiamenti ostili che non deflagrano tuttavia in guerre, semmai in aggiustamenti delle frontiere sotto Massimiano, nel 310, e in un consolidamento della presenza romana in Armenia. Ma la situazione è destinata a cambiare per le mai sopite inclinazioni belliche dei persiani.
La data del 324, oltre a segnare l’ascesa di Costantino come unico imperatore, dopo la guerra con Licinio, inaugura una progressiva influenza del sovrano adolescente (di 15/16 anni) Shabur II negli affari di governo e in quell’ampia frontiera armeno-caucasica, mesopotamica e arabica, in cui ridefinire e rinegoziare i limiti imposti da Roma col trattato del 299. Il dovere fondamentale del re dei re persiano è quello di condurre guerra, in base a una ideologia espansionistica della conquista e a una mistica della vittoria che pervade tutta la storia dell’iranismo, dagli achemenidi ai sasanidi. Anche in ciò la Persia condivide inclinazioni e mentalità con la potenza romana, e con analoghi idiomi e simboli di invincibilità e vittoria rintracciabili nel lungo percorso dell’ellenismo, che da Alessandro porta a Costantino25.
E in ciò Shabur II, nipote del più aggressivo Shabur che aveva sconfitto e imprigionato Valeriano, è all’altezza del suo nome nel suo lungo regno (309-379) che lo vede anteporsi a Roma, fino al successo contro Giuliano e alla pace ignominiosa conclusa con Gioviano nel 363. L’ascesa del giovane Shabur II è concomitante alla fuga di Hormizd, un suo fratello o forse un esponente delle casate nobiliari sasanidi imparentate26 con Shabur, i cui membri possono divenire dei pretendenti al trono in una competizione dinastica che rischia di coinvolgere Roma: fuggito oltre confine verso l’anno 324 per trovare rifugio e sostegno alla corte di Licinio prima, e poi di Costantino, la sua presenza di transfuga non sembra tuttavia compromettere i rapporti di Roma con la Persia, e l’equilibrio delicato fra le due superpotenze non ne esce sostanzialmente incrinato, anche se il sospetto di un favore romano verso il principe può servire ad alimentare tensioni e attenzioni preventive, verso quelle regioni di margine fra i due imperi, come il Caucaso e l’Armenia, specialmente in concomitanza con i progressivi successi del cristianesimo in queste zone.
La fase iniziale dell’azione di guerra di Shabur II è condotta contro gli arabi che invadono l’Iraq: il sovrano reagisce procedendo con una flotta lungo la costa orientale del Golfo Persico e in seguito fortificando con un muro le aree occidentali dell’Iraq, per contenere le incursioni beduine, traendo spunto dall’edilizia di difesa romana, costruita sul limite del deserto siriano27. È a questa emergenza araba, occorsa nella prima fase del regno di Shabur II, che va verosimilmente collegata la richiesta di ferro (per gli armamenti) ai romani, di cui si fa menzione nella orazione 59 di Libanio28 a Costanzo, del 344/345, opera che presenta una versione dei fatti che spiega il cambio di politica dei sasanidi verso Roma nell’anno 336, quando un’ambasciata persiana giunge alla corte di Costantino, come conferma anche Eusebio29, per il trentennale del suo regno. Nello stile del panegirico, si intrecciano finzione e dati reali, con una punta di biasimo da parte dei figli di Costantino, per sostenere la politica estera e militare di Costanzo, dimostrando che questi non è responsabile delle ostilità, iniziate, al contrario, sotto il regno del padre. L’esportazione del ferro verso la Persia è legalmente proibita, in particolare per esigenze dichiaratamente belliche come questo testo presuppone, inscenando un’astuzia fallita contro Roma, per dotare i persiani di armamenti che avrebbero rivolto non contro le popolazioni confinanti dei beduini ma verso i donatori.
Costantino è da poco diventato l’unico imperatore30 e, a causa del conflitto con Licinio sulla frontiera danubiana, non è in condizioni di condurre un attacco contro la Persia. Deve, quindi, accogliere con favore un’ambasceria persiana che nel 325 perviene a omaggiarlo, ristabilendo buone condizioni di armonia e una formale accettazione persiana degli accordi del 299. Ciò dovrebbe ulteriormente scongiurare ogni appoggio romano al fuoriuscito Hormizd e una momentanea situazione di tregua, anche se inevitabilmente Shabur II sarebbe tornato sulla questione degli accordi del 299, con le sue pretese di rivendicazione territoriale su base dinastica e ancestrale, di cui si può avere una traccia nella lettera indirizzata a Costanzo31.
La politica occidentale32 di Shabur è quindi chiara e prevedibile, fin dagli esordi del suo regno, e si articola intorno all’imperativo fondamentale di restaurare i confini geografici sfavorevoli alla Persia dopo la tregua del 299: una volontà di dominio preparata nei decenni che vanno dalla sua intronizzazione (309/310) fino alla metà degli anni Trenta del IV secolo. La questione dell’Armenia, zona soggetta a una duplice e contesa ingerenza, sia romana sia persiana, con la morte di Tiridate nel 330, provoca delle turbolenze nei principati armeni a est del Tigri, ceduti a Roma nel 299 ma di forti tradizioni iraniche, come dimostrano sommovimenti destinati a peggiorare, a causa di incursioni sasanidi in Mesopotamia. Costantino reagisce inviando il figlio Costanzo nelle province orientali e nominando poi re di Armenia il nipote Annibaliano anziché il legittimo erede al trono Arshak III, rifugiatosi sotto la protezione di Roma.
La nomina di Annibaliano33 a rex è stata interpretata come un tentativo di sostituire il nipote al re dei re sasanide: una supposizione errata, basata sul titolo di rex regum menzionato negli Excerpta Valesiana, che riportano un’informazione fuorviante, smentita dalla numismatica e da Ammiano34, che registra solo rex. Si tratta, in realtà, di un disegno politico meno temerario e inverosimile: è una posizione elevata e di prestigio, che conferisce il comando su una zona strategica che rientra sotto il dominio di Roma, e non in quello sasanide, come nel caso dell’Armenia (335), e che inoltre proietta il suo dominio sui regni clientelari del Ponto (Iberia e Lazica). Questo duplice comando, sull’Armenia e sulle genti del Ponto, è concesso nel 335 e nel 337, come risposta di Costantino all’attacco sasanide in Mesopotamia, che riflette, inoltre, un mutamento nell’ordinamento politico dell’Impero, che Costantino si accinge a dividere tra i suoi tre figli e i due nipoti. Una volta messa sotto controllo la zona danubiana, Costantino può concentrarsi su un’altra ‘frontiera morale’, che richiede accorta preparazione di mezzi, risorse, strategie, forze e cultura politica, per rispondere agli attacchi persiani in Armenia e in Mesopotamia. Questa volta le ambascerie non possono più scongiurare il conflitto: e quando la delegazione persiana giunge a Costantinopoli, nell’inverno del 336-337, per richiedere concessioni territoriali e il cambiamento della gestione in Armenia, il diniego di Costantino ratifica una situazione di guerra già preannunciata da avvisaglie di incursioni, che d’ora in poi si sviluppano nei conflitti che coinvolgono i due fronti sino al 363.
Le modalità d’intervento decisionale di un imperatore si sostanziano in pronunciamenti, verdetti, iscrizioni, lettere, editti e dispacci trasmessi lungo una catena di passaggi informativi, con tempi lunghi di risposta, in relazione alle distanze. L’episodio della lettera a Shabur si inserisce dunque in una pratica consolidata, inscrivibile nella sua cultura di appartenenza, greco-romana; ma col valore aggiunto di un mutamento, il cristianesimo, che determina alcune sue scelte, anche espressive, sulla base di nuovi fattori, interessi e obbiettivi35. La lettera è quindi, in parte, il segno di un cambiamento che riflette l’evoluzione e le diverse priorità confessionali che si aggiungono ai valori fondanti del suo ufficio. L’adozione progressiva del cristianesimo, la sua diffusione, insieme con il trasferimento della capitale da Roma a Costantinopoli, non hanno ripercussioni immediate sull’atteggiamento dei persiani, anche se certo non sfuggono alla loro attenzione. Precedenti avvisaglie di repressioni religiose si erano già verificate al tempo di Wahram II, come ci testimonia il corpus delle iscrizioni del mago dei magi, il gran sacerdote Kirdir, che si vanta di perseguitare le altre confessioni diffuse nei territori dell’impero persiano, come ebrei, buddhisti, induisti, nazareni e cristiani, battisti e manichei. La categoria religiosa di ‘cristiano’ è, dunque, nota da tempo e registrata nel medio-persiano epigrafico delle iscrizioni (kristiyān), con l’aggiunta di una distinzione tra i ‘nazareni’, i cristiani dell’impero persiano, e i ‘cristiani’ che vivevano in Siria, ad Antiochia36. Un tale epiteto, che designa l’appartenenza confessionale, è, quindi, diffuso nella cultura persiana al tempo dell’invio della lettera di Costantino, in cui si menziona con sollecito intento protettivo l’insieme di coloro che s’intende rappresentare e tutelare, esortando il re dei re sasanide a farsi garante della loro incolumità. Si è molto discusso dell’autenticità di questo testo, oltre che del destinatario che, secondo una interpretazione, potrebbe essere addirittura il sovrano cristiano dell’Armenia: l’impiego del termine ‘fratello’ usato da Costantino sarebbe un indizio di fraternità confessionale37; ma in realtà l’uso confidenziale di tale lessico familiare è tipico del linguaggio protocollare delle cancellerie romane e persiane, e allude a quella dimensione di mutuo riconoscimento che caratterizza, da Costantino in poi, le relazioni tra i due imperi sulla base della nozione di ‘famiglia dei principi’, che presuppone una vicendevole accettazione di legittimità e parità di rango e istituzioni38.
Da ciò deriva il valore di questa missiva a Shabur II che inaugura e promuove, o ufficializza, una terminologia che sarà usata da Shabur II nella sua lettera a Costanzo II, e da quest’ultimo in risposta a Shabur39: venendosi così a configurare una retorica epistolografica, che si trasmetterà fino al VI secolo e alle lettere tra Giustiniano e Xusraw I, in occasione delle negoziazioni per la tregua della Lazica40 – benché questa lettera sia priva di quei formulari stereotipati che si troveranno in seguito. Da ciò dipende il suo valore di esperimento, di stile in formazione, consono al tono dell’epoca costantiniana e al manifestarsi di nuovi scenari in divenire e di transizioni complesse e difficili. Lo stile varia tra un registro deliberatamente aforistico, con toni allusivi e indiretti41 e altri più dichiarativi, quando Costantino afferma che l’alleanza con Dio gli ha concesso di provvedere con successo alla pace per coloro che si affidano a lui. L’imperatore è custode della fede divina, partecipe della vera luce, si attiene al suo culto ed è grazie al sostegno della potenza di Dio che ha mosso dai confini dell’Oceano per destare salde speranze di salvezza nell’ecumene. In parte riecheggia il formulario di quella iscrizione sasanide (di Shabur I) in cui il sovrano afferma di essere della stessa specie degli dei e di aver compiuto le sue opere in virtù del loro sostegno. E anche la menzione di splendide vittorie concorda con un’analoga funzione garantita dalle divinità del mazdeismo. La parte che concerne la riprovazione del sangue disgustoso e del fetore nauseante dei sacrifici pagani42 è stata messa in relazione43 con un’analoga concezione persiana del sacrificio, che sarebbe comune al cristianesimo e allo zoroastrismo: una supposizione che però non è confermata dalle prescrizioni rituali che le iscrizioni regali sasanidi testimoniano; al contrario, esse di;spongono che un certo quantitativo di animali e di altre offerte sia dedicato ai membri della famiglia reale per la loro anima.
Le parti della lettera in cui Costantino stigmatizza le colpe di colui che i fulmini dell’ira divina abbandonano nelle terre persiane è una rievocazione della sconfitta che Valeriano subisce per mano di Shabur I: sembra costruita su un tentativo di blandizie nei confronti del re e dei suoi avi, peraltro giocato sul limite di un biasimo eccessivo e autolesionistico di un imperatore che riprova le azioni di un precedente collega, sottolineando in più una pagina dolorosa per Roma. Ugualmente maldestra sembra la parte conclusiva, in cui si compiace che la parte migliore della Persia è ornata di cristiani ed è suo auspicio che la buona sorte possa arridere a loro, suoi sudditi, quanto a lui: in modo che il Signore dell’universo sarà per lui propizio e benevolo; e dato che è un sovrano tanto grande affida i cristiani nelle sue mani pietose, perché possa amarli con filantropia e rendere così sia a Costantino sia a sé medesimo un beneficio incommensurabile. La chiusa è un po’ una stonatura, nel proporre al re la salvaguardia dei cristiani, insinuando che coloro che ne sono stati i persecutori ne hanno tratto danno e collera divina44; e che, viceversa, ben agendo nei loro confronti, ne verrebbe grande vantaggio sia al re dei re che a Costantino: una espressione offensiva e obliqua, e con sottotoni di ambiguità che possono suscitare in Shabur II un disappunto e forse un’irritazione, per parole fra il suadente avvertimento e la velata intimidazione. Le reazioni del re dei re e della sua corte non lasciano dubbi sugli effetti di tale missiva – se mai gli giunge – o sulle concomitanze di reazioni e circostanze storico-religiose che si verificano nella geopolitica sasanide. In regioni di provate consuetudini e culture iraniche, ma al contempo divise con Roma – quali l’Armenia e l’Iberia – si delinea una crescente affermazione del cristianesimo che non è rassicurante per l’impero persiano, costretto a guardarsi sia all’interno sia all’esterno da una religione di successo che appare sempre di più legata alle scelte politico-confessionali dell’imperatore di Roma. Il tema della ‘duplice lealtà’ contraddistingue d’ora in poi la sorte dei cristiani, sospettati di tradimento verso il re dei re in quanto fedeli della religione adottata da Costantino: un facile pretesto di istigazione persecutoria, che cesserà solo con il progressivo distacco della Chiesa di Persia dalle posizioni dottrinali e cristologiche fedeli a Bisanzio e con la elaborazione di una teologia ‘nestoriana’ destinata a migliori fortune nelle istituzioni dell’impero persiano45.
Nel IV secolo i cristiani iniziano a essere visti come la ‘quinta colonna’ dell’Impero romano: si ripete così, specularmente, quanto avviene nell’epoca dei tetrarchi per il manicheismo, considerato la ‘quinta colonna’ della Persia e perciò severamente represso nella legislazione di Diocleziano.
Nella complessa trama di negoziazioni e strategie, è da registrare una attenzione di Costantino per una minoranza religiosa, i manichei, che ha significativamente suscitato l’attenzione della critica. Di sicuro a lui nota, almeno nominalmente, fin dal 297 – anno dell’editto indirizzato a Giuliano, proconsole d’Africa, e inviato dagli Augusti, Diocleziano e Massimiano, insieme con i due Cesari, Massimino e Costantino –, questa comunità religiosa è sospettata di connessioni con la Persia, menzionata più volte nell’editto, in cui si stigmatizza la Persica adversaria nobis gens e la doctrinam Persarum di questa infame secta. L’Egitto è da anni meta dei flussi missionari che percorrono le regioni mediterranee, dell’impero persiano e dell’Impero romano; dopo la morte del fondatore, Mani, nel 276/277, sono programmaticamente continuati dai due apostoli d’Oriente e d’Occidente, Mar Ammo e Mar Adda. L’Egitto è quindi una terra d’elezione, come prova il Papiro Rylands 469, del 280 circa, il più antico documento46 antimanicheo ritrovato, una lettera pastorale del vescovo Theonas di Alessandria, che inveisce contro le pratiche ascetico-rituali dei manichei e la propaganda delle loro donne di alto rango (electae), che si intrufolano nelle case con modi ammalianti. Alcuni manichei frequentano la scuola del filosofo neoplatonico Alessandro di Licopoli, nell’alto Egitto, che verso il 290 scrive un trattato Contro la dottrina di Mani. Vi sono, quindi, almeno due decenni di presenza e diffusione di questa comunità in Africa e in Egitto, al tempo dell’editto dei tetrarchi (297), motivato dal timore che i manichei possano esercitare un’azione eversiva e sediziosa, come emissari del re di Persia: senza avere presente, in realtà, quali siano, nell’impero persiano, le disavventure di una religione invisa alla ortodossia confessionale dello zoroastrismo di Stato. Le cause storiche di una ribellione, motivata dalla politica fiscale di Diocleziano47 e da una presunta implicazione dei manichei in questa base di scontento popolare, inscrivono le vicende d’Egitto nel quadro politico e militare del rapporto con la Persia e con la spedizione di Galerio contro Narseh, sconfitto all’inizio dell’autunno 297.
L’interesse di Costantino per i manichei è riscontrabile nel passo di Ammiano48, relativo a Strategio Musoniano, funzionario imperiale di rinomata carriera, in seguito portato fino ai vertici della prefettura del pretorio e distintosi come artefice di una illuminata diplomazia con la Persia, nel segno di ambascerie di notevole rango intellettuale (il filosofo Eustazio) e di successo alla corte sasanide. Strategio, famoso per l’eloquenza e per la conoscenza di entrambe le lingue – facundia sermonis utriusque clarus, dove per ‘entrambi’ si intendono non solo il greco e il latino, ma anche, insieme a questi, l’aramaico –, è impiegato da Costantino quando indaga con severo rigore sulla setta religiosa dei manichei e su altre consimili49. Non trovando un altro conoscitore idoneo l’imperatore sceglie Strategio, raccomandatogli come persona competente, anche per questo suo bilinguismo che gli consente di investigare agevolmente in quello che è l’idioma più diffuso presso le comunità manichee della Siria e della Mesopotamia, oltre a essere la lingua in cui sono redatti gli scritti religiosi e che rappresenta lo stadio da cui sarà tradotta la successiva letteratura manichea in copto. I motivi che possono spingere Costantino a questa investigazione sono di natura sia politica sia religiosa, essendo l’una e l’altra esigenza del resto inscindibili nelle sue priorità di uomo di governo: è presumibile che la testimonianza di Ammiano si riferisca al concilio di Antiochia (327) e a preoccupazioni in merito alle diverse sfumature dottrinali che favorevoli o nocive alla stabilità dell’organizzazione ecclesiastica, che, nelle intenzio;ni di Costantino, faceva parte di una progettualità gestionale dell’Impero. Le istanze dottrinali e filosofiche sono, quindi, premessa, o fattore concomitante, di una solidità e tenuta di quegli aspetti politico-organizzativi e sociali che più attengono all’ufficio del governo imperiale, e ciò spiega un interesse pragmatico di Costantino.
Interesse forse non disgiunto da altre considerazioni di ordine politico, che chiamano in causa i manichei per le loro connessioni persiane che risalgono all’epoca dei tetrarchi e alla campagna d’Egitto. E che potrebbero gettare luce sulla politica sasanide di Costantino, su un verosimile tentativo di utilizzare i manichei come fonte di informazione o di intermediazione con la Persia, data la loro presenza nella estensione di quella mezzaluna che va da Antiochia a Ctesifonte50 e, quindi, nell’una e nell’altra parte del limes. In alcuni casi, come durante il regno di Narseh, sono preservati dallo zelo repressivo e persecutorio che si scatena contro di loro nel periodo di Wahram I e Wahram II: questa magnanimità di Narseh è certo la causa del sospetto di essere ‘quinta colonna’ e della reazione di Diocleziano. Si tratta, comunque, di un intermezzo di breve durata. Sotto il regno di Hormizd II (302-309), figlio di Narseh, la ripresa delle ostilità contro manichei e cristiani accomuna le due fedi in un destino di ostilità e di martirio di lunga data, come è testimoniato dalle iscrizioni del gran sacerdote zoroastriano, il mago Kirdir, sopramenzionato. È presumibile che questa comune e tragica sorte, destinata a ripetersi e a inasprirsi nel IV secolo, specie per i cristiani durante la grande persecuzione di Shabur II, suggerisca a Costantino, all’indomani delle guerre che lo portano ad affermarsi come unico imperatore – quindi dopo il 324, al più tardi –, una speciale attenzione per una comunità percepita non del tutto come Persica adversaria nobis gens, in particolare dopo le rinnovate persecuzioni di Hormizd II. Ambivalenze di sfavori e favori della casata sasanide verso i manichei possono, quindi, giocare un ruolo nelle attenzioni e nelle manipolazioni di Roma.
L’attestazione di missioni manichee nelle zone di influenza araba, a partire dal loro successo nel periodo degli splendori di Palmira, almeno nei tempi compresi tra il 260 e il 272, prima della conquista e distruzione compiuta da Aureliano nel 273, è agevolata dal favore di Shabur I per una religione superetnica e universale, che si accorda con le sue mire espansionistiche e sovranazionali. La spinta di conquista di Shabur I contro Valeriano incrementa la diffusione dei manichei entro i territori dell’Impero romano51. Questo fattore geografico rivela un’importanza dei manichei in territori di margine contesi fra Roma e la Persia, nel gioco di alleanze che i principi dell’Arabia preislamica intessono con l’una e l’altra potenza, su uno scacchiere entro cui i manichei si spostano con intenti evangelizzatori: verso Palmira, sotto l’influenza di Roma, e verso al-Hira, sotto l’influenza persiana, diramandosi verso la Siria del sud e l’Arabia del nord-ovest, piattaforma, quest’ultima, verso l’Alto Egitto. Una tale pervasiva e ardente diffusione missionaria incontra la benevolenza di principi come il lakhmide Amru (in ragione della sapienza medica e terapeutica dei manichei nelle sue terre), che fa opera di intercessione presso il re dei re Narseh, perché terminino le ostilità e le persecuzioni52.
Tuttavia, anche nella breve alternanza di momenti di pace, non cambiano gli atteggiamenti di fondo repressivi verso una comunità osteggiata sia nell’uno sia nell’altro impero: a Roma, specialmente, con il progressivo consolidarsi dell’ortodossia cattolica, che dalla seconda metà del IV secolo intensifica via via una politica di censura e di repressione, sia dottrinale sia legislativa. Prima di ciò, la fase costantiniana pare per molti versi in bilico e incerta nella applicazione di rigori che saranno invece conseguenti: la lettera agli eretici riportata da Eusebio53 menziona infatti novaziani, valentiniani, marcioniti, paulianisti e catafrigi, ma tace sui manichei. La curiosità investigativa di Costantino, e la delega a Strategio Musoniano sembrano alludere a una sovrintendenza ispettiva dei movimenti e del ruolo dei manichei, visto il loro propagarsi nell’una e nell’altra parte dei due imperi e in territori contesi, come in effetti la Siria, il che ne fa soggetti da tenere presenti, per strategie informative o collaborative di vario genere, di cui non si hanno ragguagli più precisi, ma che la notizia di Ammiano può suffragare, nelle sue valenze sia politiche sia religiose. Del resto, la società romana, anche prima di Agostino, non è immune da una certa attrazione per il cripto-cristianesimo di tali dottrine e questo spiega l’ampio uso dell’accusa di manicheismo, rivolta ad esempio al dux Sebastiano da parte di Atanasio. Nonostante le molte diffidenze e riserve in ambito teologico espresse dai religiosi cristiani, che aumenteranno per tutto il IV secolo e ancor più dopo, in un crescendo di legislazioni romano-bizantine, non si può affermare che Costantino sia interessato a sottigliezze teologiche e alla pretestuosità di contese volte a brandire l’etichetta di ‘manicheo’, al pari di quella di ‘ariano’, per delegittimare l’avversario: come avviene anche per Costanzo II, biasimato per il suo regime dietetico austero54. Agli occhi di un osservatore intellettualmente spassionato, politicamente accorto e interessato alla concordia dell’Impero, i manichei potevano apparire come uno dei tanti movimenti cristiani disseminati nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Il marcato rilievo cristiano di una religione eclettica e universalistica, e di un fondatore che si presenta quale ‘Apostolo di Gesù Cristo’, assieme a una variegata cristologia con forti tratti di un immaginario solare, può certo attirare il sospetto critico dei padri della Chiesa, anche per i suoi risvolti docetistici; ma nella percezione di Costantino e di gran parte della società essa non deve risultare estranea o diversa dalla moltitudine di comunità e cenacoli che si richiamano all’insegnamento di Gesù. Il coinvolgimento di Strategio Musoniano può, quindi, rispondere a un’esigenza di controllo, motivata dalla preoccupazione che una certa unità dottrinale non venga turbata da formulazioni stridenti con un credo ufficiale, nella progressiva strutturazione di un organismo ecclesiale chiamato a contribuire alla gestione amministrativo-burocratica dell’Impero. È tuttavia presumibile che, per l’assenza di editti costantiniani contro i manichei, l’imperatore non intenda incrinare55 una certa pace religiosa che si inaugura dopo la battaglia di ponte Milvio (312): la sua cautela ispettiva è probabilmente consona a molteplici esigenze di controllo e prevenzione.
Oltre a ciò, vi sono forse anche altre ragioni che si possono addurre come ipotesi e che riguardano non solo la complessa evoluzione intellettuale di Costantino ma anche la sua azione rivoluzionaria, da collocare in una dialettica di pensiero tesa fra due mentalità in contrasto, quella dei valori tradizionali del paganesimo e quella emergente dei valori cristiani da lui adottati. L’una e l’altra interagiscono, nello sforzo di trovare nuovi linguaggi per esprimere sia la continuità sia il mutamento, e, allo stesso tempo, si affermano nella ricerca di idiomi e sintassi comuni, di punti reali e pragmatici di convergenza, come quello della simbologia della vittoria o come il simbolismo solare e le sue declinazioni, in nuove forme e icone di una divinità trionfale che propizia l’invincibilità degli eserciti. Sono queste forti connotazioni solari, e di simbolica della luminosità come fonte di conoscenza, di vittoria e di illuminazione, che motivano forse l’interesse di Costantino, adombrato nelle modalità investigative che Ammiano racconta e che possono essere l’esito di attenzioni e curiosità di più antica data, maturate nella lunga vicenda della sua formazione culturale oltre che politica, nell’occasionalità di incontri e letture.
I ben noti tratti solari e apollinei dell’immaginario pagano tardoantico e della magnificazione imperiale, che con Costantino si intrecciano in nuove modalità di sintesi, possono spiegare anche le ragioni di un successo della teologia solare che il manicheismo condivide con altri sistemi, come il neoplatonismo. Nelle origini illiriche di Costantino, oltre che nella sua educazione romana, si colgono delle suggestioni numinose di irraggiamento e fulgore che tratteggiano una retorica della luminosità ampiamente studiata56 e aiutano a comprendere la teologia politica dei suoi predecessori tetrarchici, oltre alla sua personale e originale esperienza, fatta di intuizioni ed entusiasmi che ne forgiano la mentalità e la volontà. La sua ambizione di potere che si nutre di immagini e stimoli di un vasto repertorio di segni e iconografie, che coniugano mistica della luce e vittoriosità, dove permangono linguaggi e codici, ma con nuovi referenti, trascrizioni e ridislocazioni semantiche. In questo fervido processo di apprendimento e di volitività, occorre includere le sue letture, assimilate e reinterpretate con la di;sinvoltura che ne caratterizza gli impeti rivoluzionari per cui è noto: un processo in cui la suggestione delle immagini e dell’impressione emotiva devono influenzarne i moti dell’animo, le inclinazioni intellettuali e le propensioni, da lui poi tradotte nella pratica e nella costruzione della sua immagine pubblica. La percepita alterità di luce e tenebre e il suo ruolo di imperatore, che effonde sul mondo la luce soterica della sua guida instinctu divinitatis, devono forse includere nei suoi interessi educativi e formativi una attenzione per quelle elaborate dottrine cristiane e solari dei manichei, che vicino al Gesù storico e al Gesù sofferente esaltano la potenza irradiante del Gesù splendore che è al contempo anche giudice e re57.
La fase di transizione dell’epoca costantiniana, nella sua ricerca di nuovi fondamenti culturali riplasmati sull’eredità antica, in una maieutica dolorosa e piena di contrasti, non è ancora quella delle leggi antimanichee di Valentiniano I (372) o di Teodosio I (381). L’Africa romana non è ancora quella di Agostino (nato nel 354) e della sua giovinezza vissuta all’interno della comunità manichea (373), come uditore, e poi fuori di essa (dal 383); l’Agostino uditore, che il pagano Simmaco sceglie comunque per la cattedra di retorica a Milano e che nelle sue opere denuncia i falsi insegnamenti e le ‘vane favole’ manichee, nella trattatistica che diverrà il maglio dottrinale della scolastica antiereticale, a puntello di una severa giurisdizione imperiale, sulla base di una intransigente dogmatica, intellettualmente fondata e argomentata nei modi retorici della confutazione. Prima di ciò, nel tempo e nella vicenda di Costantino, nuove istanze dottrinali del cristianesimo, antiche simbologie della luce, culti e teologie solari di una mistica della regalità convivono e si affiancano, in ibridazioni dai margini sfumati, non distinti e marcati con cesure e censure, come avverrà in periodi successivi. L’imperatore non è un teologo ma un politico, del resto, e, seppure attento e partecipe ad assemblee che radunano i saggi padri della fede e gli ecclesiastici, è ugualmente un perspicace osservatore di quelle dottrine centrate sulla forza numinosa del Sole e sulla vittoriosa potenza del Cristo58 che si diffondono nel Mediterraneo e nelle sue propaggini mediorientali.
Nonostante le astuzie preventive e investigative delle competenze diplomatiche, Costantino è ben conscio di una ripresa delle ostilità che in effetti già si manifestano e, quindi, necessitano di una sua risposta, nelle forme di una difesa aggressiva e di una sorpresa strategica che mette in opera su altri fronti. L’arte della guerra è la risultante di una pianificazione attenta, di uno studio condotto su opere e di esperienza pregressa, sedimentata nella documentazione degli uffici e degli archivi imperiali, oltre che nella consultazione di esperti e veterani. Al momento, tuttavia, la guerra contro la Persia non adorna il suo medagliere di trionfi. L’esame dei suoi titoli di vittoria non rende sempre facile individuare quali siano quelli guadagnati da lui sul campo o quelli attribuitigli sulla base del principio inclusivo della collegialità: con la sola eccezione di quelli di Germanicus maximus, Sarmaticus maximus, Gothicus maximus e Dacicus maximus, in un arco di tempo che va dal 307 al 336, sulla scorta del confronto tra due iscrizioni, si evince che un epiteto, che celebra una vittoria contro i persiani in Cappadocia, è condiviso insieme con Licinio. Oppure che il titolo Persicus è acquisito in base alla collegialità, quando Costantino assume per riflesso il titolo di una vittoria persiana di Massimino che procura a Galerio il titolo di Persicus maximus III, fra il 306 e la fine del 31059. A leggere Eusebio60, si ha la conferma che la spedizione militare contro la Persia è preparata poiché egli non ha ancora ottenuto una vittoria militare contro di essa.
La sua morte pone fine a quei grandiosi preparativi che, sempre sulla scorta di Eusebio, paiono costruire uno scenario maestoso di ideologia della vittoria e di solenne movimento processionale di armati e di vescovi, con accenti vetero e neotestamentari. Nella testimonianza, peraltro lacunosa, di Eusebio – forse per l’esigenza di segretare manovre che è prudente non siano diffuse –, integrata con una interpolazione, per quanto concerne l’avvio della spedizione persiana si menziona una partecipazione di vescovi al seguito di Costantino, per assisterlo con la celebrazione del culto divino ed essergli accanto, per combattere insieme con lui rivolgendo suppliche a Dio, cosa che rallegra l’imperatore in questa sua ultima missione61. Si è molto discusso sull’interpretazione di questo passo: sulle tinte di euforia messianica62 di una marcia che è quasi una processione al Giordano e al battesimo; su una certa atmosfera di fervida e devota sollecitudine che Eusebio tratteggia, e che si ama leggere come una ‘crociata’: un facile stereotipo in cui si può indulgere, se lo si considera come una proiezione ante litteram di situazioni e particolarità storiche che sono tuttavia anacronistiche, improprie e inadeguate63 a rappresentare la realtà di quanto, invece, può comprendersi nelle modalità di un immaginario di guerra sacra, che conferisce enfasi religiosa e ideologica ai propositi di conquista.
L’idea della guerra di religione, come quella del secondo conflitto tra Costantino e Licinio, non è equiparabile a una crociata nel senso proprio del termine: un evento che abbisogna, accanto allo scontro religioso, del pellegrinaggio ai luoghi santi, per poter essere dichiarato tale64. Un imperatore di inclinazioni religiose cristiane non è, inoltre, l’imperatore di un impero cristiano. Bisogna quindi attenuare l’uso di questa etichetta anche per i periodi successivi, nonostante il rigorismo ascetico e confessionale di figure imperiali come Pulcheria, che, insieme con il fratello Teodosio II, organizzerà una propaganda di guerra contro la Persia, nel 421-422, costruita intorno alla croce come vessillo trionfale e protettivo, oltre che sulle reliquie e sulle intercessioni di preghiera di quegli asceti e quei monaci che formano la sua corte65. A maggior ragione, quindi, tale etichetta va obliterata, quando si considerano gli atteggiamenti e la mentalità di Costantino, non certo sovrapponibili a eventi, situazioni, ambienti culturali e scelte politiche al cui interno le intransigenze dogmatiche e confessionali hanno un peso maggiore, o diverso, che nella sua epoca di transito fra l’ideologia tetrarchica e il cristianesimo. È con la morte di Costantino che si notano i prodromi di un linguaggio di guerra sacra, con forti toni apocalittici e millenaristici su cui si accorderanno idiomi, codici e forme espressive di un immaginario di guerra: come si può vedere da un padre siriaco quale Afraate66 e dalla sua utilizzazione di passi biblici tratti dal libro di Daniele, per forgiare le invettive antipersiane della sua Quinta dimostrazione, a difesa della cristianità minacciata all’interno dell’impero sasanide e con l’auspicio che l’imperatore romano giunga a salvarla, ignorando che la morte di Costantino risale a pochi mesi prima.
La vicenda esistenziale di Costantino non si esaurisce con la sua morte, anzi, costituisce un motivo di ispirazione diretta o indiretta di altre situazioni e morfologie politico-religiose, a lui prossime storicamente e anche lontane e retroattive: il nome di Costantino può divenire quasi una parola chiave, per indagare periodi storici e figure di regnanti che nella loro azione di governo perseguono un’illuminata politica di attenzione per altre confessioni, nel tentativo di promuoverne quanto più possibile la convivenza con la religione ufficiale, sia essa anche una religione tutt’altro che tollerante e compiacente, come lo zoroastrismo sasanide, pronto a dare prove efferate della sua intransigenza verso fedi concorrenti.
Eppure questo è ciò che accade nella Persia sasanide durante il regno di Yazdgird I (399-421) – sovrano di riconosciute virtù, dato che Arcadio lo promuove a tutore67 del figlio Teodosio II e la pace fra i due imperi dura fino alla morte del re dei re –, che per gran parte del suo regno tutela i cristiani e garantisce loro pace, tranquillità e libertà di culto, istituendo anche una sinodo di Mar Ishaq (410), che è considerata una versione sasanide dell’editto di Milano del 313. Il Synodicon orientale dei cristiani di Persia, in un auspicio di protezione e con devota retorica della speranza, elogia Yazdgird come «vittorioso», «amico della pace», «glorioso, potente, pacifico», che «regna per grazia di Dio» e la cui benevolenza esalta le Chiese e i fedeli di Cristo in tutto l’Oriente: è utilizzato un lessico che intenzionalmente lo presenta come un ‘Costantino persiano’ che mette fine agli anni di tormenti dei suoi predecessori, fino al punto da spingere queste simpatie cristiane all’invenzione di un suo leggendario battesimo in punto di morte68. La memoria dei vescovi persiani che partecipano al concilio di Nicea (325) e di Gerusalemme (335) si è tramandata con risvolti di emblematiche traslazioni di senso e di identità confessionali, divenute patrimonio dei fedeli cristiani iranici e, quindi, applicate ora a un sovrano mazdeo, con l’innegabile vantaggio di scongiurare le accuse e le vessazioni per le ‘duplici lealtà’. Anche il ricordo della lettera permane nelle narrazioni agiografiche di martirologi siriaci, come quella di Ma‘in, generale di Shabur II: nel momento in cui egli su;bisce la tortura, arriva un inviato da Bisanzio, che consegna a Shabur una lettera di Costantino in cui si domanda allo shah la liberazione per tutti i cristiani. L’esemplarità di fatti e momenti della storia sacra agisce come induttore di senso e di affabulazioni che plasmano il racconto mitico della eroica affermazione della fede in terra di Persia.
Questa estensione della vicenda di Costantino a paradigma e modello interpretativo può far cogliere nessi e analogie con altri personaggi storici, che non si spiegano solo con fortuite coincidenze o sovrapposizioni atemporali e sincroniche. È il caso del sovrano indiano della dinastia mauriya Ashoka (268-239? a.C.), denominato negli studi orientalistici il ‘Costantino del buddhismo’, per la sua pia opera di protezione e sviluppo della fede buddhista in una favorevole congiuntura dell’ellenismo asiatico, di lungimiranza politica e di alto spessore morale, di invito alla tolleranza, alla moderazione e al rispetto delle diverse convinzioni filosofiche e religiose. Ashoka visse secoli prima di Costantino, ma una parte dei testi buddhisti che ne celebrano le gesta sono elaborati nelle scuole buddhiste dell’India nord-occidentale, tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, in un tempo in cui si diffonde il tema di una ‘retorica della conversione’, che dopo Costantino si propaga ben oltre lo spazio imperiale di Roma, in regioni che da secoli sono in comunicazione con il Mediterraneo. Il portato rivoluzionario di una scelta politico-religiosa, di una ridefinizione delle identità su base non etnica e su opposizioni dinamiche, ha forse ripercussioni su aspetti e forme della cultura asiatica e di un pensiero come quello buddhista, i cui concili, le biografie di patriarchi, le storie di scismi, eresie e conversioni riecheggiano i sommovimenti istituzionali, filosofici e intellettuali dell’esperienza costantiniana69.
Si può certo trovare un ulteriore indizio di percorsi nei rapporti secolari che l’India intrattiene con Roma sin dalla età augustea70: e, nello specifico, ricordare le ambasciate indiane che per il trentesimo anno del regno di Costantino giungono dall’Oriente, recando in dono fulgide pietre preziose e animali esotici, per manifestargli che la sua autorità si estende fino all’oceano71. Dietro il tocco di enfasi di Eusebio, l’India, da dove sorge il sole, è l’orizzonte in cui termina il cursus honorum di Costantino, iniziato in Britannia e sviluppatosi di terra in terra fino all’Oriente, in una ideale proiezione che supera la Persia e i titoli di vittoria a lui negati. L’India è ugualmente evocata nell’episodio di Metrodoro, il filosofo che fa un viaggio in India nel 326/327 per apprendere la sapienza brahmanica e riceve da un re gioielli da donare a suo nome all’imperatore72. Ma Metrodoro li dona a suo proprio nome e non a nome del re, aggiungendo che i persiani glieli avevano rubati durante il viaggio, così da fornire pretesto a Costantino per muovere guerra alla Persia, se si presta fede alla notizia inverosimile di Ammiano73 – integrato con Cedreno – a difesa di Giuliano e biasimo di Costantino, che acconsente troppo venalmente alle menzogne di Metrodoro, dando inizio all’«incendio partico» e al conflitto per questo furto. Sotto il velo maldestro della impostura denigratoria, e dell’accusa di cupidigia insensata, adoperato dalla pubblicistica del IV secolo per diffamare Costantino e imputargli le colpe del disastro persiano, si intravvede, dunque, un riferimento significativo all’India e una connessione, di cui la Persia è una tappa geografica intermedia, lungo un tragitto di ‘gemme’ che diventano pretesti. E che non rimandano forse solo a ‘ricchezze’ materiali, ma anche alla ‘preziosità’ di insegnamenti dottrinali e di transiti della cultura nel mondo tardoantico indo-mediterraneo.
1 W.E. Kaegi, Constantine’s and Julian’s Strategies of Strategic Surprise Against the Persians, in Athenaeum, 59 (1981), pp. 209-213; N.G. Garsoïan, Byzantium and the Sasanians, in The Cambridge History of Iran, III, 1, The Seleucid, Parthian and Sasanian Periods, ed. by E. Yarshater, Cambridge-London 1983, pp. 568-592; R.N. Frye, The History of Ancient Iran, München 1984, pp. 303-310; R.C. Blockley, East Roman Foreign Policy. Formation and Conduct from Diocletian to Anastasius, Leeds 1992; M.H. Dodgeon, S.N.C. Lieu, The Roman Eastern Frontier and the Persian Wars (AD 226-363). A Documentary History, London-New York 1991; G. Gnoli, Il pericolo persiano: Ardashir e Shapur I, in Storia della società italiana, III, La crisi del principato e la società imperiale, Milano 1996, pp. 399-433; R.C. Blockley, Warfare and Diplomacy, in The Cambridge Ancient History, XIII, The Late Empire, A.D. 337-425, ed. by Av. Cameron, P. Garnsey, Cambridge 1998, pp. 411-436; K. Mosig-Walburg, Die Flucht des persischen Prinzen Hormizd und sein Exil in römischen Reich – Eine Untersuchung der Quellen, in Iranica Antiqua, 35 (2000), pp. 9-109; Id., Zur Westpolitik Shāpūrs II., in Iran. Questions et connaissances, I, La période ancienne, éd. par Ph. Huyse, Paris 2002, pp. 329-347; I. Tantillo, L’impero della luce. Riflessioni su Costantino e il Sole, in Mélanges de l’École française de Rome, Antiquité, 115 (2003), pp. 985-1048; M. Mazza, Cultura, guerra e diplomazia nella tarda antichità: tre studi, Catania 2005, in particolare il primo capitolo; D. Frendo, Constantine’s Letter to Shapur II. Its Authenticity, Occasion, and Attendant Circumstances, in Bulletin of the Asia Institute, 15 (2005), pp. 57-69; K. Mosig-Walburg, Hanniballianus rex, in Millennium, 2 (2005), pp. 229-253; B. Bianchi, M. Munzi, L’elmo-diadema. Un’insegna tardoantica di potere tra oriente e occidente, in Mélanges de l’École française de Rome, Antiquité, 118 (2006), pp. 297-313; B. Dignas, E. Winter, Rome and Persia in Late Antiquity. Neighbours and Rivals, Cambridge 2007; G. Greatrex, S.N.C. Lieu, The Roman Eastern Frontier and the Persian Wars. A Narrative Sourcebook, Part II AD 363-630, London-New York 20082; K. Mosig-Walburg, Römer und Perser: vom 3. Jahrhundert bis zum Jahr 363 n. Chr., Gutenberg 2009, in particolare il sesto capitolo; C.G. Cereti, L’impero sasanide, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, III, L’ecumene romana, VII, L’impero tardoantico, a cura di G. Traina, Roma 2010, pp. 289-359, in partic. 305-316.
2 Iscrizione di Narseh a Paikuli, § 91, in H. Humbach, P.O. Skjærvø, The Sassanian Inscription of Paikuli, Part 3.1, ed. by P.O. Skjærvø, Wiesbaden 1983, p. 70.
3 B. Campbell, War and diplomacy: Rome and Parthia, 31 BC-AD 235, in War and Society in the Roman World, ed. by J. Rich, G. Shipley, London-New York 1993, pp. 213-240. F. Millar, Government and Diplomacy in the Roman Empire during the First Three Centuries, in The International History Review, 10 (1988), pp. 345-377.
4 G.A. Cecconi, Da Diocleziano a Costantino. Le nuove forme del potere, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, III, L’ecumene romana, cit., pp. 63-65.
5 E. Gabba, Sulle influenze reciproche degli ordinamenti militari dei Parti e dei Romani, in La Persia e il mondo greco-romano, Roma 1966, pp. 51-73; G. Traina, La resa di Roma. 9 giugno 53 a.C., battaglia a Carre, Roma-Bari 2010.
6 S. Cosentino, Iranian Contingents in Byzantine Army, in La Persia e Bisanzio, Convegno internazionale (Roma 14-18 ottobre 2002), Roma 2004, pp. 257-258.
7 S. Mazzarino, L’impero romano, II, Roma-Bari 200515, p. 441; cfr. per gli scambi culturali A.S. Shahbazi, Byzantine-Iranian Relations, in Encyclopædia Iranica, IV, ed. by E. Yarshater, London-New York 1990, pp. 592-595.
8 S.G. MacCormack, Arte e cerimoniale nell’antichità, Torino 1995, pp. 45-51.
9 C.J. Tuplin, Medism and its Causes, in Trans;e;uphratène, 13 (1997), pp. 155-185.
10 E.K. Fowden, Constantine and the Peoples of the Eastern Frontier, in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lenski, Cambridge 2006, pp. 389-390.
11 Z. Rubin, Res Gestae Divi Saporis: Greek and Middle Iranian in a Document of Sasanian Anti-Roman Propaganda, in Bilingualism in Ancient Society. Language Contact and the Written Word, ed. by J.N. Adams, M. Janse, S. Swain, Oxford 2002, pp. 289-290.
12 M.S. Pond Rothman, The Thematic Organization of the Panel Reliefs on the Arch of Galerius, in American Journal of Archaeology, 81 (1977), pp. 427-454.
13 L. Cracco Ruggini, Apoteosi e politica senatoria nel IV secolo d.C.: il dittico dei Symmachi al British Museum, in Rivista storica italiana, 89 (1977), p. 463.
14 A. Giuliano, L’arco di Costantino come documento storico, in Rivista storica italiana, 112 (2000), pp. 461-462.
15 R. Gyselen, Les Wahramides (273-293 A.D.): quelques aspects de leur langage monétaire, in Studia Iranica, 39 (2010), pp. 190, 193-195.
16 F. Betti, A. Gariboldi, Una gemma con ritratto di Tiberio alla corte dei Sasanidi, in Aquileia e la glittica di età ellenistica e romana, Atti del Convegno (Aquileia 19-20 giugno 2008), a cura di G. Sena Chiesa e E. Gagetti, Trieste 2009, pp. 247-257; F. Betti, Modelli e iconografie tra Roma e la Persia in due camei sasanidi della Bibliothèque Nationale de France, in Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, 405 (2008), pp. 541-562.
17 Al. Cameron, Biondo’s Ammianus: Constantius and Hormisdas at Rome, in Harvard Studies in Classical Philology, 92 (1989), pp. 423-436.
18 B. Bianchi, M. Munzi, L’elmo-diadema, cit., p. 305. Per il dibattito su questa insegna del potere cfr. F. Kolb, La storia del diadema da Costantino fino all’età protobizantina, in Bizantinistica. Rivista di Studi Bizantini e Slavi, 5 (2003), pp. 51-60.
19 G. Marasco, Costantino e le uccisioni di Crispo e Fausta (326 d.C.), in Rivista di filologia e di istruzione classica, 121 (1993), pp. 315-317.
20 I. Tantillo, La prima orazione di Giuliano a Costanzo, Roma 1997, p. 65, e commentario, pp. 194-196, dove si nota che forse Giuliano aveva in mente la severa legislazione contro i matrimoni consanguinei, riconfermata da Costanzo, ed era forse influenzato dal clima di restaurazione morale di questo periodo, in cui si seguiva una linea procedurale di Costantino attenta alla preservazione delle tradizioni familiari. Le unioni tra cugini all’interno della famiglia imperiale erano comunque attestate.
21 W. Kaegi, Constantine’s and Julian’s Strategies, cit., pp. 20-211.
22 I. Benedetti Martig, Studi sulla guerra persiana nell’Orazione funebre per Giuliano di Libanio, Firenze 1990, pp. 47-49.
23 A. Marcone, Il significato della spedizione di Giuliano contro la Persia, in Atheneum, 57 (1979), pp. 355-356.
24 R.C. Blockley, East Roman Foreign Policy, cit., pp. 8-9.
25 D. Musti, Simbologia della vittoria dall’Elle;nismo a Costantino, in Rivista di filologia e di istruzione classica, 128 (2000), pp. 49-55; cfr. estesamente M. McCormick, Eternal Victory. Triumphal Rulership in Late Antiquity, Byzantium and the Early Medieval West, Cambridge-Paris 1986.
26 K. Mosig-Walburg, Die Flucht des persischen Prinzen Hormizd, cit., pp.105-106.
27 R.N. Frye, The History of Ancient Iran, cit., p. 309.
28 H.-U. Wiemer, Libanius on Constantine, in Classical Quarterly, 44 (1994) p. 515.
29 Eus., v.C. IV 8.
30 R.C. Blockley, East Roman Foreign Policy, cit., p. 10.
31 Amm., XVII 5,5.
32 K. Mosig-Walburg, Zur Westpolitik Shāpūrs II., cit., pp. 342-344.
33 E.K. Chrysos, The title βασιλεύς in early Byzantine International Relations, in Dumbarton Oaks Papers, 32 (1978), pp. 36-38; K. Mosig-Walburg, Hanniballianus rex, cit., pp. 250-253.
34 Amm., XIV 1,2.
35 F. Millar, Emperors, Frontiers and Foreign Rela;tions, 31 B.C. to A.D. 378, in Britannia, 13 (1982), pp. 2-3, 21-22.
36 Ph. Gignoux, Les quatre inscriptions du mage Kirdīr, Paris 1991, pp. 69-70, § 11; C. Jullien, F. Jullien, Aux frontières de l’iranité: «Nāṣrāyē» et «krīstyonē» des inscriptions du mobad Kirdīr: enquête littéraire et historique, in Numen, 49 (2002), pp. 282-335.
37 D. de Decker, Sur le destinataire de la lettre au roi des Perses (Eusèbe de Césarée, Vit. Const., IV, 9-13) et la conversion de l’Arménie à la religion Chrétienne, in Persica, 8 (1979), p. 111 n. 32.
38 E. Chrysos, Some Aspects of Roman-Persian Legal Relations, in ΚΛΕΡΟΝΟΜΙΑ, 8 (1976), pp. 17-19, sottolinea la valenza di ufficialità e compimento, sotto Costantino, di un uso del termine ‘fratello’ probabilmente già iniziato in epoca tetrarchica, durante le negoziazioni tra Diocleziano e Narseh del 298.
39 Cfr. Amm., XVII 5,3-10.
40 A. Piras, Ritualità della comunicazione: scambi di lettere tra Bisanzio e la Persia, in Bizantinistica. Rivista di studi bizantini e slavi, 11 (2009), pp. 301-316.
41 T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cam;bridge (MA) 1981, pp. 258-259.
42 Amm. X 1.
43 Av. Cameron, S.G. Hall, Eusebius. Life of Constantine, Oxford 1999, p. 315, commentario a IV 10,1: una interpretazione giustamente confutata da D. Frendo, Constantin’s Letter to Shapur II, cit., p. 62.
44 K. Mosig-Walburg, Die Rolle der Religion in der Perserpolitik Constantins I. und Constantius’ II., in Id., Römer und Perser, cit., pp. 275-278.
45 S. Brock, Christians in the Sasanian Empire: a Case of Divided Loyalties, in Religion and National Identity, ed. by S. Mews, Oxford 1982, pp. 1-19; A. Panaino, La Chiesa di Persia e l’impero sasanide. Conflitto e integrazione, in Cristianità d’Occidente e cristianità d’Oriente (secoli VI-XI), Spoleto 2004, pp. 765-863.
46 Cfr. Texte zum Manichäismus, hrsg. von A. Adam, Berlin 1969, pp. 51-54; traduzione in Manichaean Texts from the Roman Empire, ed. by I. Gardner, S.N.C. Lieu, Cambridge 2004, pp. 114-115.
47 C. Zuckermann, Les campagnes des Tétrarques, 296-298, in Antiquité Tardive, 2 (1994), pp. 69-70.
48 Amm., XV 13,1-2.
49 Cfr. J.W. Drijvers, Ammianus Marcellinus 15.13.1-2: Some Observations on the Career and Bilingualism of Strategius Musonius, in Classical Quarterly, 46 (1996), pp. 532-537; e diversamente D. Woods, Strategius and the ‘Manichaeans’, in Classical Quarterly, 51 (2001), pp. 255-264.
50 P. Brown, The Diffusion of Manichaeism in the Roman Empire, in Journal of Roman Studies, 49 (1969), pp. 96-97. Sull’importanza del manicheismo come fenomeno di interazione culturale nella zona di frontiera tra Roma e Persia, cfr. M. Mazza, Cultura guerra e diplomazia, cit., p. 148.
51 G. Gnoli, Mani, Šābuhr e l’ora di Palmira, in Il manicheismo. Nuove prospettive della ricerca, a cura di A. van Tongerloo, L. Cirillo, Turnhout 2005, pp. 142-145.
52 M. Tardieu, L’arrivée des manichéens à al-Ḥīra, in La Syrie de Byzance à l’Islam, VIIe-VIIIe siècles, Actes du Colloque international (Lyon, Paris 11-15 septembre 1990), éd. par. P. Canivet, J.-P. Rey-Coquais, Damas 1992, pp. 20-21.
53 Eus., v.C. III 64.
54 D. Rohrbacher, Why didn’t Constantius II eat Fruit?, in Classical Quarterly, 55 (2005), pp. 323-326.
55 S.N.C. Lieu, From Mesopotamia to the Roman East – The Diffusion of Manichaeism in the Eastern Roman Empire, in Id. Manichaeism in Mesopotamia & the Roman East, Leiden-Boston 19992, p. 102.
56 I. Tantillo, L’impero della luce, cit., p. 996.
57 M. Franzmann, Jesus in the Manichaean Writings – Work in Progress, in Studia Manichaica, IV Internationaler Kongress zum Manichäismus (Berlin 14-18 Juli 1997), hrsg. von R.E. Emmerick, W. Sundermann, P. Zieme, Berlin 2000, pp. 237-241.
58 F.J. Dölger, Konstantin der Große und der Manichäismus. Sonne und Christus im Manichäismus, in Id., Antike und Christentum, Münster 1930, pp. 301-314.
59 T.D. Barnes, The Victories of Constantine, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 20 (1976), pp. 153-155; Id., Imperial Campaigns, A.D. 285-311, in Phoenix, 30 (1976), pp. 191-193.
60 Eus., v.C. IV 56,1.
61 Eus., v.C. IV 56,3.
62 G. Fowden, The Last Days of Constantine: Oppositional Versions and Their Influence, in Journal of Roman Studies, 84 (1994), p. 151.
63 Come ha ben evidenziato K. Mosig-Walburg, Die Rolle der Religion in der Perserpolitik, cit., pp. 275-278.
64 S. Mazzarino, Il basso impero. Antico, tardoantico ed èra costantiniana, I, Bari 1980, p. 112.
65 K. Holum, Pulcheria’s Crusade A.D. 421-22 and the Ideology of Imperial Victory, in Greek, Roman and Byzantine Studies, 18 (1977), p. 165, sottolinea per Pulcheria le ascendenze eusebiane di questo simbolismo della croce, in relazione alla visione di Costantino. L’etichetta di ‘crociata’ è anche da evitare per la expeditio persica di Eraclio (622-623), comprensibile più esattamente nell’ambito di una ‘guerra sacra’, cfr. N. Bergamo, Expeditio Persica of Heraclius: Holy War or Crusade?, in Porphyra, 12 (2008), pp. 94-107.
66 T.D. Barnes, Constantine and the Christians of Persia, in Journal of Roman Studies, 75 (1985), pp. 126-136; C.E. Morrison, The Reception of the Book of Daniel in Aphrahat’s Fifth Demonstration, “On Wars”, in Hugoye: Journal of Syriac Studies, 7 (2004), pp. 1-28.
67 Cfr. G. Greatrex, J. Bardill, Antiochus the Praepositus: A Persian Eunuch at the Court of Theodosius II, in Dumbarton Oaks Papers, 50 (1996), pp. 171-197; U. Roberto, Immagini del dispotismo: la Persia sassanide nella rappresentazione della cultura ellenistico-romana da Costantino a Eraclio (306-641 d.C.), in Dispotismo. Genesi e sviluppo di un concetto filosofico, a cura di D. Felice, I, Napoli 2001, pp. 38-42; G. Greatrex, Deux notes sur Théodose II et les Perses, in Antiquité Tardive, 16 (2008), pp. 85-91.
68 S. McDonough, A Second Constantine? The Sasanian King Yazdgard in Christian History and Historiography, in Journal of Late Antiquity, 1 (2008), pp. 127-141. Per l’applicazione del modello costantiniano, sulla scorta di Eusebio, alla regalità persiana, cfr. C. Jullien, Christianiser le pouvoir: images de rois sassanides dans la tradition syro-orientale, in Orientalia Christiana Periodica, 75 (2009), pp. 119-131.
69 A. Palumbo, From Constantine the Great to Emperor Wu of the Liang. The rhetoric of imperial conversion and the divisive emergence of religious identities in Late Antique Eurasia, in Conversion in Late Antiquity: Christianity, Islam and Beyond, Mellon Foundation Sawyer Seminar (University of Oxford 16 January 2010), http://eprints.soas.ac.uk/8605/ (5 luglio 2012).
70 Una ambasceria indiana raggiunse Augusto in Spagna (25 a.C.) e a Samo (21/20 a.C.); cfr. P. Daffinà, Le relazioni tra Roma e l’India alla luce delle più recenti indagini, Roma 1995, p.17.
71 Eus., v.C. IV 50.
72 B.H. Warmington, Ammianus Marcellinus and the Lies of Metrodorus, in Classical Quarterly, 31 (1981), pp. 464-468.
73 Amm., XXV 4,23.