Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alla fine del XV secolo nelle più importanti corti e città italiane si sviluppano esperienze poetiche che, pur nelle diverse peculiarità, hanno nella tematica amorosa e nell’ispirazione cortigiana un punto di contatto. Il modello petrarchesco si impone come linguaggio della poesia lirica e vengono poste le basi per l’incontrastato petrarchismo del secolo successivo. Tra i centri principali si segnalano le corti padane (Ferrara e Mantova in primis), Milano, Venezia (pur in una posizione particolare) e la corte napoletana. Le raccolte poetiche ci sono trasmesse da esemplari manoscritti, ma anche dalle prime stampe che si diffondono in Italia. Molti e non tutti noti i nomi dei poeti che animano la fine del Quattrocento: tra questi si segnalano Niccolò da Correggio, Tebaldeo, Gaspare Visconti, Filenio Gallo, il Cariteo e Serafino Aquilano.
Le radici del petrarchismo
Niccolò da Correggio
In ricordo di Procri
Fabula de Cefalo, Atto V, vv. 1-15
Silenzio! O ninfe, il funeral officio
fornito è ormai con suo debito onore;
defonta è Procris, non per alcun vizio,
ma sol per tropo smisurato amore.
A me se expecta ormai novo exercizio;
troppo gran pena è morte a un poco errore:
senza me ritornò Procri a sue tede,
onde morta n’è lei como se vede.
E perché lei non meritò tal pena,
consentir non intendo a tanto male;
Cefal sua vita dolorosa mena,
chiama la morte, e ’l suo chiamar non vale.
Scopri tu quella pirra, o Filomena,
e vedrai cose sopra naturale:
che Procri al mio chiamar vo’ si risenti,
ché in ciel comando, e in terra, a li elimenti.
Antonio Tebaldeo
Amor Divino
Opere d’amore
Io vidi la mia ninfa, anzi mia dea,
girsene per la neve, e vidi lei
di tal bianchezza che giurato avrei
che fosse neve, se non si movea.
La neve che fioccando discendea,
vedendo esser più candida costei,
più volte in ciel, contra il voler dei dèi,
stette, né al basso più venir volea.
Stava pieno ciascun di maraviglia,
vedendo che fioccava e che sole era:
il sol che facea lei cum le soe ciglia.
Vincer la neve, e l’aria obscura e nera
Far lucida, gli è laude, e onor ne piglia;
ma, lasso, in vincer me che gloria spera?
Gaspare Visconti
Canzoniere per Bianca Maria Sforza, XV
Spesso cum me medesmo entro in stupore
ch’avendo tu de foco vivo i sguardi,
quel tuo ventaglio non consumi et ardi
che è secco et è propinquo a tanto ardore,
ché, ben che molle e longe sia il mio core,
a farlo fiamma e foco mai non tardi.
Ma credo che gl’incendi più gagliardi
faccia dei pianti mei l’acerbo umore.
Non che l’umor da sé paia disposto
a crescer forza a un corpo a sé avampare,
excepto se non è d’onto composto,
ma il mio signore il qual si suol gloriare
de non essere a legge sottoposto,
vol che mi offenda chi me diè giovare.
Filenio Gallo
Ritornare
Rime a Safira, Sonetto 61
Amor, el desider, la voglia e l’uso
mille fïate el dì m’hanno guidato
là dove da’ begli occhi fui legato,
anzi in dolce prigion per sempre chiuso.
E come far solia risguardo in suso
e nulla veggo, und’io tutto turbato
abbasso gli occhi, afflitto e sconsolato,
piangendo a giunte man lasso e confuso.
Poi, riavuto alquanto, el mie cor dice:
Quest’è quel luogo pur dove mie diva
mi dette fede ancor farmi felice.
Questo sperar mantien mia mente viva,
perchè ciascun, quantunche infelice,
spera col tempo ricondursi a riva.
Benedetto Cariteo
Vacuità della notte
Rime
Or che ’l silenzio de la notte ombrosa
Gli òmini e gli animali al somno invita;
or che gli augelli, in più secura vita,
riposan ne l’umìl casa frondosa;
a me, lasso, quest’ora è più noiosa,
ché, sentendo d’amor la fiamma, unita
col morir de la dura dipartita,
la vita piango sola e dolorosa:
qual roscignuol sotto populea fronde
piange i suoi figli, che ’l duro aratore
gli ha tolti, insidïando al caro nido.
Lui, repetendo il miserabil grido,
chiama la notte, e nullo gli risponde,
empiendo i boschi e ’l ciel del suo clamore.
Serafino Aquilano
Domande e risposte
Deh, fusse qui chi mi to’ el somno! Somno
Deh, fusse qui chi mi to’ el somno! Somno.
Ah, chi responde al mio clamore? Amore.
Mei prieghi, Amor, stringer te ponno? Ponno.
Dimi, costei prezza el mio amore? More.
Dunque li ciel mio ben non vonno? Vonno.
Chi darrà fine al mio dolore? L’ore.
E che ho da far lei sia contenta? Tenta.
Speri poi tu darmela venta? Venta.
Cogli passion come io, dur scoglio? Coglio.
Chi quel serria che me arde olà? Olà.
Deh, ché non hai di me cordoglio? Doglio.
Dunque tua mente odir non sa? Non sa.
Non mi vòi ben come io te voglio? Voglio.
Mio cor per te tutto serrà? Serrà.
E vòi che aspecti molto o poco? Poco.
Che manca al mio desir dar loco? Loco.
S. Aquilano, Strambotti
Nella seconda metà del Quattrocento nelle varie corti e città italiane si sviluppa una ricca produzione in volgare, soprattutto di matrice lirica, che acquista caratteri molto diversi a seconda dei centri di produzione. In particolare le corti dell’area padana (Ferrara e Mantova in primis), pur mostrando ciascuna caratteristiche peculiari, si fanno promotrici di una letteratura che presenta notevoli affinità, sia tematiche sia formali. Caratteri spiccatamente individuali dal punto di vista letterario offrono invece la corte milanese, quella napoletana e quella del Ducato di Urbino. Estremamente appare poi il panorama di una città come Venezia, in cui – in assenza di una corte – convivono esperienze letterarie molto diverse tra loro e a tratti “anarchiche”. Pur nell’estrema varietà degli esiti e delle esperienze, appare evidente che nella seconda metà del Quattrocento a dominare la poesia lirica sia il modello petrarchesco e che questa si sviluppi principalmente all’interno di una corte. Come hanno ampiamente dimostrato gli studi di Marco Santagata e Stefano Carrai (La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, 1993) nel XV secolo si impostano le basi di quello straordinario fenomeno di “letteratura di massa” che è il petrarchismo, che vedrà poi, nel secolo successivo, la propria massima diffusione. I poeti attivi sul finire del Quattrocento nei vari centri sono moltissimi: in questa sede si è scelto di trattarne solo alcuni, uno per ciascuna delle più importanti corti e realtà politiche dell’epoca.
Niccolò da Correggio
Niccolò da Correggio – che dal 1481 al 1497 può usare anche il cognome dei Visconti, presso i quali presta servizio –, figlio di Beatrice, figlia naturale di Niccolò d’Este, e cugino del più noto Matteo Maria Boiardo, nasce a Ferrara, dove trascorre la sua giovinezza presso la corte estense. Uomo d’armi per la necessità di difendere la propria signoria su Correggio, entra nell’orbita dello Stato di Milano e stringe rapporti in particolare con Ludovico il Moro, pur mantenendosi sempre fedele agli Este.
Durante la guerra tra la Serenissima e Ferrara, nel 1482 viene imprigionato dai Veneziani e liberato quasi un anno dopo.
Correggio rappresenta il poeta cortigiano per eccellenza: tutta la sua vita ruota attorno alle più importanti corti settentrionali (Ferrara, Mantova e Milano), è legato ai principali letterati dell’epoca, mentre la sua referente privilegiata è Isabella d’Este Gonzaga. Da una serie di lettere risulta che il poeta avesse dedicato le sue rime proprio alla marchesa di Mantova, che però non riesce mai a entrare in possesso del canzoniere, neppure alla morte del poeta, nonostante le tante insistenze attestate dalla corrispondenza – raccolta da Alessandro Luzio e Rodolfo Renier) –, in concorrenza con la cognata Lucrezia Borgia.
La tradizione delle rime di Correggio è affidata essenzialmente a due testimoni (uno dei quali è andato perduto nell’incendio della Biblioteca Nazionale di Torino) e ad alcune raccolte antologiche di poesia cortigiana manoscritte e a stampa. Il canzoniere lirico del poeta comprende solo sonetti, capitoli e canzoni, escludendo dunque i rispetti (ottave liriche) di cui pure Correggio è autore, ma verso i quali ostenta sempre noncuranza (“io non tengo conto né copia di stanzie”, scrive in una nota lettera a Isabella d’Este che gliene chiede). I tipi di metri utilizzati, che si attengono strettamente agli schemi petrarcheschi, la tematica, prevalentemente amorosa, e il linguaggio, già sulla linea di un austero ritorno al modello, fanno del Correggio uno dei primi e più notevoli petrarchisti.
Oltre alla produzione lirica, Niccolò è autore anche di componimenti teatrali e narrativo-descrittivi destinati a occasioni festose della vita di corte. La Fabula Psiches et Cupidinis, la cui composizione (1481-1491 ca.) deve essere ascritta al periodo milanese del Correggio, è un poemetto allegorico in ottave (179) di andamento narrativo in cui il noto mito di Amore e Psiche è narrato all’interno di una cornice di sapore cortigiano. Al poeta-pastore che piange sul proprio infelice amore appare in sogno Cupido che racconta l’esemplare vicenda amorosa di Psiche: l’intento dichiarato è quello di indurre l’amante a fuggire i pericoli della passione. La dedica a Isabella e i forti elementi autobiografici ne fanno un interessante documento dei riti cortigiani e dei primi “travestimenti” bucolici.
La Fabula de Cefalo, composta nel 1487 per le nozze di Lucrezia d’Este e Annibale Bentivoglio, rappresenta forse il più riuscito esperimento teatrale dell’epoca ed è annoverata fra i primi esempi di dramma profano. Trasmessa in buona parte della tradizione a stampa quasi sempre insieme alla Fabula Psiches et Cupidinis, testimonia l’ampia fortuna della vena teatrale e mitologica del Correggio. Il Cefalo è un dramma teatrale satiresco e consta di cinque atti, tutti conclusi (a eccezione del secondo) dall’intervento del coro. Tra le forme metriche prevale l’ottava, seguita dai metri lirici delle parti corali. Il mito ovidiano di Cefalo e Procri (Metamorfosi VII, 690-865) funge solo da spunto della vicenda, ambientata in una favolosa Arcadia popolata da satiri, fauni e ninfe. Il lieto fine, ottenuto con l’intervento di Diana che fa resuscitare la protagonista Procri, morta a causa della gelosia, è necessitato dall’occasione della rappresentazione (una festa nuziale) e risolve il dramma in un invito alle giovani spose a non cedere all’irrazionalità della gelosia.
Ad anni di poco successivi risale invece la Silva, poemetto destinato alla corte milanese per i festeggiamenti del carnevale del 1493. Al centro della composizione vi è l’infelice sorte di un innamorato non corrisposto: invocando la morte per allontanarsi dalla sua amata Rosa, il giovane ottiene il diniego di Caronte, traghettatore dell’Ade, preoccupato che lo spirito dolente dell’innamorato aggiunga troppo fuoco alle pene infernali, tanto da rischiare di incendiare i Campi Elisi. Il calembour retorico è all’origine della svolta salvifica della vicenda: non potendo morire a causa dell’eccesso di dolore, l’amante viene riportato in vita e destinato al Giardino dove può infine contemplare e odorare la sua Rosa (ott. 21,7-8: “contentative, amanti, a un simil fine: / così le rose s’han senza le spine”). L’immagine della donna come Rosa del chiuso giardino d’Amore declina il tradizionale topos della rosa in chiave allegorica, secondo una modalità propria della tradizione medievale (si pensi al Roman de la Rose), ma contaminata da più recenti spunti della lirica cortigiana (ad esempio attraverso l’abbondante impiego di ossimori e paradossi).
Antonio Tebaldeo
Antonio Tebaldilatinizza il suo cognome secondo la moda umanistica in Tebaldeo. Poeta e letterato straordinariamente prolifico, nasce a Ferrara e presta servizio presso la corte degli Este come precettore di Isabella d’Este fino al 1496, poi, dopo un periodo alla corte mantovana di Francesco Gonzaga, torna a Ferrara con l’incarico di segretario di Lucrezia Borgia. Infine, nel 1513 si trasferisce a Roma, alla corte papale di Leone X , subendo – durante il sacco di Roma – la perdita dei propri beni, compresa la sua famosa biblioteca. Muore a Roma, in ristrettezze economiche.
Poeta bilingue di straordinaria fortuna, in contatto con i principali intellettuali e uomini di corte della sua epoca, Tebaldeo è il promotore di un rinnovato petrarchismo che vede nella corte il proprio orizzonte di riferimento. La sua produzione lirica volgare viene pubblicata per la prima volta nel 1498 per iniziativa del cugino Iacopo Tebaldi e dedicata alla marchesa di Mantova; fino a oltre la metà del Cinquecento le stampe si susseguono a ritmi serrati: le sole riedizioni (fedeli o con lievi aggiunte) della princeps ammontano a una quarantina. La forma assolutamente prevalente, come da prassi petrarchistica, è il sonetto, ma rientrano nella raccolta anche egloghe e capitoli, in parte destinati alla recitazione. Una più ampia varietà metrica è invece ravvisabile nelle rime estravaganti (cioè non comprese nell’editio princeps): accanto alla canzone e alla sestina, ancora di stretta osservanza petrarchesca, vi trovano posto alcuni strambotti e una serie di ottave continuate, ridotte concessioni alla moda allora imperante. Con Tebaldeo l’eredità petrarchesca si carica nei toni e negli artifici: la lingua raffinata e concettosa, a tratti “tardo-gotica”, esaspera stilemi e motivi tipici del Petrarca; la tematica, amorosa e cortese, incontra il gusto cortigiano stimolando una “maniera tebaldeiana” (Tania Basile).
Le Stanze, pubblicate per la prima volta nel 1518, sono un invito all’amore in ottave (17 rispetti continuati). La situazione iniziale è molto vicina a quella delle Stanze polizianee: viene evocata infatti la giovinezza “silvatica” del protagonista (il poeta stesso) che, disdegnando ogni invito amoroso, vive isolato dal mondo in un locus amoenus. Con il sopraggiungere della maturità si insinua però in lui “Amor che de chi ’l fugge è sempre a’ fianchi” e ne vince ogni remora. Il poeta, ormai vecchio e in ostaggio del dio alato, esorta infine tutti gli spiriti riottosi a cedere all’amore finché sono giovani.
Gaspare Visconti
Alla corte milanese è invece legata l’esperienza di Gaspare Visconti, poeta di minor fortuna critica del Correggio e del Tebaldeo, ma di notevole importanza nel contesto delle corti del Nord.
Di nobili origini e direttamente coinvolto nell’amministrazione di Ludovico il Moro, il Visconti vive da protagonista l’effimera ma splendida stagione poetica che, sul finire del secolo, fa di Milano, anche grazie ai numerosi intellettuali toscani che la scelgono come rifugio, una delle corti più importanti d’Italia. In amicizia con i maggiori letterati settentrionali (Calmeta, Niccolò da Correggio, Antonio Fileremo Fregoso) e in particolare con quelli della corte milanese (Galeotto del Carretto, Baldassarre Taccone, Lancino Curti), Visconti si fa promotore del petrarchismo sia a livello teorico, sia nella pratica poetica.
Egli ha un ruolo attivo nell’edizione milanese del Canzoniere del 1494 (per la quale presta anche un proprio prezioso esemplare di collazione); promuove quella che, secondo Carlo Dionisotti, è la prima testimonianza della riflessione sulla lingua volgare che, di lì a pochi anni, occuperà i maggiori letterati d’Italia. Nella lettera a Leonardo Aristeo del primo giugno 1498 il poeta manifesta, nelle lodi verso Paolo Cortese tutto l’imbarazzo di un “non toscano” di fronte alle difficoltà di un codice per il quale non esiste ancora una trattazione sistematica – e occorrerà aspettare fino alle Prose della Volgar Lingua di Pietro Bembo). Lo sforzo di acquisizione di una lingua il più possibile aderente ai modelli toscani emerge in Visconti nell’evoluzione verificabile nel corso della sua produzione, che mira a un linguaggio sempre più “mediano” e toscaneggiante. L’interesse per il modello toscano non si limita al solo Petrarca, ma si allarga anche alla tradizione comico -burlesca e alla recentissima poesia laurenziana. La letteratura toscana gode del resto di grande credito alla corte milanese fin dall’epoca dei soggiorni di Petrarca, Fazio degli Uberti e Francesco Filelfo.
Sicuramente influenzato dai canti carnascialeschi fiorentini e dalla riflessione laurenziana sulla fugacità del tempo è per esempio il poemetto in ottave Transito del carnevale. Sempre in ottave, ma narrative, sono il poema tra l’amoroso e lo storico-encomiastico De Paulo e Daria amanti (pubblicato nel 1495), e la Pasitea, dramma teatrale tra i più interessanti del rinato teatro profano. La vena lirica del Visconti si esercita soprattutto sul sonetto di tradizione lirico-petrarchesca: se nei Rithimi trovavano spazio anche due sestine (a fronte però di 246 sonetti), unicamente composto da sonetti (ben 157) è il canzoniere allestito per la duchessa Beatrice d’Este intorno al 1494-1496, di cui ci rimane l’esemplare di dedica. Si apre invece, pur cautamente, a una maggiore varietà, l’ultima raccolta del Visconti, il canzoniere commissionatogli da Bianca Maria Sforza, moglie dell’imperatore Massimiliano (1459-1519), a cui lavorerà negli estremi anni della sua vita (1497-1499). Il poeta, a corto di materiale, riutilizza scopertamente il canzoniere per Beatrice, sottoponendolo a revisione ma ampliandolo, anche dal punto di vista metrico: aggiunge infatti cinque capitoli e una canzone, l’unica che di lui si conosca.
Filenio Gallo
In un ambiente completamente diverso si situa l’esperienza letteraria di Filippo Galli, frate senese dell’ordine degli Eremiti di sant’Agostino, che assume il nome umanistico di Filenio Gallo. Le notizie sulla sua vita sono scarse: figura appartata e non priva di ombre, prende parte alla rinascita del genere bucolico in volgare che vede proprio nella natia Siena il principale centro propulsore.
Filenio abbandona però abbastanza precocemente l’ambiente toscano per trasferirsi in Veneto: a partire dagli anni Ottanta è prima a Padova, dove studia teologia, poi a Venezia, dove rimane fino al 1502, poco prima della morte. Nella città lagunare Filenio stringe importanti legami, sia con conterranei che dominano in quegli anni il panorama letterario veneziano, sia con esponenti della colta nobiltà locale (in particolare Giovanni Badoer). Testimoniano l’ampia produzione del frate le sue due raccolte poetiche dedicate ad amori veneziani. Il Canzoniere per Lilia, che comprende sonetti, barzellette, ternari e strambotti per un totale di 129 componimenti, ha toni patetico-sentimentali, mentre più corposo (265 componimenti tra sonetti, sestine e strambotti, oltre a una canzone, una ballata e una barzelletta) e torbido risulta quello per Safira. Nella poesia di Filenio l’amore è descritto nella sua concretissima realtà, fatta di sensualità e sentimento, molto lontana dalle coeve idealizzazioni petrarcheggianti. Filenio rappresenta in questo senso una singolare figura “ponte”, un isolato sperimentatore, sospeso tra i modelli toscani e il nascente petrarchismo cortigiano.
Cariteo
Benet Gareth, noto con il classicheggiante nome di Cariteo (il “discepolo delle Muse”), è, insieme al Pontano, il più illustre rappresentante della vivace cerchia poetica che anima la corte aragonese alla fine del XV secolo. Originario della Catalogna, nasce a Barcellona, ma ben presto si trasferisce a Napoli dove incontra il favore dei circoli cortigiani; dal 1486 ricopre un importante incarico di cancelleria a corte ed entra così in contatto con Pontano, segretario di re Ferdinando I e con i principali letterati del tempo (Pier Jacopo De Jennaro, Giovan Francesco Caracciolo, Francesco Galeota e Jacopo Sannazaro).
Ammesso a far parte dell’Accademia Pontaniana con il nome appunto di Cariteo, Gareth contempera il culto dei classici latini con la vena poetica volgare. Autore di un canzoniere intitolato Endimione alla Luna, Cariteo si rivela un petrarchista originale e raffinato: la raccolta, dedicata a una donna dall’evocativo nome di Luna (che si presta a un’infinita serie di variazioni), ripercorre fedelmente le tappe del precedente petrarchesco. La prima stampa delle rime del Cariteo, apparsa a Napoli nel 1506 (Opere del Chariteo), ha un tale successo che a soli tre anni di distanza, nel 1509, viene pubblicata una seconda edizione accresciuta: in questa, che diverrà la vulgata, il canzoniere è notevolmente ampliato (i componimenti passano da 65 a 247) e al tema amoroso si aggiungono spunti storici ed encomiastici.
Particolare attenzione viene dedicata dal Cariteo alla revisione linguistica e stilistica del canzoniere: si tratta di un preciso piano di nobilitazione del proprio repertorio lirico in chiave toscano-petrarchesca a cui si associa un ripensamento delle forme metriche, che finiscono per comprendere solo quelle canonizzate dai Rerum Vulgarium Fragmenta (sonetti, canzoni, sestine, ballate e madrigali), eliminando così rispetti e canzoni frottolate presenti sia nel codice di dedica a Ferrandino, principe di Capua, che rappresenta la prima redazione nota della raccolta (anteriore al 1495 e noto come codice De Marinis o codice Morocco), sia nella princeps del 1506.
Serafino Aquilano
Serafino Ciminelli è certamente l’autore che più di ogni altro incarna alcune caratteristiche della poesia italiana di questo periodo. Premiato da uno straordinario successo già in vita, autore facondo, la sua fama cresce a tal punto dopo la sua prematura scomparsa da far sì che la sua già ampia produzione si arricchisca di un impressionante numero di false attribuzioni, tanto da passare dai 323 componimenti della prima edizione delle sue poesie (1502) ai ben 753 della stampa del 1516. Nato nel 1466 da una nobile famiglia de L’Aquila, da cui prende l’appellativo di Aquilano, Serafino studia musica a Napoli presso il famoso maestro fiammingo Guarnier (XV sec.); in seguito, tranne brevi periodi nella città natale, vive tra le più importanti corti italiane: innanzitutto Roma, dove presta servizio presso Ascanio Sforza e frequenta l’Accademia di Paolo Cortese, poi Napoli, presso la corte aragonese, dove rimane tre anni, intrattenendo stretti rapporti anche con l’Accademia Pontaniana.
Tra il 1494 e il 1495 si trasferisce presso la corte di Mantova, animata dal circolo di letterati radunati intorno a Isabella d’Este, per poi spostarsi a Milano, alla corte di Ludovico il Moro, dove entra in contatto con alcuni tra i maggiori poeti del Nord: Niccolò da Correggio, Gaspare Visconti, Antonio Fileremo Fregoso. A partire dal 1497 le peregrinazioni di Serafino riprendono: Mantova, Urbino, Roma, dove presta servizio presso Cesare Borgia e dove muore di febbre a soli 35 anni. Autore di sonetti, barzellette, egloghe, epistole e capitoli ternari, l’Aquilano è noto specialmente per la vasta produzione strambottistica. L’ottava lirica, già in voga nella Firenze laurenziana, trova in Serafino il suo culmine e, in un certo senso, anche il suo epilogo. La recente edizione degli strambotti, a cura di Antonio Rossi, fissa a 221 i componimenti d’autore, ideati per le occasioni mondane e festose delle varie corti signorili, oltre che per le Accademie (sappiamo per esempio di un’egloga recitata nel 1493 per le nozze romane di Lucrezia Borgia e Giovanni Sforza). È noto dai documenti che l’Aquilano non solo musicava e cantava le proprie composizioni, ma in alcuni casi prendeva anche parte alla messa in scena.
Il tema dominante degli strambotti, così come delle altre forme metriche, è l’amore in tutte le sue topiche varianti. L’amante, come da copione petrarchistico, soffre, geme, invoca la morte; la donna amata non è una sola (per esempio negli strambotti a Laura da Birago si aggiunge un’altra figura, la Pellegrina) e la bellezza femminile è insidiata dal tempo che fugge. Al fondamentale modello di Petrarca si mescolano echi e influssi della lirica più recente, in particolare di quella laurenziana e di Angelo Poliziano – probabilmente nel circolo romano del Cortese l’Aquilano può vedere la Raccolta Aragonese che circola tra i letterati che vi si riuniscono. Si pensi, per fare un unico esempio, alla serie di strambotti (nn. 115-117) giocati intorno all’artificio dell’eco sul modello del precedente polizianeo (“Che fa’ tu, Ecco, mentre io ti chiamo? Amo”, Rime, XXXVI).
Dopo la princeps del 1502, pubblicata a Roma a cura di Francesco Flavio, l’anno successivo esce a stampa un’edizione fondamentale, allestita dall’umanista Angelo Colocci, che vi premette una propria apologia del poeta e aggiunge alla fine la Vita del facundo poeta vulgare Seraphyno Aquilano. Al 1504 risalgono invece le Collettanee Grece Latine e Vulgari, allestite da Giovanni Filoteo Achillini e dedicate a Elisabetta Gonzaga. Si tratta di una straordinaria raccolta in cui si mescolano versi latini, greci e volgari (perfino in spagnolo) di ben 150 autori in onore del poeta appena scomparso. Tra i nomi più noti Niccolò da Correggio, Antonio Tebaldeo, Vincenzo Calmeta, Francesco Maria Molza, Panfilo Sasso, Antonio Fileremo Fregoso, Angelo Colocci, Marcello Filosseno, Bernardo Illicino, l’Achillini stesso, Diomede Guidalotti, Bernardo Accolti e Tommaso Castellani.
Il contesto europeo
Sul finire del XV secolo la letteratura degli altri Paesi europei non ha ancora conosciuto, se non in contesti particolarmente avanzati (come per esempio la Catalogna) e in cerchie ristrette, quel fenomeno che, nel corso del secolo successivo, diffonderà nelle principali corti europee una poesia sovrannazionale, basata su di un unico modello riconosciuto: il petrarchismo. Nel Quattrocento le diverse realtà nazionali procedono in maniera autonoma, nel solco delle rispettive tradizioni, e non è possibile individuare una poetica o un indirizzo comune.
In Spagna in questo periodo si svilluppa la lirica autoctona tradizionale, che prende il nome di cancioneril. Le sillogi, di impianto ancora medievale, raccolgono liriche organizzate per temi o per scuole poetiche, con una forte attenzione alla produzione locale. La tematica principale è quella amorosa, i metri più comuni l’ottosillabo e il decasillabo. I più illustri esponenti di questa lirica sono Juan de Mena e Jorge Manrique, autore delle famose Coplas a la muerte de su padre, quaranta strofe in coplas de pié quebrado (piede spezzato) che sviluppano una meditazione sulla morte.
In Francia a questo periodo risale l’opera di un poeta famosisissimo quale François Villon, la cui figura dai contorni romanzeschi è stata spesso assunta a modello di “poeta maledetto”. Villon vive una vita avventurosa, sempre inseguito dalla giustizia, e passa diversi anni della sua giovinezza in carcere. Poeta di grande rilevanza, innova profondamente le forme poetiche medievali, anche dal punto di vista linguistico. Scrive anche di amore e amicizia, ma le sue opere più famose, fortemente venate di angoscia e malinconia sono Le Grand Testament, poema di oltre 2000 versi diviso in stanze, e La ballata degli impiccati (Ballade des pendus).
Anche in Inghilterra il panorama poetico nella seconda metà del Quattrocento appare ancora profondamente legato alla tradizione medievale precedente, in particolare al modello di Geoffrey Chaucer e alla poesia allegorica. Si possono riconoscere tre filoni principali: la poesia cortese, quella satirica e gli scritti didattici, religiosi o moralistici. Tra gli esponenti principali di questa fase si segnala John Skelton, poeta laureato, traduttore ed autore di satire.