La pittura funeraria a Tarquinia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La città di Tarquinia, nell’Etruria meridionale, è quella che ha restituito le testimonianze più abbondanti ed artisticamente rilevanti della pittura funeraria etrusca. Sulle pareti delle tombe a camera tarquiniesi, che costituiscono una vera e propria “pinacoteca sotterranea”, si dispiega un ricco e vivace repertorio di immagini, testimonianze preziose delle credenze, dei valori, delle aspirazioni e dei modelli di vita alla base della società etrusca.
Alcune delle immagini più familiari e rappresentative dell’arte etrusca sono figure ed episodi tratti da quella sorta di “pinacoteca sotterranea” che le tombe ipogee dell’Etruria meridionale hanno restituito. La pittura funeraria etrusca costituisce un patrimonio straordinario: un archivio di preziose informazioni sulla vita, le aspirazioni, i valori, la religione e la cultura delle famiglie aristocratiche, che ne affidavano la rappresentazione a pittori e decoratori (spesso di origine greca o orientale) sulle pareti delle loro estreme dimore; ma costituisce anche una fonte di dati di grande interesse sulle tecniche della pittura antica e sulla circolazione di modelli, di innovazioni stilistiche, iconografiche e tecniche, di artisti e artigiani, in definitiva sulle modalità con cui l’arte pittorica si diffondeva, si riproduceva e si rinnovava nel mondo antico. È sufficiente mettere a confronto la ricchezza e l’eterogeneità della pittura funeraria etrusca con la desolante, irrimediabile perdita della pittura greca, sia d’affresco che di cavalletto, per cogliere appieno l’unicità di questo patrimonio.
Le pitture funerarie etrusche rappresentano per noi, di fatto, gli inizi della pittura murale e monumentale europea, e costituiscono il più grande complesso di pittura murale antica di epoca preromana nell’intero bacino del Mediterraneo. È l’ideologia funeraria etrusca, che assimila l’estrema dimora del defunto all’abitazione dei vivi, a popolare le pareti delle tombe ipogee, scavate nelle rocce che costituiscono il peculiare profilo geologico delle città dell’Etruria meridionale, con scene di banchetto, di giochi, di danze, di fiere spaventose, di orribili demoni, di episodi mitici. Si tratta dunque di una documentazione in certo senso “secondaria”, in quanto imitativa delle decorazioni presenti all’interno delle dimore aristocratiche.
Delle pitture che è ragionevole immaginare nelle abitazioni private gentilizie e in edifici pubblici, sia sacri che civili (e per le quali è possibile citare la testimonianza di Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXV, 17, relativa a “pitture antichissime” su ruderi di edifici sacri a Cerveteri, ma anche nelle città latine di Ardea e Lanuvio) ben poco rimane, a causa della deperibilità delle strutture (realizzate in legno, in mattoni crudi o in opus craticium) che le ospitavano: la poco numerosa, ma assai significativa, documentazione della pittura nella “città dei vivi” è limitata a lastre di terracotta ingubbiata, destinate ad essere montate in serie sulle pareti in modo da costituire dei fregi continui. Cerveteri ha restituito alcune serie di lastre in terracotta ingubbiate e dipinte con scene mitologiche (tra cui Perseo e la Gorgone e il giudizio di Paride) e rituali, databili tra il 570 e il 530 a.C. e pertinenti sia ad edifici sacri della città che ad alcune tombe: il che dimostra il continuo flusso di modelli decorativi tra l’ambito civile, sia pubblico che privato, e quello funerario.
Fondamentale è anche la continuità che si riscontra nell’arte etrusca tra pittura “monumentale” e ceramografia: in molti casi è possibile attribuire a maestri, la cui “mano” è nota nell’ambito della produzione della ceramica dipinta, o quanto meno alle loro scuole, la realizzazione di pitture funerarie; così come è possibile riscontrare la circolazione degli stessi maestri nelle varie città dell’Etruria, nelle quali evidentemente si spostavano a seconda delle richieste dei committenti. Del resto, nonostante la relativa abbondanza di pitture sepolcrali, si tratta pur sempre dell’espressione della volontà autorappresentativa di una ristretta minoranza aristocratica: delle oltre 6000 tombe note nella necropoli dei Monterozzi di Tarquinia, per esempio, solo il 2,5 percento presenta una decorazione pittorica figurata, e si arriva al 4 percento calcolando anche quelle tombe che presentano soltanto una decorazione strutturale, ovvero l’imitazione o l’esaltazione dipinta di elementi architettonici all’interno della camera funeraria. E tuttavia queste tombe dipinte tarquiniesi costituiscono circa l’80 percento del totale a noi noto, 140 su un complesso di circa 180 tombe dipinte: le altre si distribuiscono in varie località dell’Etruria centro-meridionale (Chiusi, Cerveteri, Vulci, Orvieto, Veio, Blera, Sarteano, Magliano in Toscana, Populonia, Bomarzo, Cosa, Grotte Santo Stefano, Orte, San Giuliano e Tuscania).
La particolare fioritura della pittura funeraria a Tarquinia, che raggiunge l’acme in età tardoarcaica, tra il 530 e il 490 a.C. (epoca in cui risulta realizzato un terzo delle pitture murali tarquiniesi), è certo parzialmente connessa alle caratteristiche geologiche della città: la roccia calcarea (macco) in cui sono scavate le tombe a camera è difficile da lavorare, e non consente la realizzazione di arredi scolpiti dello stesso livello di raffinatezza e varietà di quelli che caratterizzano i sepolcri ipogei di Cerveteri, scavati nel più lavorabile tufo. Il dato geologico non è però sufficiente a dare ragione di questa straordinaria fioritura dell’arte pittorica: occorre aggiungere che Tarquinia esercita a lungo un ruolo egemone all’interno del mondo etrusco, che è una città prospera, con diverse famiglie aristocratiche in competizione tra loro, e che attraverso il proprio porto di Gravisca gode di una particolare apertura verso il mondo greco e orientale. A Gravisca, probabilmente, arrivano dalla Ionia molti di quegli artisti allontanatisi dalle loro terre soprattutto in seguito all’occupazione persiana, e responsabili di quella diffusione in Occidente dello stile ionico, che per ampiezza e durata è stata paragonata a quella del gotico internazionale. La pittura funeraria etrusca si sviluppa in un ampio arco cronologico, che dal secondo quarto del VII secolo a.C. arriva fino agli anni di passaggio tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C.: naturalmente, questo lungo percorso è punteggiato di cambiamenti ed innovazioni di carattere tecnico, stilistico e iconografico, e molte, e diverse tra loro, sono le suggestioni e le influenze che arrivano dalle varie aree culturali del mondo greco, spesso insieme con gli artisti o con i prodotti di alto artigianato massicciamente tesaurizzati in Etruria da una classe dominante desiderosa di ostentare le proprie possibilità economiche e i propri rapporti, commerciali, culturali e personali, con la Grecia innanzitutto, ma anche con altre aree del bacino del Mediterraneo.
Non è però a Tarquinia che si conservano le prime testimonianze di pittura funeraria etrusca a noi note, bensì a Veio e a Cerveteri, città collegate tra loro nell’ambito della produzione artistica, e aperte, fin dagli inizi del VII secolo a.C., a relazioni commerciali e culturali con la Grecia e con l’Oriente.
La Tomba delle Anatre a Veio, databile al secondo quarto del VII secolo a.C., presenta un fregio animalistico con una teoria di anatre: un motivo che torna di frequente nella ceramica subgeometrica prodotta per tutto il VII secolo a.C. in diverse botteghe dell’Etruria meridionale e che ha probabilmente un significato funerario, alludendo alle creature che vivono nella fascia liminare tra il mondo dei vivi e l’aldilà. A Cerveteri, la pittura muraria viene all’inizio impiegata per sottolineare gli elementi architettonici scolpiti nel tufo in cui sono scavate le tombe, dando così inizio ad una “moda” strutturale che avrà una buona fortuna in diversi centri dell’Etruria meridionale: sono circa un centinaio le tombe note con questo tipo di decorazione pittorica.
Ben presto a Cerveteri si iniziano a inserire nella partitura strutturale delle pareti delle fasce con fregi di animali, in alcuni casi includenti anche figure umane: è questo il caso della Tomba degli Animali dipinti e di quella dei Leoni dipinti, nella cui scena principale un uomo, il “signore degli animali” (motivo iconografico di origine orientale) afferra le criniere di due leoni affrontati, in segno di vittoria sulla morte. Anche queste pitture presentano delle affinità con la ceramografia contemporanea, riproponendo la cifra stilistica e il repertorio del bestiario orientalizzante, popolato di fiere, reali e fantastiche, e di creature ibride che simboleggiano il passaggio, ambiguo e delicato, tra la vita e la morte. Anche il capolavoro dello stile orientalizzante nella pittura funeraria si trova a Veio, e si data tra il 620 e il 610 a.C.: sulla parete divisoria tra le due camere sepolcrali della Tomba Campana si dispiega il corteo di giovinetti a piedi e di cavalieri che accompagna il defunto verso l’aldilà, mentre nella fascia sottostante incedono sfingi, leoni ed altre creature. Agli stessi anni risale la prima tomba con pitture figurative rinvenuta a Tarquinia: si tratta della Tomba delle Pantere, così chiamata per la presenza di due felini raffigurati ai lati della porta di ingresso, mentre altri due, in posizione araldica, riempiono il triangolo frontonale (formato sulla parete frontale dal tetto a doppio spiovente) posando le zampe sulla testa di un’altra pantera, accosciata e coronata di bende. La resa peculiare del pelame delle fiere trova riscontri nella ceramografia di questi stessi anni.
Il motivo delle fiere in posizione araldica a riempire il timpano della camera sepolcrale continuerà ad essere apprezzato e riprodotto per almeno un secolo (con risultati di notevole qualità compositiva, come nella Tomba dei Leoni di giada, databile intorno al 530 a.C.), forse per una committenza tradizionalista, le cui scelte conservatrici in campo artistico si sottraggono a quella ventata di novità introdotta a Tarquinia dagli artisti ionici nell’ultimo quarantennio del VI secolo a.C., che rivoluzionerà l’aspetto delle camere funerarie tarquiniesi con l’introduzione di nuovi temi narrativi e nuovi motivi decorativi, sorretti da una tecnica pittorica più evoluta ed efficace.
È l’intensa circolazione degli artigiani e l’osmosi tra pittori di tombe e ceramografi a spiegare le tendenze sperimentali e le oscillazioni stilistiche leggibili nelle pitture funerarie tarquiniesi di questi anni. Ad un maestro ceramografo attivo intorno al 540 a.C. in una bottega che produce vasi di quella classe ceramica convenzionalmente definita “pontica”, dobbiamo l’unico affresco funerario di soggetto mitologico greco noto a Tarquinia prima del IV secolo a.C.: costretta tra due porte su un settore della parete frontale della Tomba dei Tori, la scena dell’agguato di Achille, nascosto dietro una fontana, al giovane principe troiano Troilo è vivace ma sovraccarica e mostra un certo disagio del pittore nell’affrontare il modulo monumentale e un tema complesso dal punto di vista compositivo, scelto dai committenti forse per celebrare l’eroizzazione di un giovane membro defunto della gens.
Assai più disinvolto il pittore che affresca la Tomba degli Auguri, nella quale il tema della finta porta (già presente in una delle prime tombe affrescate di Tarquinia, la Tomba della Capanna, della fine del VII secolo a.C.) esplicita la propria valenza di “porta dell’inferno” attraverso i gesti del compianto funebre dei personaggi ammantati che la fiancheggiano, mentre sulle pareti si dispiegano i giochi funebri in onore del defunto: inquietante la figura del Phersu, il personaggio mascherato che tiene al guinzaglio un uomo incappucciato assalito alle gambe da un feroce cane molosso, in cui si è voluto vedere un’anticipazione dei ludi gladiatori (che la tradizione antica riteneva di origine etrusca), a loro volta probabile attenuazione dei sacrifici umani che in molte culture primitive accompagnavano la morte di personaggi illustri. Gli affreschi di questa tomba sono da attribuirsi ad un maestro verosimilmente immigrato dalla Ionia, iniziatore di una vera e propria scuola alla quale è possibile attribuire diverse altre tombe tarquiniesi, tra cui quella dei Giocolieri, nella quale il tema dei giochi e delle danze funebri è ripreso con minor rigore e grandiosità, ma con una considerevole attenzione per l’eleganza disegnativa. In questi stessi anni assistiamo all’introduzione, nel repertorio dei soggetti della pittura funeraria tarquiniese, del tema del simposio, destinato a diventare uno dei motivi più frequenti nel corso del V secolo a.C., in quanto elemento chiave dell’ideologia celebrativa dell’aristocrazia etrusca. In alcuni casi il simposio è limitato alla coppia coniugale, con una delicata sfumatura erotica, come nella celebre Tomba della Caccia e della Pesca (530 a.C. circa), in cui il tema è costretto nel triangolo del timpano, al di sotto del quale la parete si apre su un arioso paesaggio marino, popolato di pesci e di uccelli, dove l’uomo svolge un ruolo da comprimario: qui l’elemento funerario più forte è da riconoscere nella figuretta del tuffatore, forse lo stesso defunto, raffigurato simbolicamente nel momento della transizione dalla vita al regno dei morti.
Rare sono, nella pittura funeraria etrusca, le scene di esposizione (prothesis) e di compianto del defunto (uno dei pochi esempi noti è quello della Tomba del Morto, databile intorno al 510 a.C.), così caratteristiche dell’iconografia funeraria in Grecia già dall’età geometrica: talvolta è piuttosto la tomba stessa a imitare la struttura di un padiglione per l’esposizione del defunto, come quella del Cacciatore, in cui il soffitto riproduce la policroma tessitura di un pesante drappo ricamato, da cui pendono cappelli da caccia e prede, mentre le pareti simulano audacemente le trasparenze di tende sottili, dietro alle quali l’ombra di un cervo pascente allude forse alle battute di caccia oltremondane che attendono il morto. Sommo capolavoro della pittura funeraria tarquiniese di età arcaica è la Tomba del Barone, nella quale la sobria commozione del commiato della defunta da un uomo, che le porge una coppa, e un ragazzo, è resa con un disegno raffinato e un cromatismo sfumato; essa sembra trovare conclusione la vivace policromia e il dinamismo compositivo che caratterizzano la pittura arcaica, nella ricerca di un nuovo equilibrio che in parte risente delle istanze dell’arte severa in Grecia.
Dominano le pareti delle tombe tarquiniesi del V secolo a.C., in modo quasi ossessivo, tre temi: la caccia, il simposio e i giochi funebri, che rivelano la sostanziale adesione degli aristocratici etruschi ai valori e ai modelli degli aristoi greci, lasciando sempre meno spazio ai motivi apotropaici tradizionali, come quello delle fiere affrontate in posizione araldica. Gli eventi bellici che sconvolgono l’assetto politico del Mediterraneo nel primo quarto del secolo, dalle guerre persiane fino alla sconfitta subita nel 474 a.C. dagli Etruschi nelle acque di Cuma ad opera dei siracusani di Ierone (tiranno di Siracusa dal 478 al 466 a.C.) limitano gli scambi culturali con la Grecia dell’Etruria tirrenica, dove spesso si continuano a seguire gli indirizzi artistici già acquisiti.
Stimoli nuovi giungono però in Etruria con l’importazione di ceramiche a figure rosse, le cui sperimentazioni formali nel disegno, in particolare per lo scorcio delle figure, trovano eco nei pittori di tombe più sensibili, come il decoratore della Tomba delle Bighe (490-480 a.C.), che risente certo della grande lezione del Pittore di Kleophrades. Il tema del simposio, ampliato a coinvolgere gli antenati della famiglia, nonché servi affaccendati, musicisti e danzatori, trova le migliori interpretazioni nella Tomba del Triclinio (470 a.C.) e in quella della Scrofa Nera (460 a.C.): assai noti i coevi affreschi della Tomba dei Leopardi, dalla vivace policromia, opera di un artista più corsivo, ma dotato di grande scioltezza nel disegno e di immediatezza espressiva. Nella seconda metà del secolo il numero delle tombe dipinte a Tarquinia diminuisce sensibilmente: a questa fase è probabilmente da attribuirsi un documento di grande interesse, scoperto in anni recenti, che rivela l’introduzione di nuovi temi e di una nuova concezione della tomba, introduzione gravida di conseguenze per gli sviluppi della pittura del IV secolo a.C. e dell’età ellenistica. La Tomba dei Demoni Azzurri deve il proprio nome alle due mostruose creature infernali che scortano la defunta verso la barca di Caronte; ed è proprio la raffigurazione degli inferi, e dei demoni che li popolano, a costituire la novità più importante nella pittura funeraria di questo periodo.
Negli ultimi due secoli di sviluppo della pittura funeraria a Tarquinia le pareti delle tombe accolgono la raffigurazione di demoni e di mostri ibridi, che sfruttano le ricerche della grande pittura greca nell’ambito del chiaroscuro e del colore tonale per mostrarsi in tutta la loro terribilità: è sufficiente ricordare il Charun armato di martello e la Vanth munita di fiaccola che fiancheggiano, in agguato, la porta di ingresso della Tomba degli Anina (250 a.C. ca.) o il demone anguipede che dà nome alla Tomba del Tifone, del quale la potenza è resa con una sapiente tecnica cromatica.
I demoni si inseriscono anche nel motivo tradizionale del banchetto (segnalandone l’ambientazione nell’aldilà) come nella Tomba dell’Orco I (380-350 a.C.), celebre per il raffinato ritratto di profilo della moglie del defunto, Velia, “la fanciulla/bellissima dei Velcha” celebrata in un verso del poeta Vincenzo Cardarelli, tarquiniese di origine. Nell’ampliamento della stessa tomba, di un cinquantennio successivo, che prende il nome di Tomba dell’Orco II, è simulata una discesa agli inferi, in cui Tiresia, Agamennone, Gerione accolgono il defunto, in un paesaggio sfumato ed inquietante percorso da animulae levitanti, in attesa di una nuova reincarnazione, come propongono gli studiosi che hanno letto in questo affresco una riflesso della diffusione in Etruria del neopitagorismo. Il tema del passaggio trova delle nuove modalità espressive in una società in trasformazione, percorsa da inquietudini e da un senso di declino; e anche la tematica della celebrazione del prestigio e del potere cerca nuove, più potenti forme rappresentative, ben esemplificate nei cortei magistratuali, comprensivi di littori e di suonatori, che accompagnano il defunto nel suo ultimo viaggio, a celebrare il suo ruolo politico e le glorie della famiglia di appartenenza, come nella Tomba del Convegno (250 a.C. ca.) o nella più antica Tomba Bruschi.
Celebrano le glorie familiari anche i fregi d’armi, gli scudi raffigurati appesi alle pareti e che recano, come nella Tomba Giglioli (375-300 a.C. ca.), elementi figurativi tratti dalla monetazione tarquiniese coeva, a celebrare l’introduzione, forse proprio per iniziativa del capostipite della famiglia, dell’uso della moneta a Tarquinia; mentre dettagliati epitaffi (che in certi casi costituiscono l’unica decorazione delle pareti delle camere sepolcrali) ripercorrono il cursus honorum del defunto.
All’intento celebrativo degli ideali gentilizi e della tradizione di indipendenza politica delle città etrusche è da ricondurre il ciclo pittorico etrusco più celebre, quello della Tomba François di Vulci (330-320 a.C.) nel quale le imprese eroiche contro Etruschi e Romani dei fratelli vulcenti Vibenna e di Mastarna-Servio Tullio sono messe in parallelo ad episodi del ciclo omerico e del ciclo tebano. Nell’insistenza del tema celebrativo delle imprese e del prestigio delle famiglie aristocratiche etrusche si legge tutta l’inquietudine, tutta la fatica di questa fase difficile, che condurrà alla fine dell’indipendenza etrusca e all’egemonia di Roma: ma vi si coglie anche il profondo rapporto che lega l’arte romana repubblicana nelle sue manifestazioni più tipiche, il rilievo storico e il ritratto, all’eredità dell’arte dell’Etruria.
Le prime testimonianze della pittura parietale in Etruria presentano una tecnica piuttosto elementare, che consiste nella stesura diretta del colore sulle pareti tufacee, talvolta levigate a pietra e prive di un preliminare rivestimento di intonaco che avrebbe consentito una migliore penetrazione dei pigmenti. Il disegno preparatorio è tracciato con linee incise o dipinte; la tavolozza consiste di pigmenti naturali nei toni del giallo e del rosso (ottenuti da ossidi e idrossidi di ferro), del bianco (calce o caolino) e del nero (ricavato da ossa combuste o dal carbone).
La tecnica pittorica si evolve in Etruria nel corso dell’età arcaica, grazie alle competenze dei pittori di origine greco-orientale, che arricchiscono la tavolozza con l’introduzione del verde e dell’azzurro (unico colore di origine non naturale, ricavato da un composto artificiale, la “fritta” egiziana) e che introducono l’abitudine di preparare la parete che accoglierà la decorazione con uno strato di intonaco spesso da uno a tre millimetri, realizzato con un composto di argilla finissima e della polvere della roccia in cui è scavata la camera funeraria (nel caso di Tarquinia, il già citato macco). Su questo intonaco la stesura di uno scialbo sottile di calce costituisce lo sfondo chiaro su cui si dispone la decorazione e su cui si realizza il disegno preparatorio, generalmente inciso con uno strumento a punta. L’intonaco, talvolta addizionato di sostanze atte a rallentarne l’essiccazione (torba, elementi vegetali) forma con lo scialbo a calce una pellicola di carbonato di calcio che fissa i colori, rendendoli più resistenti. Una tecnica più raffinata verrà impiegata a partire dal IV secolo a.C. allo scopo di conferire maggior consistenza plastica alle figure; nelle tombe più recenti le decorazioni pittoriche sono supportate dalla stesura preliminare di un intonaco ben più spesso, realizzato da tre strati sovrapposti: una preparazione di tufo pozzolanico, un arriccio formato da un composto di sabbia silicea e calce e uno strato superiore di calce carbonata con inclusi di colore e sabbia.