La nuova disciplina del cosiddetto caporalato
Introdotta nel 2011, la disciplina dell’intermediazione illecita (cosiddetto caporalato) e dello sfruttamento del lavoro ha ricevuto scarsa applicazione, fino alla sua recente riforma (attuata ex lege 29.10.2016, n. 199). Poi, le modifiche apportate all’art. 603 bis c.p., e l’introduzione di tre norme complementari (che attengono alle circostanze, alle misure di sicurezza ed alle pene accessorie), hanno implicato un forte impulso alle indagini ed all’instaurazione di procedimenti, soprattutto nel campo del lavoro agricolo. Emergono dunque questioni interpretative, che il presente contributo passa analiticamente in rassegna, trattando, in generale, dei profili più significativi della (nuova) disciplina.
L’originario art. 603 bis c.p. aveva avuto applicazioni men che sporadiche, principalmente (si ritiene) per la problematica fattura tecnica. Con la l. 29.10.2016 n. 199 si è inteso por rimedio proprio alle criticità del precedente sistema1.
Le modifiche principali possono essere così schematizzate:
a) suddivisione del reato originariamente unitario in più fattispecie distinte, diverse per condotta tipica e soggetti attivi: l’art. 603 bis contiene ora, dunque, più disposizioni, cui corrispondono diverse fattispecie di reato, oltre che circostanziali;
b) correlativamente, quale principale novità tecnica e “politica”, introduzione di un’apposita fattispecie il cui soggetto attivo è direttamente il datore di lavoro della persona sottoposta a condizioni di sfruttamento;
c) parziale modifica del contenuto dei cd. indici di sfruttamento, costituenti un complesso di elementi comuni a tutte le nuove fattispecie;
d) inserimento fra i reati che possono dar luogo alla responsabilità degli enti collettivi ai sensi del d. lgs. 8.6.2001, n. 231;
e) previsione in varie forme della confisca obbligatoria (di cose, di valore, cd. allargata): nuovo art. 603 bis.2 c.p., introdotto dall’art. 2 l. n. 199/2016, e art. 5 della stessa legge;
f) previsione dell’innovativo istituto del controllo giudiziario (art. 3 l. n. 199/2016);
g) previsione di una speciale circostanza attenuante per la collaborazione processuale (nuovo art. 603 bis.1 c.p., anch’esso introdotto dall’art. 2 cit.);
h) inserimento fra i reati costituenti presupposto per misure di protezione “antitratta” (cioè previste in origine per le vittime di tale tipo di reati): art. 7 l. n. 199/2016;
i) potenziamento della disciplina extrapenale, specialmente in materia di lavoro agricolo e lavori stagionali in generale, con particolare riferimento ai requisiti per aderire alla rete del lavoro agricolo di qualità, ai compiti di questa, nonché alla previsione di un piano di interventi che contempli sia «misure per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori», anche attraverso il coinvolgimento di una serie di attori istituzionali, sia «idonee forme di collaborazione … anche ai fini della realizzazione di modalità sperimentali di collocamento agricolo modulate a livello territoriale» (artt. 8 e 9 l. n. 199/2016) – per quanto il tutto debba esser realizzato sotto la costrizione della cd. clausola di invarianza finanziaria (art. 11 l. n. 199/2016).
La disposizione di legge che modifica la norma penale incriminatrice, infine, è accompagnata da ulteriori importanti, innovative (e problematiche) previsioni, sia di diritto penale sostanziale, sia di diritto processuale, alle quali potranno essere qui dedicati soltanto brevi cenni.
Quanto alla fattispecie di intermediazione (603 bis, primo comma, n. 1), la relativa condotta consiste nel fatto di chi «recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi», sempreché il lavoro sia prestato «in condizioni di sfruttamento» e ricorra la nota modale dell’approfittare di uno «stato di bisogno». Rispetto alla formulazione previgente, è stato eliminato il riferimento, da un lato, al carattere necessariamente organizzato dell’attività, dall’altro, ai requisiti di violenza, minaccia ed intimidazione, che confluiscono ora in una disposizione autonoma, che sarà presa in considerazione più avanti (2.3). Scompare pure la menzione dello stato di necessità, che aveva suscitato interrogativi sulla sua distinzione rispetto allo stato di bisogno (il quale, a sua volta, suscita perplessità di carattere generale, piuttosto che tecnico-penalistico)2. L’attuale fattispecie è dunque complessivamente più ampia della precedente, potendo colpire attività anche non organizzate in modo sistematico e non qualificate da violenza, minaccia ecc.; il disvalore ruota ora, pertanto, esclusivamente intorno a due elementi, che devono essere analizzati separatamente. Del tutto nuova è la fattispecie del n. 2.
Il comportamento dell’agente dev’essere mirato a destinare la manodopera reclutata al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento.
La formula legale è intrinsecamente problematica: lo scopo non soltanto di avviare al lavoro, ma ad un lavoro tale che la singola specifica persona, mediante tale avviamento, sia sottoposta alle condizioni predette, senza che queste si realizzino effettivamente, non è concretamente pensabile o presupporrebbe sempre la realizzazione della diversa fattispecie commessa dal datore.
A ben vedere, la disposizione postula l’esistenza, all’atto della condotta, di «condizioni» di sfruttamento, non necessariamente determinate da chi recluta né riferibili al singolo lavoratore, ma necessariamente presenti come elemento “di contesto” affinché lo stesso scopo sia psicologicamente configurabile. Non è sufficiente ad integrare il reato un reclutamento irregolare; ma neppure lo potrebbe integrare la condotta di chi recluta senza rappresentarsi le condizioni di sfruttamento; tuttavia, l’autore in tanto se le può rappresentare in quanto siano già esistenti come elementi di contesto del fatto addebitato. Le condizioni di sfruttamento, insomma, devono esistere al momento della condotta per la stessa pensabilità dello scopo, dunque come presupposto di essa o come circostanza ad essa concomitante, e non soltanto come proiezione psicologica. Queste condizioni devono essere oggetto di specifica, autonoma prova. Infine, lo sfruttamento (sia per questa, che per la seconda fattispecie) non è definito direttamente ma – come accadeva nella precedente versione – mediante l’elencazione di indici, secondo una tecnica legislativa problematica ma ormai ben attestata nella realtà giuridica anche internazionale, come subito è stato rilevato3. Ad essi saranno dedicate apposite considerazioni (2.3 e 3.1). Quanto all’approfittare dello stato di bisogno: l’espressione, nel comune senso del lessico, significa trarre vantaggio, profitto, sostanzialmente abusare. In realtà, perché questo elemento, che può essere in sé tautologico (qualunque soggetto che offre forza lavoro ha bisogno di lavorare)4, abbia un plausibile autonomo significato, non può essere scollegato dalle stesse condizioni di sfruttamento. In stato di bisogno è bensì il soggetto che si induce ad accettare condizioni di lavoro qualificate da sfruttamento; ma, specularmente, approfittare significa consapevolmente (reclutare e) prospettare condizioni di lavoro in termini di sfruttamento ad un soggetto del quale si conosce la situazione di alternativa bloccata fra accettare quelle condizioni e non lavorare e dunque trovarsi in «stato di bisogno». In questa prospettiva ermeneutica, che eviterebbe di ritenere del tutto superfluo l’elemento in esame, il riferimento allo stato di bisogno di cui si debba propriamente approfittare sembra suscettibile di ridurre – in astratto – l’ambito applicativo della fattispecie. Chi infatti si limiti a reclutare soggetti rispetto ai quali non abbia la consapevolezza delle condizioni di “alternativa bloccata” tra lavorare sfruttati e non lavorare, non sarebbe punibile per difetto di dolo. V’è da dire peraltro che, in concreto, da quest’acribìa nella delimitazione esegetica non dovrebbero affatto derivare vuoti di tutela, tenuto conto delle realtà di vita alle quali la fattispecie è destinata ad applicarsi ed è sinora stata in effetti applicata.
La seconda ipotesi criminosa, di sfruttamento diretto da parte del datore di lavoro, concerne il fatto di chiunque «utilizza, assume o impiega manodopera», quando queste condotte, in sé neutre, sono commesse «sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno». Si tratta dell’innovazione probabilmente centrale e più “politicamente” qualificante dell’intera riforma, perché comporta la responsabilità diretta del datore di lavoro che invece, secondo un’interpretazione invalsa fra i commentatori5 (più che nella pratica, troppo sporadica per essere registrata con una consistenza sufficientemente significativa), era escluso dalla precedente fattispecie (per quanto in dottrina fosse stata suggerita una diversa opinione)6. Anche in questo caso, come per la fattispecie di reclutamento, il disvalore espresso dalla fattispecie ruota intorno alle condizioni di sfruttamento (non evento del reato ma nota modale della condotta che ne qualifica il disvalore) ed all’approfittamento dello stato di bisogno.
A séguito della riforma, quelli che prima erano elementi costitutivi indefettibili del reato di intermediazione illecita diventano elementi qualificanti di un’ipotesi autonoma aggravata (pena da 5 a 8 anni e multa) concernente sia l’intermediatore sia il datore di lavoro, scorporata dalle rispettive ipotesi-base (con l’eliminazione opportuna dell’intimidazione)7 ma la cui natura giuridica è discussa.
Come si è già accennato, le condizioni di sfruttamento – e prima ancora la condotta di “sottoposizione” ad esse – non sono definite in termini, per così dire, tradizionali; il legislatore ha mantenuto il ricorso ad una tipizzazione processuale, appunto mediante «indici di sfruttamento», la sussistenza anche d’uno solo dei quali può integrare il reato (terzo comma, nn. da 1 a 4). Concetto e natura di essi costituiscono il tema interpretativo più complesso e controverso della fattispecie, sin da prima della riforma (su ciò infra, 3.1). Alcuni di questi indici sono stati parzialmente modificati per tener conto dei rilievi che ne sottolineavano difficoltà interpretative. Così è per la sostituzione dell’aggettivo «sistematica» con il termine «reiterata», sia a proposito della corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti o comunque sproporzionato alla qualità e quantità del lavoro (n. 1), sia a proposito della violazione della normativa sull’orario di lavoro, sui periodi di riposo (non soltanto settimanale, come era in precedenza), su aspettativa e ferie (n. 2). Così è anche per l’eliminazione dell’incomprensibile avverbio che qualificava le situazioni alloggiative come «particolarmente» degradanti (n. 4). Quanto ai contratti che costituiscono il parametro della retribuzione, sono stati aggiunti ai contratti nazionali anche quelli territoriali, purché stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale (per comprensibili ragioni di tutela dei lavoratori, maggiormente garantita da tali sindacati). Particolarmente controversa, e sùbito contestata dalle parti sociali, è la modifica dell’indice di sfruttamento del n. 3, dalla cui versione originaria è stato eliminato il riferimento al fatto che la violazione di norme antinfortunistiche debba essere «tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale» (infra, 3.1).
La legge colma una delle principali lacune che erano state segnalate sotto la previgente disciplina, stabilendo che anche l’articolo 603 bis c.p. dà luogo a responsabilità dell’ente collettivo. La modifica è del tutto coerente, del resto, con l’introduzione della responsabilità del datore di lavoro individuale. Tuttavia, anche per effetto di questa innovazione, si producono discrepanze circa i presupposti applicativi delle misure del sequestro e successiva amministrazione giudiziaria, che risultano più laschi (e dunque più invasiva la misura) per l’imprenditore individuale rispetto all’impresa esercitata in forma societaria. Su questo punto non è possibile fornire ulteriori dettagli8; ma si deve avvertire almeno che si tratta di una disparità di trattamento cui sarà necessario por rimedio. Degna di particolare menzione è poi la previsione di una circostanza attenuante (art. 603 bis.1 c.p., introdotto dall’art. 2 della l. n. 199/2016) in virtù della quale la pena è diminuita da un terzo a due terzi nei confronti di chi, «nel rendere dichiarazioni su quanto a sua conoscenza», si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori; oppure aiuta concretamente l’autorità nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti; oppure infine aiuta concretamente l’autorità nella raccolta di prove decisive per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite (quest’ultimo è termine poco comprensibile, peraltro, in questo contesto). Come è stato lucidamente osservato, nulla di nuovo sotto il sole9: un sistema che si affida alla delazione confezionando siffatte diminuenti con irritante scrupolo tecnico-giuridico, per fenomeni che sono ampiamente visibili sol che li si voglia vedere, dichiara esplicitamente la propria bancarotta. La previsione generalizzata della confisca è aspetto fra i più qualificanti delle scelte sanzionatorie, coerentemente con l’indirizzo politicocriminale consolidato anche in ambito sovranazionale ed internazionale. Essa è utilizzata in tutte le sue forme (artt. 2 e 5 l. n. 199/2016).
i) Confisca “comune”. In caso di condanna o “patteggiamento”, la misura è sempre obbligatoria per le cose che sono prezzo, prodotto, profitto del reato.
ii) Confisca per equivalente. Quando la prima non sia possibile, è disposta la cd. confisca di valore, e cioè dei beni di cui il reo abbia la disponibilità, diretta o indiretta, per un valore corrispondente al prezzo, prodotto, profitto del reato.
iii) Confisca cd. allargata. In caso di condanna o “patteggiamento”, è sempre disposta la confisca di denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui direttamente o indirettamente risulti essere titolare od avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica. Questa previsione, per ragioni che qui non è possibile sviluppare, sembra per vero concretamente applicabile (o comunque potenzialmente efficace) prevalentemente in relazione agli intermediatori od ai piccoli imprenditori, anche se in astratto è riferibile a qualunque utilizzatore finale.
A favore della vittima è previsto che, in caso di confisca, sono comunque «salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno». Tale disposizione, per ragioni piuttosto evidenti di proporzionalità sanzionatoria ed anche di effettività della garanzia dei diritti delle vittime, deve essere intesa nel senso che quanto dovuto per restituzioni e risarcimento del danno si “scomputa” dal valore di prezzo, prodotto e profitto del reato. Se si aggiungesse ad ulteriore gravame sul patrimonio del reo, al di là di qualunque presumibile derivazione dal reato od almeno da altri reati (il che sarebbe comunque discutibile), si darebbe luogo ad una sorta di confisca generale della cui compatibilità con l’art. 27 Cost. è lecito dubitare. Una novità di rilievo, anche se non specificamente penalistica, è rappresentata dal controllo giudiziario dell’azienda presso cui è stato commesso il reato (art. 3 l. n. 199/2016). La misura può essere disposta in alternativa al sequestro preventivo (le cui disposizioni processuali ad essa pure si applicano), al fine di preservare i posti di lavoro o il valore economico del complesso aziendale; essa consiste nell’affiancamento all’imprenditore di un amministratore giudiziario, sia con compiti di gestione (e compimento di atti di amministrazione specificamente autorizzati in quanto utili), sia con compiti di “controllo di legalità”, in particolare al fine d’impedire «situazioni di … sfruttamento lavorativo». La disposizione (art. cit., co. 3) aggettiva dette situazioni come di «grave» sfruttamento; ma è espressione assurda, come tale da evitare anche se (o proprio perché) insinuatasi nel gergo. Di alcuni profili problematici di questo istituto si dirà oltre (3.4).
In questa sede ci si deve limitare a tre questioni, concernenti la natura degli indici, il rapporto fra le nuove incriminazioni, l’istituto del controllo giudiziario.
Al fine d’inquadrare adeguatamente la questione della natura giuridica degli indici, si può osservare come le fattispecie cui essi accedono siano strutturate su un doppio livello: da un lato sta il contesto degli indici tipizzati; dall’altro il loro termine sostanziale di riferimento. Si tratta di due livelli connessi ma concettualmente separati. Quanto al contesto degli indici, si deve ulteriormente distinguere tra dimensione “tipologica” e dimensione del fatto concreto sussumibile in ciascuna tipologia. L’elencazione pare tassativa quanto alla dimensione tipologica; ma è necessariamente aperta quanto ai fatti concreti che possono esservi ricondotti. Su questa base, a ben guardare, non ha molto senso interrogarsi sul carattere esaustivo od esemplificativo dell’elenco.
Gli indici previsti sembrano talmente onnicomprensivi da consentire un giudizio di essenziale esaustività della dimensione tipologica (che dunque, in questo particolare senso e nel contesto di questa struttura complessa, può esser considerata determinata); eventuali dubbi in relazione a singoli “casi” potranno essere risolti come semplici problemi di ascrizione del fatto concreto alla sua dimensione tipologica. Si pensi a titolo d’esempio alla situazione (non infrequente) di soggetti stranieri, arrivati sul territorio italiano per essere impiegati in attività lavorative, ma che non parlano la lingua italiana, non la capiscono, non hanno altrimenti possibilità di relazioni sociali per ritmo e condizioni di lavoro. Ora, a seconda delle circostanze concrete, l’autorità competente potrà/dovrà valutare se la situazione possa o meno essere ascritta alla dimensione tipologica dello sfruttamento mediante sottoposizione della persona a condizioni di lavoro «degradanti» (art. 603 bis, terzo comma, n. 4).
Non può esserci dubbio infatti che la sottoposizione a condizioni di lavoro le quali abbiano per effetto diretto quello di escludere dal contesto sociale, costituisce in astratto indice di sfruttamento, in relazione al quale saranno le indagini a definire i contorni complessivi della vicenda concreta. Questa conclusione può essere solo apparentemente preoccupante. Com’è chiaro, non ogni impiego di lavoratore straniero che non parli adeguatamente la lingua italiana può costituire indice di sfruttamento, quando il complesso della situazione concreta non sia altrimenti idonea a segnalare condizioni di lavoro degradanti. Quanto al termine sostanziale di riferimento dell’indice quale “tema di prova”, il suo significato dev’essere adeguatamente esplicitato. L’indice di sfruttamento non è elemento costitutivo nel senso tradizionale – per così dire: statico – perché il suo contenuto può essere inteso nel suo significato (indiziante) tipico soltanto con riferimento alla condotta di “sottoposizione” a “condizioni”, per l’appunto, di sfruttamento, che si accompagna a sua volta, d’altronde, all’approfittamento dello stato di bisogno.
La fattispecie concreta ascrivibile all’indice, insomma, non potrà essere intesa in sé e per sé come sfruttamento se non segnala l’esistenza di complessive «condizioni di sfruttamento» cui il lavoratore sia sottoposto (o destinato ad esserlo) da chi approfitti della sua situazione di vulnerabilità. Orbene, «condizioni» è termine che, se interpretato con scrupolo, evoca necessariamente una situazione non già occasionale ma persistente nel tempo in relazione alle caratteristiche della situazione concreta ed innanzitutto in relazione alle modalità ed al contesto del lavoro. Correlativamente, agire «sottoponendo» i lavoratori a dette condizioni significa intenzionalmente instaurarle e mantenerle nei loro confronti per un tempo sufficientemente rilevante a ritenerle “persistenti”. Un esempio varrà a chiarire l’effettiva utilità di questa precisazione ai fini di una congrua e selettiva interpretazione della fattispecie.
In particolare, è stato sollevato il problema delle violazioni antiinfortunistiche10. Poiché è scomparso il riferimento alla circostanza che la violazione dev’essere «tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale», si è paventato il rischio che qualunque singola violazione, anche meramente formale, possa costituire sfruttamento penalmente rilevante, essendo necessaria ma ora anche sufficiente come indice («una o più»: art. 603 bis, terzo comma, primo periodo). Orbene, questo timore non è giustificato se si considera che una violazione singola, tanto più se meramente formale, non potrebbe mai dar scaturigine di per sé ad un giudizio di “sottoposizione a condizioni di sfruttamento” e come tale non avrebbe dunque mai natura di “indice”, perché mai sarebbe idonea a correlarsi al termine sostanziale di riferimento. Una diversa interpretazione porterebbe ad applicazioni chiaramente distorsive del senso della repressione. Ovviamente questa proposta non elimina il rischio di strampalati esercizi dell’azione penale a questo titolo; taluno auspica pertanto un intervento correttivo del legislatore.
La previsione di due fattispecie distinte pone il problema di stabilire quale sia il rapporto fra di esse. Sul punto sembra opportuna una precisazione preliminare, dopo la quale si passerà all’analisi delle rispettive posizioni di chi recluta, da un lato, e di chi assume, utilizza, impiega – insomma, il datore di lavoro – dall’altro lato. Si tratta di reati il cui disvalore è funzionalmente connesso ma reciprocamente autonomo. Il reclutamento è punibile in quanto tale non già perché “prodromico” all’impiego (come sua forma “tentata” ed eccezionalmente punibile come reato consumato) ma perché, come si è spiegato, si accompagna a – o si innesta su – condizioni di sfruttamento lavorativo, concorrendo a costituirne il sistema e sorreggendolo di una specifica intenzionalità. La fattispecie s’impernia sullo sfruttamento come presupposto del fatto o circostanza concomitante alla condotta, elemento di contesto necessario in ogni caso. Nella diversa ipotesi di utilizzo, assunzione ecc., che può passare per via dell’intermediazione ma può anche prescinderne, lo sfruttamento diventa vera e propria modalità della condotta che si concretizza rispetto a ciascuna singola vittima. Vero è che le fattispecie sono intrinsecamente correlate l’una all’altra, ma si tratta di una correlazione funzionale, di tipo per così dire fenomenologico, non già strutturale: dal punto di vista della tipicità, può aversi assunzione, impiego, utilizzazione senza intermediazione; il reclutamento, a sua volta, è punito a prescindere dall’utilizzazione (dal punto di vista del fatto tipico, che il reclutamento sia prodromico all’assunzione è un dato del tutto estrinseco); ma non si hanno né intermediazione né reclutamento senza sfruttamento. Premessa dunque l’autonomia del disvalore espresso dalle due fattispecie, accomunate peraltro dalla connessione funzionale che ruota intorno all’elemento comune delle condizioni di sfruttamento, ci si deve comunque chiedere in particolare se sia possibile un concorso incrociato (del reclutatore nel fatto del datore di lavoro e viceversa) e correlativamente una punibilità a titolo di concorso di reati (a titolo di autore per una fattispecie e di concorrente per l’altra). Quanto alla posizione del reclutatore, innanzi tutto egli risponde senz’altro della fattispecie sua propria (n. 1) a patto, come si ricorderà, che il contesto di sfruttamento sia esistente al momento della condotta. Non vale obiettare che si tratta di un reato a dolo specifico, cioè di un reato in cui è incriminato lo scopo che si persegue, senza però che sia necessaria la sua realizzazione effettiva (e dunque lo sfruttamento potrebbe non realizzarsi). A ben vedere, il dolo è riferito alla destinazione al lavoro, ma le condizioni di sfruttamento devono essere già predicabili del lavoro a cui il soggetto è destinato, affinché lo stesso scopo ed il suo disvalore siano pensabili in rerum natura. Diversamente, le condotte saranno addebitate all’agente ad altro titolo, ad es. come infrazioni alla disciplina in materia di intermediazione, ma non ai sensi dell’art. 603 bis. Quando il lavoratore sia anche assunto, utilizzato, impiegato, il reclutatore non risponderà di concorso se realizza la sola condotta di reclutamento, perché questa stessa condotta, che costituirebbe concorso nel fatto del datore di lavoro, è già punita come reato autonomo: la doppia qualificazione violerebbe innanzi tutto il principio di ne bis in idem sostanziale. Diverso è il caso in cui concorra alle attività di sfruttamento, ad esempio mediante l’approntamento dei mezzi, il controllo dell’esecuzione del lavoro, e simili condotte: ma queste sono attività diverse rispetto a quelle di reclutamento, e dunque non c’è ragione di escluderne la natura concorsuale nel reato di cui al n. 2.
Ogni esigenza perequativa eventualmente emergente dalla situazione concreta dovrà essere risolta dal giudice in sede di commisurazione della pena. Sarà inoltre pressoché scontata l’applicazione dell’art. 81 cpv. (reato continuato). Quanto alla posizione del datore di lavoro, che si avvalga anche dell’attività d’intermediazione, si deve considerare con attenzione il significato dell’inciso che dichiara punibili ai sensi dell’art. 603 bis n. 2) le condotte da questi realizzate «anche mediante l’attività di intermediazione» e cioè anche quando si avvalga dell’attività dei caporali. Va osservato che nel caso del datore di lavoro che “assume” per avventura mediante intermediazione, la condotta di concorso nel fatto dell’intermediatore sarebbe a ben vedere già compresa nel concetto di “assunzione”, le cui modalità concrete per l’appunto integrerebbero in astratto la stessa condotta concorsuale. Le fattispecie sono in tal senso in rapporto di reciproca esclusione. Per questa via, si deve concludere che non vi sarebbe nessuno spazio concettuale per un concorso di reati. Qualora non si voglia accedere a quest’interpretazione, tuttavia, detto inciso può esser considerato come clausola espressa di esclusione del concorso di reati – dunque anche del concorso di persone11 – o di assorbimento (non derivato però da una logica di consunzione, se per tale si intende l’assorbimento in una fattispecie più grave)12. Tale clausola sarebbe a rigore superflua, se si ritenesse che la condotta di assunzione, per lo stesso diritto del lavoro, comprende i meccanismi di “collocamento”, di scelta del lavoratore; ma non se ne potrebbe contestare in radice l’opportunità (anche in ragione delle incertezze tradizionalmente registrate dalla dottrina lavoristica sul rapporto fra sistema di collocamento e costituzione del rapporto di lavoro). Dal punto di vista strutturale, più precisamente, questa clausola finisce con il costruire una forma particolare di reato eventualmente complesso previsto espressamente dalla legge13. Infatti, l’intermediazione – che di per sé integra un reato autonomo – è considerata dalla legge come elemento costitutivo eventuale (perché dipendente dalle modalità concrete di realizzazione del fatto) del reato del datore di lavoro.
Oltre a quanto già accennato, si può qui soltanto soggiungere che è difficile pronosticare il grado di effettività di questa disposizione. La regolarizzazione dei lavoratori è prevista in termini molto generali, nel senso che essa non riguarda solo le vittime del reato, ma tutti coloro che «prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare contratto» al momento dell’avvio del procedimento penale. Devono intendersi ad esempio ricompresi, a nostro parere, anche i lavoratori che prestavano la propria attività in deroga alle norme che autorizzano gli stranieri a risiedere e lavorare sul territorio. Quest’ultima segnalazione è importante, dal momento che la legge non è intervenuta sull’art. 22 del d.lgs. 25.7.1998, n. 286, che prevede la concessione di un permesso di soggiorno solo ai lavoratori vittime di «grave sfruttamento». Pur in assenza di un coordinamento tra le norme, si può dunque ritenere che la norma sulla regolarizzazione compensi tale mancanza.
Si tratta di fattispecie da ascrivere alla tutela delle precondizioni essenziali per l’operatività di tutte le disposizioni di diritto penale del lavoro. In altri termini, al fine di assurgere alla gravità dello sfruttamento di cui all’art. 603 bis c.p., le violazioni devono essere tali e tante da deformare, per così dire, il volto della mera violazione di norme prodromiche e “strumentali” alla tutela degli interessi economici e finanche personali del lavoratore: la disposizione in esame aspira anche oggi ad assurgere, in questa prospettiva, a baluardo di elementari condizioni di dignità costituzionalmente protette (artt. 4, 36 Cost.), senza il rispetto delle quali non soltanto un rapporto di lavoro non potrebbe essere considerato lecito, ma in realtà non sarebbe neppure propriamente tale, costituendo invece per l’appunto uno «sfruttamento». La fattispecie ha virtualità espansive inedite, e tuttavia resta sul tappeto il problema di fondo dell’idoneità (e dell’opportunità) dello strumento a gestire quel che appare sempre di più un vero e proprio sistema di produzione, non soltanto in agricoltura.
1 Per una presentazione generale, cfr. ad es. Ferranti, D., La legge n. 199/2016: disposizioni penali in materia di caporalato e sfruttamento del lavoro nell’ottica del legislatore, in www.penalecontemporaneo.it, 15.11.2016; De Rubeis, A., Qualche breve considerazione critica sul nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Dir pen. cont., 2017, fasc. 4; ampiam. Gaboardi, A., Commento alla l. n. 199/2016, in www.lalegislazionepenale.eu, spec. 57 ss.
2 Cfr. soprattutto Rigo, E., Introduzione. Lo sfruttamento come modo di produzione, in Rigo, E, a cura di, Leggi, migranti e caporali. Prospettive critiche e di ricerca sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura, Pisa, 2015.
3 Sia consentito richiamare: di Martino, A., “Caporalato” e repressione penale. Appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Rigo, E., a cura di, Leggi, migranti e caporali, cit., 85 in nt. 32 (e dottrina ivi cit.).
4 Cfr. retro, nt. 2.
5 Per essenziali riferimenti in tema cfr. Giuliani, A., I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Padova, 2015, 143 ss., 161 s.; inoltre Motta, C., Sulla disciplina di contrasto al grave sfruttamento lavorativo e alla intermediazione illecita nel lavoro: profili storici e interventi di riforma, in Dir. agroalim., 1/2017, 85 s.; dopo la riforma, Piva, D., I limiti dell’intervento penale sul caporalato come sistema (e non condotta) di produzione: brevi note a margine della L. 199/2016, in Arch. pen., 2017, fasc. 1, 9 s.
6 Cfr. di Martino, A., “Caporalato” e repressione penale, cit., 8387 (con lievi modifiche di aggiornamento anche in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, fasc. 2, 106 ss.).
7 Cfr. per tutti Padovani, T., Un nuovo intervento per superare i difetti di una riforma zoppa, in Guida dir., 2016, n. 48, 49.
8 Si rinvia a Padovani, T., Un nuovo intervento per superare i difetti di una riforma zoppa, cit., 51.
9 Padovani, T., op. cit., 50 s.
10 Per tutti, Padovani, T., op. ult. cit., 50.
11 Se la condotta è realizzata dal datore di lavoro, far rispondere di concorso significherebbe far rispondere due volte per uno stesso fatto, violando il principio del ne bis in idem sostanziale.
12 Pagliaro, A., Principi di diritto penale, pt. gen., 2002, III ed., 202; Marinucci, G.Dolcini, E., Diritto penale, pt. gen., Milano, 2017, VI ed., 527 s. Qui le fattispecie hanno pari gravità, essendo punite nello stesso modo.
13 Per la parte che qui rileva, l’art. 84 c.p. stabilisce che le disposizioni sul concorso di reati «non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi … fatti che costituirebbero, per se stessi, reato».