Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sul finire della prima metà del Cinquecento l’incontro con la tradizione toscana e romana del disegno scuote la coscienza artistica veneziana, che giunge a riconoscere la propria autonomia e grandezza creativa. Eredi e tuttavia affrancate dalla pittura tonale di Tiziano, ne manifestano la più alta espressione la "pittura scura" di Jacopo Tintoretto e quella "chiara" di Paolo Veronese.
La svolta del 1540 e l’apertura al manierismo
Nel corso del terzo e quarto decennio del secolo artisti formatisi in ambito toscano, emiliano e romano confluiscono a Venezia portando le innovazioni del linguaggio manierista e condizionando la produzione pittorica veneziana del secondo Cinquecento. Negli stessi anni si diffondono nella città lagunare le stampe di incisori veneti che permettono la circolazione delle opere di Michelangelo, Raffaello, Parmigianino e Giulio Romano, mentre il friulano Giovanni Antonio de’ Sacchis detto Pordenone si impone, in alternativa all’autorità artistica tizianesca, come precursore del linguaggio manierista.
La svolta decisiva per la pittura veneziana si registra nel 1540. L’anno precedente l’influente famiglia Grimani, da sempre filoromana, chiama Francesco Salviati e Giovanni da Udine a decorare il palazzo e la cappella di famiglia in San Francesco della Vigna. I due artisti contribuiscono sensibilmente alla diffusione del gusto pittorico romano nella città veneta, Salviati lavorando, tra l’altro, alla decorazione della Libreria Marciana progettata dal fiorentino Jacopo Sansovino secondo il rigoroso lessico architettonico del classicismo romano, e Giovanni da Udine operando secondo le conoscenze acquisite alla bottega di Raffaello e in ambito toscano. Nel 1541 è la volta di Giorgio Vasari, la cui formazione basata sul primo manierismo fiorentino e sugli esempi romani è messa al servizio di Pietro Aretino, a Venezia dal 1527, per l’allestimento della sua commedia, Talanta. In seguito Vasari sarà attivo a palazzo Corner-Spinelli, residenza della famiglia Corner, dove realizza un ciclo pittorico decorativo, precorrendo i grandiosi cicli mitologico-allegorici di Palazzo Ducale nella seconda metà del secolo.
Si è sostenuto che l’arrivo di Salviati e Vasari avrebbe provocato una "crisi manierista" in città, cosa che si può parzialmente riconoscere solo in pittori di minore levatura. Oggi si è portati a considerare piuttosto le importanti novità determinate dalla loro presenza a Venezia: certamente un interesse nuovo per le tendenze artistiche di Firenze e Roma favorisce il superamento dei modi giorgioneschi e l’assunzione di moduli più monumentali (come si osserva anche in Tiziano, che tra l’altro nel 1542 subentra a Vasari nella decorazione del soffitto di Santo Spirito in Isola), e, per confronto, conduce i veneziani ad acquistare consapevolezza dell’esistenza di una scuola pittorica autonoma in città. Non a caso, in questo periodo vengono pubblicati i primi scritti teorici sull’arte: il Dialogo di pittura di Paolo Pino (1548) e l’Aretino di Ludovico Dolce (1557), dove si elogiano il "colorito" e l’opera di Tiziano, usati soprattutto nel dialogo di Dolce come strumenti polemici contro Vasari, che nelle Vite (1550) trascura la scuola veneziana. Seppure Pino azzardi la messa in discussione dell’autorità delle regole prospettiche e proporzionali su cui poggia la tradizione fiorentina del disegno, la portata artistica dell’opera di Michelangelo resta indiscussa. A pari dignità viene però innalzata la pittura veneta dell’epoca: “Se Titiano e Michel Angelo fussero un corpo solo, over al disegno di Michel Angelo aggiontovi il colore di Titiano, se li potrebbe dir lo dio della Pittura” (Paolo Pino, Dialogo di pittura, 1548).
Tintoretto e Veronese, protagonisti del Cinquecento
Se si esclude Tiziano, in contatto con prestigiosi committenti spesso stranieri, la seconda metà del secolo è dominata da due artisti attivi a partire dal 1550 circa: Jacopo Robusti, detto Tintoretto, e Paolo Caliari, conosciuto come il Veronese. Entrambi lavorano per il governo e per istituzioni pubbliche che promuovono vaste imprese decorative, dividendosi in alcuni casi gli incarichi, come accade per le decorazioni di Palazzo Ducale dove il loro lavoro comune è indispensabile per riparare i danni prodotti dai due rovinosi incendi del 1574 e del 1577 e restituisce, in appena otto mesi, le pareti dei grandi ambienti devastati dal fuoco.
Alla drammatica forza espressiva di Tintoretto, portavoce della coscienza civile cristiana e interprete dell’incertezza morale che domina il nuovo tempo della Controriforma, si oppone la poetica equilibrata e serena di Veronese, che esprime nella sua opera l’alto grado di capacità intellettuale e civile della Venezia dell’epoca facendosi cantore della sua prosperità. Punto di contatto tra i due maestri, l’interesse per le ricerche luministiche, che conduce Tintoretto a soluzioni rappresentative concitate, con scene solcate da improvvisi bagliori a contrasto con l’ombra, e Veronese a opere di eccezionale luminosità, attraverso un diffuso chiarore delle figure immerse in sfondi limpidissimi.
La pittura drammatica e visionaria di Tintoretto
Tintoretto, la cui prima formazione avviene alla bottega di Tiziano intorno al 1533, non si allontana, agli esordi, dalla tradizione veneta del colore elaborata da Giovanni Bellini e da Giorgione. La sua fortuna giunge fra il 1547 e il 1548 con opere come la Lavanda dei piedi e il Miracolo dello schiavo liberato, in cui emerge la sua autonomia rispetto alla tradizione tonale veneta. Fondamentale, nel processo di affrancamento da questa tradizione e di maturazione artistica del pittore, è il contatto con la scuola del disegno fiorentino-romano, in particolare di Michelangelo, il cui linguaggio formale influisce fortemente nella definizione del suo stile.
Le due opere a tema sacro, l’una realizzata per il presbiterio di San Marcuola (oggi Madrid, Prado) e l’altra commissionata per la sala capitolare della Scuola Grande di San Marco (in loco), sono ambientate in fondali architettonici aulici che contribuiscono a dilatare lo spazio nel quale le figure o si affollano sul primo piano o si dispongono in modo imprevedibile. Nell’opera per San Marcuola l’effetto di dilatazione spaziale è ottenuto attraverso una disposizione "a raggio" dei personaggi e una sapiente alternanza tra zone luminose e altre in penombra. Violenti contrasti chiaroscurali dominano invece la scena della liberazione dello schiavo da parte di san Marco, concorrendo alla creazione di una soluzione scenica rivoluzionaria, con un’accorta ripartizione degli elementi figurativi e la diffusione di una luce irreale che contribuisce a trasmettere il senso del miracolo. Innovativa è la concitazione drammatica che trapela dall’opera e audacissimo lo scorcio del santo, a testa in giù e con il volto in ombra, mentre l’umile schiavo, nudo, viene collocato al centro dalla rappresentazione.
Nella fase successiva del percorso artistico di Tintoretto si registra un’importante evoluzione nell’uso della prospettiva, che, attraverso l’annullamento della proporzionalità, permette di giungere a una più potente rappresentazione dell’evento spirituale. La contrapposizione tra le figure enormi dei primi piani e quelle minutissime collocate nei piani più lontani conferisce infatti alle scene una forte modulazione ritmica, accentuata dall’utilizzo ripetitivo delle linee luministiche, e amplifica il carattere "visionario" delle rappresentazioni. Il medesimo effetto è ricercato anche attraverso una stesura rapida del colore, in un’esecuzione che prende forma contemporaneamente all’idea che la sostiene, nel tentativo di appuntare sulla tela un’immagine che assume i connotati della "rivelazione". Rientrano in questa fase i cicli di tele per la Scuola di San Marco – una delle più antiche e importanti confraternite della città lagunare – realizzati in due diversi momenti, tra il 1548 e il 1566, su commissione del "Guardian grande" della scuola, Tommaso Rangone. Dominato da una luce innaturale diffusa su tutto l’ambiente, Il ritrovamento del corpo di san Marco (1562-66) trasmette con forza la sensazione di un evento di portata miracolosa. Un abile uso della prospettiva, che dispone le linee dell’architettura secondo un unico punto di fuga, coperto dal gesto inatteso del santo che appare, contribuisce a creare l’effetto di estrema dinamicità che anima la scena.
Nei dipinti realizzati dal 1564 per la Scuola di San Rocco – l’opera della vita, alla quale si dedica a più riprese per vent’anni, a partire dal 1564 – il carattere visionario e fantastico si fonde con l’evento storico in una sintesi che sviscera il "fatto" e ne mette in luce il messaggio morale, pervenendo a una pittura di storia al tempo stesso estatica e spirituale. Realizzato per la sala dell’Albergo della Scuola, il Cristo davanti a Pilato (1564-1567) dispone degli effetti luministici e chiaroscurali con un risultato di sorprendente forza espressiva, in cui la figura di Cristo, entità luminosa, solenne e immobile di fronte al prefetto, si staglia sul fondo di ombre in cui sono immersi gli altri elementi. Nella sala inferiore, ultima parte del complesso decorativo realizzata negli anni 1583-1587, gli episodi della vita di Maria e dell’infanzia di Gesù sono dipinti in una gamma cromatica ridotta, con chiaroscuri profondamente accentuati, secondo una regia luministica che tiene conto delle fonti di luce dell’ambiente. I paesaggi assumono i connotati della rappresentazione fantastica, con figure immerse in uno spazio immenso a echeggiare la profondità emozionale delle scene narrate. Nella Santa Maria Egiziaca (1582-1587) il luminismo atmosferico che emerge dall’ombra notturna si diffonde su tutto il paesaggio, declinato in visione mistica: la natura perde la propria sostanza fisica facendosi manifestazione dello stato d’animo interiore di Maria.
Le ricerche luministiche e prospettiche che animano il percorso artistico del Tintoretto ritornano, amplificate, nell’Ultima Cena di San Giorgio Maggiore, realizzata tra il 1592 e il 1594 e considerata tra le opere più manieristiche della sua intera produzione. Lo scorcio trasversale che taglia il dipinto produce un forte effetto di accelerazione e profondità spaziale, mentre la luce, protagonista indiscussa dell’opera, rivela allo spettatore l’essenza mistica dell’evento.
Grazie alla sua capacità di dare forma al soprannaturale con la luce e il colore, nel secondo Cinquecento Tintoretto è il pittore che meglio di tutti risponde alle esigenze delle scuole, confraternite religiose che raccolgono gran parte della popolazione veneziana e sono attivissime committenti.
L’arte chiarissima di Veronese, pittore di luce
Non meno importanti a Venezia, negli anni in cui il concilio di Trento entra nella fase decisiva, sono le commissioni degli ordini religiosi, che impegnano il Veronese fin dagli esordi. Altri incarichi giungono all’artista grazie alle raccomandazioni dell’architetto Michele Sanmicheli, della cui protezione egli beneficia, tra cui quelli per Soranza (1551) e Palazzo Ducale (1553): la visione solare proposta da Veronese e la sua pittura luminosa e cangiante rispondono bene all’immagine di Repubblica Serenissima che i patrizi vogliono dare della città.
L’artista si afferma con il ciclo realizzato per le sale del Consiglio dei Dieci in Palazzo Ducale tra il 1553 e il 1554. Insieme a Giovanni Battista Zelotti, Veronese viene assunto come collaboratore di Giovanni Battista Ponchino, artista mediocre ma ben informato sulle recenti invenzioni manieristiche romane. Qui il giovane maestro dà sfoggio di un cromatismo a tinte fredde e chiarissime e di profili delineati con netta precisione, caratteri stilistici innovativi, estranei sia al tonalismo tizianesco che alle drammatiche invenzioni chiaroscurali di Tintoretto. Emblematica è la raffigurazione di Giunone che versa doni su Venezia, inserita nel soffitto a cassettoni della sala del Collegio, dove le due figure femminili sono ritratte in pose articolate e avvolte in una vivida luce diurna.
La conclusione dei lavori nelle sale dei Dieci coincide con l’inizio di un’altra lunga impresa decorativa: a partire dal 1555 Veronese viene chiamato dai gerolamini a decorare la sagrestia e la chiesa di San Sebastiano, a cui lavorerà a più riprese per oltre un ventennio. Il colore viene steso a campiture nette, colto nella massima purezza timbrica; la pittura è armoniosa, priva di incrinature, aulica nella rappresentazione degli episodi mitici, storici e religiosi, e preziosa, addirittura sontuosa nella resa dei materiali.
La preferenza riservata alle ambientazioni diurne impone al maestro un ripensamento dell’uso dei colori, per eludere il rischio di figure ridotte a profili in ombra stagliati su sfondi chiarissimi: la ricerca cromatica è risolta con l’accostamento di colori che, sfruttando la vicinanza reciproca e la vibrazione luminosa derivante, realizzano effetti di massima luce, con toni prossimi ai valori del bianco. Non a caso l’artista dispone nelle sue opere una vasta gamma di personaggi vestiti alla moda del tempo, con abiti che consentono di sfruttare le trame a righe o ad arabeschi per creare effetti di modulazione luminosa.
A quest’epoca Veronese appare già padrone di una propria originale cifra stilistica, impegnato a misurarsi con scorci arditi e impianti compositivi di grande dinamicità, ottenendo ampi riconoscimenti dai contemporanei. In particolare le tre grandi tele per il soffitto della chiesa, rappresentanti episodi della storia di Ester, sono considerate tra le opere maggiori della giovinezza dell’artista, dove figure di forte plasticismo si stagliano su sfondi monumentali in un’articolata partitura scenografica.
Negli affreschi della parte superiore della navata di San Sebastiano un ruolo primario spetta alle architetture dipinte, che, strutturate a mo’ di nicchia, alloggiano le pitture principali dedicate ai drammatici episodi finali della vita di san Sebastiano e organizzate secondo una complessa regia. Atto conclusivo dei lavori nella chiesa veneta, la Madonna in gloria con san Sebastiano e altri santi: realizzata tra il 1565 e il 1570, insieme ai due teleri laterali del presbiterio, è considerata una delle opere più alte dell’intera produzione pittorica del maestro per l’uso intenso del colore e l’originale composizione spaziale delle figure.
Contemporaneamente ai lavori in San Sebastiano, nel 1556 il pittore è impegnato, insieme ad altri sette artisti, nella decorazione del soffitto del salone maggiore della Biblioteca Marciana, la cui costruzione – tra il 1537 e il 1554 – è compresa nel progetto di riqualificazione dell’area voluta dal doge per rivalutare il centro politico e religioso della città. I dipinti sono incentrati sulla rappresentazione delle Arti liberali, simbolo e frutto del buon governo della Repubblica. La ricchezza coloristica dei tondi realizzati da Veronese, dettata in parte dalla necessità di dominare l’imponenza delle cornici intagliate e dorate dall’architetto del complesso, Jacopo Sansovino, esemplifica il "classicismo cromatico" che connoterà le grandi opere del maestro negli anni a venire. Le figure allegoriche inventate per gli ambienti di Palazzo Ducale trovano qui la loro naturale evoluzione nella personificazione di Virtù e Discipline, impaginate secondo scorci mirabili e composizioni accorte che ben si adattano agli spazi circolari dei tondi. Fondamentale nella poetica di Veronese, l’allegoria assume i connotati della visione che trae la propria veridicità dall’esperienza: le Virtù personificate dal pittore sono infatti reali, tutt’altro che sublimate, e rispecchiano la visione limpida e solare che caratterizza l’intera sua opera.
Intorno al 1561 Veronese realizza la decorazione della villa Barbaro a Maser, nel trevigiano, dove affreschi di straordinaria luminosità dialogano con gli spazi creati da Palladio. L’architetto ricerca un effetto di apertura spaziale e ariosità a cui Veronese contribuisce attraverso una pittura illusionistica che annulla i limiti fisici dello spazio architettonico, sfondando pareti e soffitti reali con finti paesaggi e cieli aperti. I più alti livelli lirici sono raggiunti da Veronese nell’ambiente centrale dell’edificio, la sala dell’Olimpo, dove una finta struttura architettonica con colonne corinzie e balaustre simula la profondità di una volta a botte. L’intensità luminosa dei dipinti varia in relazione ai differenti temi trattati, dando vita a figure che appaiono come in movimento, affacciate a finte porte semiaperte, inserite all’interno di architetture dipinte che offrono uno spettacolo vario e ritmato, in un impianto iconografico che vede congiunti allegoria, mitologia, ritratti, paesaggi e nature morte.
Capolavoro della maturità e sintesi della personalità dell’artista, La cena in casa di Levi (1573), in origine un’Ultima Cena, eseguita per il refettorio del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, è scenograficamente impostata su una quinta architettonica di ispirazione palladiana. Personaggi bizzarri e inattesi affollano la scena sacra, in virtù di quella ricerca di vibrazione coloristica e luminosa che caratterizza la pittura di Veronese fin dagli esordi, causandogli la condanna da parte del Tribunale dell’Inquisizione che ritiene l’opera sconveniente e blasfema. Esortato a “correggere et emendare” il dipinto, Veronese si limiterà a cambiarne il titolo, sostenendo che “Nui pittori si pigliamo licenza, che si pigliano i poeti e i matti” (Gino Fogolari, Il processo dell’Inquisizione a Paolo Veronese, "Archivio Veneto", 1934).