Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il genere della novella si sviluppa nel Cinquecento secondo schemi e formule che si rifanno più o meno esplicitamente al modello del Decameron, ma che rivelano nel contempo tutta la distanza tra la civiltà manieristica del Cortegiano e la commedia umana di Boccaccio. L’elemento più caratteristico della produzione cinquecentesca è quello della proliferazione dei generi che conduce alla progressiva dissoluzione dell’elemento narrativo e della novella in quanto tale.
Premessa
Per ragioni strettamente connesse alla nascita del genere e alla sua storia, la novella cinquecentesca non può prescindere dal modello del Decameron, che ne rappresenta l’archetipo non solo dal punto di vista stilistico, retorico o narrativo, ma anche da quello psicologico. Se tuttavia all’epoca di Boccaccio la novella celebrava lo spirito libero, inventivo e arguto di un ceto sociale in espansione, nel secolo del Cortegiano la novella si lega al bisogno di intrattenimento elegante e al “piacere verbale” in cui si rispecchia l’ideale di una società aristocratico-borghese.
La ripresa della novella in ambito cinquecentesco comporta notevoli mutamenti di struttura rispetto al modello decameroniano, nel tentativo di superare quella crisi della formula boccaccesca che, aperta dalle Trecento novelle del fiorentino Franco Sacchetti, diviene manifesta in epoca umanistica. All’inizio del Quattrocento si era via via perduto quell’intento di rappresentazione del mondo nei suoi molteplici aspetti e sfumature, dal comico al tragico all’elegiaco, che aveva costituito l’essenza stessa del Decameron e nel quale la cornice segnava la distinzione tra teoresi e azione, e fungeva nello stesso tempo da elemento regolatore e da collegamento tra le diverse novelle. Dopo il tentativo isolato di Sabadino degli Arienti di irrobustire storicamente la cornice delle sue Novelle Porrettane, gli ultimi decenni del XV e i primi del XVI secolo registrano piuttosto la dispersione del materiale novellistico e la decadenza della cornice. Molte novelle cinquecentesche appaiono così sciolte da un preciso contesto strutturale e in forma di “spicciolata”, come ad esempio la Favola di Machiavelli, meglio nota come la novella di Belfagor arcidiavolo, o la Historia di due nobili amanti del vicentino Luigi da Porto, che attraverso una rielaborazione di Bandello è alla base della celebre tragedia di Shakespeare Romeo e Giulietta. Solamente a partire dagli anni Venti si assiste al recupero di un contatto più diretto con il modello rappresentato dal Decameron, sia dal punto di vista linguistico (assunzione del volgare), sia da quello strutturale della cornice, intesa come tentativo di organizzare il reale. Ma la perdita della visione globale del mondo caratteristica della fine del Medioevo, rafforzatasi dopo la scoperta del Nuovo Mondo e gli avvenimenti della Riforma, porta con sé una frantumazione dei valori e un senso di smarrimento che si riflettono nella proliferazione di discussioni all’interno della cornice, nelle forme del dialogo, del monologo, dell’orazione o dell’apologo morale.
Tra vecchio e nuovo: le Novellae di Girolamo Morlini
Date alle stampe nel 1520, le Novellae latine del napoletano Girolamo Morlini (XVI-XVII secc.) sono considerate uno dei primi esempi di raccolte cinquecentesche, benché esprimono ancora le posizioni ufficiali della cultura umanistica, adombrate nel rifiuto del volgare a favore del latino e nel ricorso costante alle fonti classiche che il narratore utilizza come filtro tra sé e il reale. Accanto alle Metamorfosi di Apuleio, l’utilizzo di Virgilio, di Orazio, e la ripresa di Fedro (più raramente del Novellino e dello stesso Decameron) costituisce un mosaico di citazioni le cui tessere danno vita a brevi racconti, suggellati da un monito o da una chiosa che conferma la rigida morale della novella e la semplificazione psicologica dei personaggi.
Il repertorio messo in atto nelle Novellae narra la bassezza dell’animo umano, capace di commettere ogni tipo di azione per curiosità o ignoranza del male.
In Morlini domina l’azione di una volontà dura e fredda, determinata a provare nuove esperienze anche quando immorali o pericolose.
È questo il caso della novella De filio qui matrem offetavit, in cui la libido adolescenziale del protagonista è meno importante, per la dinamica del racconto, della curiosità perversa che lo conduce all’atto incestuoso. Si delinea così nelle Novellae una rassegna quasi completa della malvagità umana, descritta attraverso atmosfere cupe ed esasperate che mostrano un reale disagio nei confronti della realtà contemporanea, senza che peraltro le intenzioni di denuncia di Morlini siano sufficienti a colmare la distanza tra la macchinazione crudele e insistita delle sue storie e la loro morale esigua.
L’eredità di Boccaccio: la cornice
L’esempio del Decameron, fra tradizione e innovazione, è seguito con più forza dai narratori toscani come Agnolo Firenzuola, autore nel 1525 dei Ragionamenti d’amore. Il fatto che la raccolta veda la luce nello stesso anno delle Prose della volgar lingua di Bembo, che indicano nel Boccaccio il modello della prosa moderna, non è sembrato ai critici frutto di casualità. Ma mentre Bembo si limita a dare indicazioni di lingua e di stile, Firenzuola intende esprimere una scelta di tipo narrativo. Del resto, proprio l’introduzione ai Ragionamenti fuga ogni dubbio riguardo alla posizione del Firenzuola poiché l’autore, mentre si richiama esplicitamente a Boccaccio nella scelta della cornice, rifiuta il purismo linguistico di Bembo a favore del parlato quotidiano.
Più che alla commedia umana del Decameron, il mondo dei Ragionamenti rinvia all’intrattenimento ludico e leggero del Cortegiano di Baldassare Castiglione, come dimostra anche l’importanza dell’elemento trattatistico nella cornice e la sua dominanza rispetto al materiale narrativo. Non stupisce dunque che i principali argomenti affrontati dalla brigata si ritrovino nel Cortegiano, a partire dalla centralità della disputa amorosa e dalla questione della lingua.
Significativa è anche l’attenzione al dialogo, che nei Ragionamenti costituisce una sorta di ritratto indiretto del personaggio, più valido ed espressivo di quello fisico, mutuato senza variazioni da Boccaccio. Che la genialità di Agnolo Firenzuola non risieda tanto nell’invenzione, quanto nell’adattamento e nel rifacimento letterario, è provato poi dalla raccolta intitolata Prima veste dei discorsi degli animali (1540), libera traduzione della favola indiana Panciatantra, che riporta una serie di apologhi allegorici in cui le vicende degli animali rappresentano altrettante incarnazioni di virtù e vizi umani.
L’influsso di Boccaccio, variamente ricombinato e adattato alle esigenze dell’epoca, è presente anche nelle novelle del letterato e poeta Francesco Maria Molza, amico di Bembo e di Aretino, e nelle prose di Marco Cademosto che chiude con sei novelle il suo volume di versi Sonetti e altre rime (1543).
Tentativi di ricreare la forma della cornice si ritrovano poi in Silvan Cattaneo, che nelle sue Dodici giornate (1545) presenta una brigata di novellatori che percorrono durante una vacanza universitaria le rive del Garda, e in Girolamo Parabosco, autore dei Diporti (1550), una raccolta di diciassette novelle (delle cento che costituivano il progetto iniziale) narrate da una brigata di gentiluomini veneziani costretti dal maltempo a rimanere per tre giorni nelle capanne dei pescatori. In entrambi i casi l’ampliamento della cornice tende a invadere lo spazio del racconto, e la novella appare affiancata dalle forme del dialogo e dell’apologo morale. Anche nelle due raccolte parallele del senese Pietro Fortini, Le giornate delle novelle de’ novizi e Le piacevoli ed amorose notti de’ novizi (1555), la narrazione, incentrata sul tema della beffa amorosa, appare spesso interrotta o inframezzata da poesie e commedie e dal dibattito sulle tradizionali questioni d’amore, mentre l’accumulo e l’abbondanza caotica dei materiali preludono ormai alla forma secentesca del romanzo.
La novella come memoria: Matteo Bandello
Tra i novellieri settentrionali, non dimentichi della lezione di Boccaccio e nello stesso tempo sensibili alle nuove esigenze del narrare, il più significativo resta senza dubbio Matteo Bandello. Frate domenicano, dopo i primi studi a Pavia e le peregrinazioni nei conventi dell’Italia centrale e meridionale si stabilisce a Milano, al seguito di Ippolita Sforza, figlia del duca Francesco e poi moglie di Alfonso II d’Aragona.
A quest’epoca si devono forse le prime esperienze narrative, interrotte dalle vicende storiche e politiche che lo vedono successivamente a Mantova presso Isabella d’Este Gonzaga, a Milano dopo il ritorno degli Sforza e quindi a Verona al seguito del generale di cavalleria Cesare Fregoso, dove incontra letterati come Bembo, Fracastoro e Navagero. Alla morte di Cesare Fregoso, Bandello segue la vedova di lui, Costanza Rangoni, in Francia a Bassens (presso Agen) dove si dedica agli studi godendo dell’amicizia di Margherita di Navarra, autrice celebre dell’Heptaméron.
Al periodo francese risale probabilmente il progetto di una raccolta organica di Novelle sull’esempio di Margherita di Navarra, le cui prime tre parti escono nel 1554, e una quarta e ultima parte, postuma, nel 1573.
Nelle varie dediche ai lettori, Bandello enfatizza, in opposizione al modello fortemente strutturato del Decameron, la mancanza di unitarietà e la dimessa colloquialità della sua opera, sottolineandone la scarsa eloquenza dovuta alle sue origini “gotiche” e il ricorso a una lingua quotidiana, lombarda e antiletteraria. Ma i mutamenti più significativi riguardano la cornice: alla conversazione della brigata Bandello sostituisce una lettera dedicatoria per ogni novella, nella quale descrive la circostanza da cui ha appreso i fatti delineandone la problematica morale. In questo modo gli avvenimenti narrati non escludono il momento del dialogo o della riflessione morale, ma vengono da essi illuminati: al di là della reale autenticità dei fatti narrati e dei personaggi delle dedicatorie, messi in dubbio dalla critica, si afferma nel testo di Bandello il mondo degli avvenimenti in tutta la sua forza e la sua pienezza, evocato dal topos della scrittura come memoria dei fatti memorabili.
Matteo Bandello
Prologo alla Prima parte
Novelle
Io, già molti anni sono, cominciati a scriver alcune novelle, spinto dai comandamenti de la sempre acerba e onorata memoria, la vertuosa signora Ippolita Sforza, consorte de l’umanissimo signor Alessandro Bentivoglio, che Dio abbia in gloria. E mentre che quella visse, ancor che ad altri fossero alcune di loro dedicate, tutte nondimeno a lei le presentava. Ma non essendo il mondo degno d’aver così elevato e glorioso spirito in terra, nostro Signor Iddio con immatura morte a sé lo ritirò in cielo. Onde dopo la morte sua a me avvenne, come a la versatil mola suol avvenire, che, essendo da forte mano raggirata, ancor che se ne levi essa mano, tuttavia la ruota in vertù del primo movimento, buona pezza senza esser tocca si va raggirando. Così dopo la morte de la detta nobilissima signora, l’animo mio, che sempre fu desideroso d’esserle ubidiente, non cessò di raggirare la mia debol mano, a ciò ch’io perseverassi a scriver or questa or quella novella, secondo che l’occasione mi s’offeriva, di modo che molte ne scrissi. Ora, essendo alcuni amici miei che desiderano di vederle, essendone state vedute pur assai, tutto il dì m’essortano a darle fuori. Molte ne ho a Vulcano consacrate; quelle poi, che da la vorace fiamma si son sapute schermire, non avendo io servato ordine veruno, secondo che a le mani venute mi sono, le ho messe insieme, e fattone tre parti, per dividerle in tre libri, a ciò che elle restino in volumi più piccioli che sarà possibile. Io, né invito né sforzo persona chi si sia a leggerle, ma ben prego tutti quelli a cui piacerà di leggerle, che con quell’animo degnino di leggerle con il quale sono state da me scritte: affermo bene che per giovar altrui e dilettare le ho scritte. Se io mò a questo ho sodisfatto, al benevolo e sincero giudicio vostro, benigni lettori miei, lo rimetto. Io non voglio dire come disse il gentile ed eloquentissimo Boccaccio, che queste mie novelle siano scritte in fiorentin volgare, perché direi manifesta bugia, non essendo io né fiorentino né toscano, ma lombardo. E se bene io non ho stile, che il confesso, mi sono assicurato a scriver esse novelle dandomi a credere che l’istoria e cotesta sorte di novelle possa dilettare in qualunque lingua ella sia scritta. State sani.
M. Bandello, Novelle, a cura di G.G. Ferrero, Torino, UTET, 1974
In un universo che aspira a comprendere tutte le forme del reale attraverso una pluralità dei registri linguistici e tematici, e che attinge a un repertorio vastissimo di materiali narrativi (tra cui la tradizione francese dei fabliaux, il modello dell’Heptaméron e le Istorie fiorentine di Machiavelli) la tipologia dei racconti risulta assai varia e animata, anche se il pubblico cinquecentesco mostra di prediligere un Bandello tragico, quale si mostra nella novella di Giulia di Gazuolo, che riscrive nei toni patetici dell’elegia la vicenda già narrata nel Cortegiano di Castiglione.
Le Cene di Lasca: il trionfo del realismo grottesco
Composte e fatte circolare nell’ambito semiclandestino delle conversazioni tra amici, e sopraffatte dalle ambizioni teatrali del loro autore, le Cene di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, redatte tra il 1550 e il 1553, rimangono ignorate fino alla loro riscoperta in ambito settecentesco. Per la sua raccolta di novelle il Lasca adotta la struttura delle spicciolate quattrocentesche e, contaminandola con il modello decameroniano, tenta una nuova soluzione narrativa che supera la dimensione del tragico per rivolgersi al grottesco o al carnevalesco nel senso proposto da Bachtin. La logica del mondo alla rovescia con cui si aprono le Cene, ambientate non a caso durante il carnevale e aperte da una battaglia a palle di neve che vede la vittoria delle donne sugli uomini, prelude all’immagine della “detronizzazione”, della sconsacrazione della realtà descritta nel Decameron.
Rispetto alla variatio tematica del Decameron, le Cene si concentrano sulla figura narrativa della beffa. Mentre in Boccaccio la beffa è l’espressione dello spirito cortese della brigata e del gioco arguto e sottile del motto di spirito, nelle Cene essa assume i caratteri dell’aggressione fisica e la forma crudele della tortura. Come è stato notato, l’artificio della beffa, con la sua complicazione figurativa e teatrale, non è quasi mai frutto della libera inventiva del momento, come avviene in Boccaccio, ma appare meticolosamente suggerita e preparata dalle piccole crudeltà nascoste della provincia, sullo sfondo di una Firenze angusta e illividita.
Più che in Bandello, di cui ignora il pathos tragico, la predilezione di Lasca per le atmosfere cupe tipiche della letteratura padana affonda le sue radici nel gusto scatologico della novellistica quattrocentesca, a cui si aggiunge la volontà di risolvere nel grottesco la crudezza realistica del quotidiano.
Le architetture manieristiche di Gianfranco Straparola
Apparse a Venezia tra il 1550 e il 1553 e accompagnate da uno straordinario successo, le Piacevoli notti di Gianfranco Straparola (fine XV sec. - 1557) possono considerarsi il più accreditato incunabolo di tutti i repertori fiabeschi fino all’età romantica. Ambientate al tempo del carnevale e introdotte ciascuna da un prologo che recupera tutti i topoi della narrazione cortese, le novelle narrate da una brigata di fanciulle e di gentiluomini (tra cui Pietro Bembo) nella cornice aristocratica ed evanescente di Murano si presentano come un insieme multiforme che mescola l’ingenuità della fiaba, il patetico romanzesco della novella cortese e la violenza sanguigna dei temi popolari. Le forme eterogenee e le diverse soluzioni linguistiche, l’alternanza degli stilemi lirici e delle inserzioni dialettali incapaci di giungere a una fusione armonica, e la stilizzazione manieristica della cornice che al codice realistico del Decameron preferisce le atmosfere rarefatte del Filocolo, indicano che nella novellistica cortese della seconda metà del secolo l’eclissi del rapporto tra letteratura e società produce una forma di intrattenimento ai confini del kitsch.
La novella nell’epoca della Controriforma
Nel panorama della novellistica cinquecentesca Sebastiano Erizzo rivendica il compito singolare e arduo di moralizzare il Decameron. Nelle Sei giornate, uscite a Venezia nel 1567 a cura di Ludovico Dolce, la ripresa anche testuale di Boccaccio si attua attraverso una precisa selezione che mira a eludere la tematica amorosa, a limitare la presenza della componente femminile, alla quale era viceversa dedicato il Decameron, e a escludere del tutto le formule narrative delle metafore oscene e del dileggio dei religiosi. Nell’intento dichiarato di suscitare sentimenti morali e utili riflessioni a cui obbedisce l’arte del narrare, la prosa delle Sei giornate si volge a un deciso rifiuto del parlato e del dialogo, accentuando le possibilità retoriche del monologo e dell’orazione, più consoni a un tipo di letteratura esemplare.
Ma il novelliere nel quale sono più espliciti i segni di una nuova inquietudine morale appare senza dubbio Giambattista Giraldi Cinzio, i cui Ecatonmiti (1565) prendono l’avvio dalsacco di Roma del 1527. Diversamente dal quadro della peste che segna l’incipit del Decameron, la descrizione del sacco di Roma è uno spettacolo di orrori dipinto a scopo di edificazione morale, per dimostrare, secondo un procedimento caro all’oratoria sacra e profana, la decadenza del genere umano. La fuga in nave verso Marsiglia dei superstiti che durante il viaggio narrano le novelle della raccolta perde così il carattere liberatorio del soggiorno in villa della brigata del Decameron, e l’attività stessa del raccontare non viene vista simbolicamente come un remedium contro la morte, ma piuttosto come uno strumento edificatorio contro l’ozio e la corruzione. Il carattere spiccatamente morale della cornice e la tendenza allo stile oratorio degli Ecatonmiti tendono a disperdere gli elementi realistici della narrazione nell’astratto e nel generico e si rivolgono naturalmente all’amplificazione romanzesca, mostrando una volta di più come nella seconda metà del secolo la dissoluzione del genere della novella codificato da Boccaccio possa dirsi ormai compiuta.