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La navigazione

di Alberto Tenenti - Storia di Venezia (1997)
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La navigazione

Alberto Tenenti

L’argomento che si imprende a trattare si trova alla confluenza di altre e forse non meno importanti materie, che ci si propone di evocare o di sfiorare ma non di esaminare in modo ravvicinato. È istintivo pensare infatti, da un lato, che la navigazione riguarda anche i commerci come le strutture politico-amministrative che li regolavano o li dirigevano; dall’altro che, soprattutto in un periodo occupato da prolungati conflitti come quello che va dal 1630 al 1720, essa risultò strettamente innestata sotto vari e notevoli rispetti alle operazioni belliche. Tuttavia i problemi concernenti in senso proprio e più diretto la navigazione ci sembrano già di per sé di tanto peso e di tale rilievo da richiedere di non farne un motivo per affrontare anche quelli che le erano in un modo o in un altro connessi (e che dovrebbero essere analizzati in maniera autonoma).

Di fronte a simile opzione pare ergersi un diffuso presupposto pregiudizievole: quello della decadenza marittima della Serenissima fra Sei e Settecento e della sua sempre maggiore gravitazione terrestre. Studi sia pur rapidi come quello di Domenico Sella (1) hanno mostrato che la nozione di decadenza (già di per sé concettualmente assai impropria e largamente discutibile) richiede di esser ridimensionata e reinterpretata. La citazione di tale indagine ci consente di sottolineare che, in conseguenza di quanto si è appena precisato, non ci si volgerà ad esporre le vicende della presenza delle marine mercantili estere nel porto lagunare, al fine di dare il dovuto spazio alle questioni attinenti alla navigazione veneziana. Questa visuale appare quanto meno riduttiva non solo in considerazione della sede in cui si viene ad inquadrare ma in quanto lo stato abbastanza inadeguato delle indagini e delle prospettive correnti pare esigerla.

Quella della città di Venezia costituì una compagine complessa ed articolata in modi peculiari, che nella sfera della navigazione si trovò alle prese su scala plurisecolare se non addirittura permanente con esigenze e situazioni proprie. Non ci si riferisce qui soltanto alla sua situazione geografica o alla struttura politica ma a problemi come quello della sicurezza dei mari, degli imperativi e delle congiunte vicende armatoriali oltre che delle necessità di equipaggi e della concorrenza estera. Non si possono certo rintracciare qui le vicissitudini che la navigazione veneziana attraversò almeno dai secoli XIV e XV in poi e nemmeno rifarci a quelle tanto più ravvicinate del Cinquecento. Si prenderanno le mosse dagli inizi del Seicento per assicurare un minimo di messa in prospettiva all’analisi dei fenomeni che riguardano il periodo da considerare. Il 1630 rappresenta infatti su questo piano un riferimento cronologico solo parzialmente significativo, importanti svolte essendosi verificate — come ben ha intuito Ugo Tucci — sin dai decenni precedenti (2).

Uno degli scopi di queste pagine nondimeno è di indurre almeno in parte ad ammettere che, malgrado le congiunture generalmente avverse alle quali la navigazione veneziana andò incontro dopo l’inizio del secolo XVII, l’attaccamento ad essa ed al Dominio da mar rimase un asse fondamentale della compagine lagunare. Senza alcun dubbio questo emergerebbe con lampante evidenza se l’oggetto del nostro esame fossero soprattutto le operazioni navali, che dominarono quasi la metà esatta del periodo che intercorre fra il 1630 ed il 1720. Alcuni loro aspetti da un lato non potranno essere del tutto espulsi dalla presente analisi e dall’altro mai come in questo tormentato e drammatico periodo la vita navale si trovò connessa e per così dire fusa sotto più di un rispetto con la navigazione mercantile.

Riteniamo anzi che si potrebbe andare anche oltre simili considerazioni. Certo, per rilevanti riguardi, può apparire un miraggio quanto i Capitolari dei provveditori all’armar proclamavano ancora alla fine del 1710 a proposito della navigazione: «È stata e deve essere in ogni tempo la base della sussistenza e della felicità della Repubblica» (3). Senza alcun dubbio non ci si può far trarre in inganno dalla ricorrente inclinazione ufficiale alla ridondanza quando si trattava di valenze tradizionali e di esigenze secolari. Ma una somma di forme basilari di fiducia accompagnò e sostenne robustamente la compagine cittadina soprattutto nella fase seicentesca in cui si vide obbligata a ripiegarsi su se stessa, a nutrirsi di linfe profonde che venivano da lontano e pur continuavano ad agire in modo assai potente. Non solo il binomio navigazione-prosperità non abbandonò gli spiriti neppure nei momenti bui (4) ma si continuò molto a lungo a credere che i mercantili rappresentassero «la base fondamentale più del publico che del privato interesse» (5). Ancora nel 1725 ed oltre si percepiva nettamente il nesso fra i vari problemi marittimi nonché la loro rilevanza per le fortune della città.

Se quindi non si può far a meno di registrare il rattrappimento verificatosi su questo piano in vari settori, se non si può rinunciare al raffronto fra le marine concorrenti e quella declinante della Serenissima, non ci sembra consentito neppure tenere in non cale l’innegabile e perdurante adesione collettiva ai propri destini sul mare. Essa si manifestò in una serie d’interventi senza posa delle magistrature responsabili, in una pervicace ostinazione non solo a salvare il salvabile anche nei momenti di maggior pericolo ma a promuovere iniziative di ripresa oltre che di tenace conservazione. Questa è infatti una delle poche sfere in cui la continuità degli obbiettivi comunitari non risultò interrotta ed entro la quale non si rinunciò mai a prospettive di sviluppo. Si trattava infatti di una delle proiezioni strutturali della compagine veneziana ed essa sola in primo luogo può spiegare le imprese navali altrimenti sorprendenti di questo periodo.

Navi ed equipaggi

La lunga storia della navigazione, tanto fondamentale per la conoscenza della società lagunare, resta in buona parte ancora da esplorare sistematicamente e non sarà quindi consentito tracciarla in modo del tutto soddisfacente in particolare per i decenni successivi al 1630. Taluni suoi aspetti sono nondimeno rilevabili e tali da chiarire abbastanza una evoluzione, attraverso il protrarsi di situazioni persistenti.

Già nel Tre e nel Quattrocento era ravvisabile una dicotomia fra l’insieme dei percorsi marittimi che si svolgevano nell’ampia area approssimativamente definibile come Levante, snodantesi dal mar Nero all’Egitto, e quelli diretti verso il Ponente. Questa seconda denominazione si applicava non solo alle zone del Mediterraneo centrale ed occidentale ma anche a quelle portoghese, fiamminga ed inglese (le coste atlantiche francesi non avendo mai assunto un qualche rilievo su questo piano). Nei secoli XIV e XV tuttavia, malgrado incessanti difficoltà, Venezia era riuscita a saldare operativamente fra loro e con grande suo profitto questi due scacchieri. Ciò non le fu più possibile a partire dai primi decenni del Cinquecento e quello che fu in larga parte sacrificato nel corso del secolo XVI fu il Ponente, il numero dei vascelli veneziani che solcavano le sue acque rivelandosi progressivamente sempre minore fino a risultare quasi insignificante.

Questo fenomeno non fu dovuto soltanto all’accresciuta e via via più agguerrita presenza delle marine occidentali, in particolare quella inglese e quella olandese. Soprattutto dopo il 1540 gli sviluppi politico-militari ed in parte economici avevano opposto ai Veneziani un fronte abbastanza compatto nel Mediterraneo centro-occidentale, all’insegna della preponderanza spagnuola assecondata dalle marine genovese e ragusea e sia pur indirettamente dalle fortune dello scalo di Livorno. D’altra parte l’area ottomana era stata raggiunta ancora parzialmente, prima del 1600, dalla penetrazione degli Occidentali e lunghi decenni di pace avevano propiziato i suoi scambi con Venezia. Quest’ultima infine era vigorosamente indotta a concentrare i suoi negozi sul Levante per il fatto stesso di possedervi delle basi territoriali proprie: dal Peloponneso e dall’Egeo (che furono le prime ad essere in gran parte perdute) a Cipro e Candia, con gli essenziali punti di appoggio delle isole Ionie.

Almeno intorno al 1600 tuttavia i traffici stavano gradualmente passando nelle mani di coloro che a Venezia venivano considerati forestieri, alcuni di essi, senza neppur dimorare in laguna, negoziando con il Levante attraverso l’emporio realtino «per mano d’altri» (6). Proprio nei primi anni del secolo XVII il governo della Serenissima aveva tenuto a ribadire che gli scambi con quella zona dovevano restar riservati a chi godeva pienamente della cittadinanza veneziana. Si escludeva addirittura cioè che i mercanti esteri potessero far transitare a loro proprio beneficio dal porto lagunare i loro vascelli diretti alle scale levantine o da esse provenienti: questo doveva rimanere un privilegio dei sudditi e dei bastimenti veneti. Si ipotizzò per un momento che gli Occidentali noleggiassero per questo le unità della Repubblica, ma persino tale eventualità venne respinta.

Anche se già nella seconda metà del Cinquecento si erano avute le avvisaglie di simile contrasto d’interessi, esso si fece assai più acuto nei primi decenni del secolo successivo: a tutto svantaggio dei Veneziani per un insieme di fattori. I mercantili di questi ultimi erano da lungo tempo assuefatti a godere della protezione delle squadre della loro flotta ed anche per questo curavano insufficientemente la propria difesa con le armi di bordo. Inoltre la costruzione dei bastimenti atti a navigare fin nelle acque del Levante era in netto calo. Infine essi erano esposti ad una duplice minaccia: la concorrenza delle marine occidentali e il decrescente impegno del proprio governo, al quale l’onere finanziario rappresentato dalla scorta militare della navigazione risultava ormai senz’altro eccessivo.

Queste furono le premesse delle gravi difficoltà che dovette affrontare la marina mercantile veneziana almeno dai primi decenni del Seicento, per quanto si fosse in un periodo di pace. Sin dal secolo precedente — e addirittura dagli ultimi decenni del Quattrocento — ci si era avviati alla ricerca di misure atte a compensare le sempre più chiare deficienze armatoriali della Serenissima, innanzitutto con premi alla costruzione dei vascelli di maggiore portata. Dopo Lepanto si autorizzarono dei mercanti a noleggiare anche navi battenti bandiera estera e addirittura a comprarle per farle navigare sotto quella di San Marco. Queste furono sostanzialmente le vie che vennero seguite lungo tutto il periodo che va dal 1630 al 1720, non senza ripensamenti e correttivi introdotti di volta in volta. Naturalmente si provvide anche a promuovere una difesa militare più adeguata sui mercantili, sia accrescendo il numero dei loro pezzi d’artiglieria sia tentando d’introdurvi uomini più addestrati agli eventuali scontri navali.

È abbastanza chiaro che le unità medie e maggiori della marina mercantile veneziana (dato che sulle minori era pressoché escluso d’introdurre armi numerose ed efficaci) tardarono rispetto alle altre flotte a munirsi di mezzi sufficienti di difesa. Eppure nel corso del Seicento il numero dei pezzi di artiglieria a bordo di esse aumentò sensibilmente, anche se non in modo regolare o veramente all’altezza dei pericoli corsari. Appare innegabile che i cannoni installati per esigenze soprattutto militari su parecchi mercantili durante i venticinque anni della guerra di Candia (1645-1669) sovente vi rimasero e contribuirono a rinforzare l’abitudine a dotarne anche le unità costruite successivamente. D’altra parte, facendosi sempre più frequente l’acquisto di vascelli occidentali meglio concepiti ed attrezzati per la difesa sin dalla loro costruzione, le unità veneziane venivano a trovarsi ipso facto globalmente più agguerrite.

Se dunque le artiglierie mancavano su saettie, saiche, grippi ed altri navigli medio-piccoli, si trovavano già delle marciliane — soprattutto quelle a due coperte — maggiormente protette. È questo ad esempio il caso della marciliana San Carlo, di 150 tonnellate, armata nel suo viaggio da Taranto a Venezia con ben 12 «periere» (7). Questo tipo di cannone che lanciava palle di pietra, del resto, era presente ormai di rado e solo sui bastimenti di medio tonnellaggio, d’altronde insieme ad altri pezzi che sparavano proiettili di metallo.

Confrontati con i mercantili delle altre nazionalità, all’indomani della guerra di Candia quelli veneziani non contavano un numero di cannoni nettamente inferiore. Così, nei primi mesi del 1672 il vascello francese La Couronne d’or, di 300 tonnellate, navigava tra Modone e Venezia con 10 cannoni mentre il veneziano San Giuseppe, di 280 tonnellate, ne aveva 12 per il suo viaggio tra la laguna e Genova (8). Nello stesso anno Les Armes de Paris, di 400 tonnellate, che dalla Norvegia era diretto a Genova per poi raggiungere Le Havre, portava 20 cannoni mentre La Verità, veneziano e collegante l’emporio realtino a Costantinopoli, ne aveva 16 per le sue 360 tonnellate (9). Altri due mercantili veneti di 400 tonnellate, il San Giuseppe ed il San Nicolò, erano muniti rispettivamente di 20 cannoni più 8 «periere» e di 26 cannoni (10). Si possono citare almeno anche l’inglese India, provvisto di 4 soli cannoni per le sue 120 tonnellate, ed il veneziano La Santissima Nonciata, di 140 tonnellate e con 8 cannoni, che allora seguirono ambedue la stessa rotta fra Lisbona e Venezia (11). Questi esempi potrebbero agevolmente venire moltiplicati e si può affermare, in base ad un’assai ricca serie di testimonianze, che i mercantili della Serenissima di oltre 250 tonnellate recavano da 10 a 20 ed anche assai più pezzi di artiglieria dopo la guerra di Candia. Del resto si deve contemporaneamente sottolineare che un consistente numero di questi ultimi non metteva di per sé al riparo da un attacco e da una cattura, l’incontro con una vera e propria squadra pirata potendo agevolmente provocarla. Così i corsari tripolini catturarono all’inizio dell’estate del 1672 il San Giovanni Evangelista, benché le sue 600 tonnellate fossero difese da 30 cannoni e da un equipaggio di circa 70 uomini (12). Da un documento della fine del 1714 risulta che molte unità veneziane da trasporto continuavano a portare in genere oltre una decina di cannoni e talora varie decine, anche se in questo caso le informazioni riguardano soprattutto vascelli di fabbricazione estera (13). La presunta debolezza della difesa armata delle navi veneziane fra Sei e Settecento non va dunque sostenuta senza adeguate verifiche. Se le fonti coeve denunciano costantemente le insidie corsare, non risulta sinora con sufficiente chiarezza che il numero delle prese di bastimenti di buon tonnellaggio superasse allora quello della fine del Cinquecento. Nondimeno l’attività mercantile della Serenissima soffrì in quel periodo di parecchi altri inconvenienti di varia rilevanza. Almeno dal 1625, ad esempio, si deplorava che ben 20 tipi di balzelli diversi pesassero sui bastimenti che toccavano il porto lagunare ed ancora nel 1720 s’insorgeva contro le complicazioni burocratiche che ne turbavano e ritardavano i movimenti (14). Quanto alla preferenza nel carico alle navi venete, non solo nel Dominio ma dovunque esistessero rappresentanti ufficiali della Serenissima, essa poté essere osservata ed imposta sempre meno sia che in determinate scale non ve ne fossero a disposizione sia che la si aggirasse con pratiche illecite. In particolari situazioni d’altra parte, come a Costantinopoli ed a Smirne fra il 1684 ed il 1695 per la guerra contro il Turco, era giuocoforza che i mercanti ricorressero a vascelli battenti bandiera estera.

Più in generale, l’inosservanza di certe disposizioni governative, anche di natura protezionistica, mentre procurava profitti a determinati armatori, non recava necessariamente danno agli interessi della piazza che, al di là di esse, cercava di provvedervi per altre vie. È ben noto che le decisioni in materia di navigazione non rispondevano sempre alla migliore difesa dei traffici e delle esigenze armatoriali ma sovente a motivazioni politiche, militari o magari religiose. Di situazioni di questo genere si potrebbero addurre numerosi esempi e ci si limita a citare quello del divieto di mutar destinazione ai vascelli. Dal 13 settembre 1622 ogni mercantile doveva notificare il proprio itinerario ed attenersi a quanto dichiarato, ma la ricerca del profitto impediva sovente che gli impegni venissero rispettati (15). Praticamente lo stesso accadeva per la norma secondo la quale le navi della Serenissima potevano caricare solo per Venezia. Le esigenze del fisco, che approdavano in gran parte alla riscossione di dazi, sovente non coincidevano con quelle di una più proficua navigazione (16).

Uno dei leitmotiv armatoriali di questo periodo fu, su scala sempre più larga, quello di favorire con una rinforzata politica di prestiti la fabbrica dei vascelli in laguna e nello Stato da mar. Sul filo dei decenni si giocò così sull’ammontare dell’anticipo accordato per ogni botte dei bastimenti maggiori, sui tempi di restituzione di simili crediti e sulle penalità in caso di ritardo. Candia, Lesina ed ancor più Curzola erano le basi che, con altre minori od occasionali, beneficiavano di questi incentivi accanto ai cantieri lagunari ancor più favoriti. Le disposizioni in materia variarono anche nel tempo, all’inizio del Seicento venendo ancora premiata la messa in cantiere delle unità di maggior tonnellaggio (dalle 800 alle 1.200 botti), mentre in seguito si incoraggiarono i vascelli di 300-600 botti. Questa tendenza non tardò ad imporsi: di 8 navi varate fra il 1608 ed il 1622 solo una infatti superava le 500 botti (17).

Malgrado i sussidi pubblici si fabbricò un numero sempre minore di vascelli di lungo corso, sia per i prezzi elevati della loro costruzione sia per la difficoltà di procurarsi il legname adatto. Come ha giustamente segnalato Ugo Tucci, le misure prese per facilitare l’importazione dei roveri non raggiunsero lo scopo (18). Almeno dal 1665 — e cioè prima ancora che cessasse la guerra di Candia — si era disposto che i provveditori all’Arsenale concedessero roveri per la messa in cantiere dei mercantili, mentre nel 1694 Si era voluto agevolare l’afflusso dall’estero di tavole già segate (19). La Corporazione dei segatori, che aveva l’esclusiva di tagliare ed apprestare quei legnami, riuscì tuttavia a bloccare l’operazione almeno sino al 1709 e continuava efficacemente ad opporvisi nel 1725.

Non solo per questi motivi comunque i capitali dei mercanti e lo stesso governo si orientarono sempre più verso l’acquisto di vascelli forestieri. A questi ultimi, ancora criticati nel 1602 perché considerati poco durevoli, si aprì sempre più la porta nei decenni immediatamente successivi. Nell’agosto del 1625 si riconosceva esplicitamente che Venezia, assai sprovvista ormai di mercantili propri, non poteva far altro che procurarsene dalle altre marine (20). Incaricati di studiare la questione, gli stessi cinque savi alla mercanzia proposero di aprire dei prestiti per chi comperasse bastimenti non veneziani ed un decreto in tal senso venne approvato l’11 novembre 1627. I vascelli non dovevano avere più di tre o quattro anni, stazzare almeno 600 botti, esser stimati da quattro periti e sottoposti al controllo ed alla verifica di una commissione tecnica. Contemporaneamente si ribadiva che le navi veneziane dovevano avere la precedenza nel carico, mentre nelle ciurme delle altre dovevano prevalere i sudditi veneti ed i Greci (21). Forse anche per questo nel 1644 si riconobbe che l’acquisto di mercantili esteri non aveva prodotto «quel buon effetto che si credeva», mentre la costruzione navale indigena continuava a periclitare (22). Senza dubbio gli armatori non si erano procurati le unità migliori, se nel medesimo documento si poteva affermare nello stesso tempo che esse risultavano inadatte alle scale del Levante «per non esser sufficienti per resister alle fortune del mare e sinistro incontro de corsari» (23).

All’indomani di due lunghe guerre contro i Turchi, per quanto qualcuno suggerisse di proibire il noleggio dei bastimenti forestieri per promuovere la messa in cantiere di vascelli veneziani, nei primi decenni del Settecento si riconosceva ancora la necessità in cui si trovavano i mercanti di provvedersi di navi estere. Nel 1708 il governo aveva già permesso alle maestranze dell’Arsenale di venir impiegate nella fabbrica e nella concia dei mercantili nei cantieri privati (24). Misure complementari furono studiate negli anni successivi per cercar di ovviare all’accentuato declino della navigazione in Levante.

Nondimeno, se le congiunture mercantili della fase immediatamente precedente alla guerra di Candia e di quella del primo Settecento risultarono sfavorevoli alla navigazione veneziana, alquanto diversa appare la situazione negli ultimi decenni del secolo XVII. A questo proposito già Ugo Tucci aveva sottolineato che «quando la pressione dei paesi più forti era rallentata da situazioni di emergenza», e cioè soprattutto da conflitti navali, delle opportunità si aprivano ai mercantili della Serenissima (25). Quest’ultima d’altronde non aveva subito supinamente i contraccolpi delle guerre stesse nelle quali si era trovata impegnata. Nel 1646 fu concesso, per tutta la durata delle ostilità contro il Turco, di caricar le merci per Venezia anche su navi battenti bandiera estera che provenissero dal Levante (26). Nel 1652 era stato istituito in laguna un porto franco e l’esenzione delle merci dal dazio durò fino al 1684. Nel 1667 i Capitolari dei provveditori all’armar registravano un aumento della fabbrica di navi e dal 1670 vennero varate disposizioni per incrementare l’attività mercantile (27).

Per quanto tale documentazione dia soltanto un’immagine ridotta dei loro movimenti essendo limitata all’arco dell’anno 1672, vi si trovano menzionate almeno 24 navi veneziane sulle rotte del Levante e addirittura una trentina su quelle di Ponente. Trattandosi di contratti di riassicurazione stipulati sulla piazza di Parigi, si può concedere che i due assicuratori interessati e attivi in laguna si appoggiassero colà soprattutto per le sicurtà che riguardavano i mari occidentali. Ma anche in questo caso, e cioè pur supponendo che i vascelli impegnati nelle acque del Mediterraneo orientale fossero più numerosi in quel momento, la presenza di tanti bastimenti in Ponente appare senz’altro notevole. I collegamenti marittimi infatti riguardavano non soltanto i porti della Sicilia o di Malta ma Tunisi, Livorno, Genova e gli scali spagnuoli del Mediterraneo oltre — sia pur in numero minore — a Cadice, Lisbona, Rotterdam e Londra (28).

Mentre quindi occorrerebbe ricorrere a nuove fonti, si ricorderà che per il 1693 i cinque savi alla mercanzia segnalarono ad esempio 4 navi veneziane dirette a Londra e 3 ad Amsterdam (29). D’altra parte a simili rapporti contribuivano i continui acquisti di vascelli inglesi, francesi ed olandesi: nel 1694 essi facevano dire a quei patrizi «che quasi tutti quelli possedono presentemente [gli armatori lagunari] sono di tale ragione» (30). A tale affermazione si possono accostare le indicazioni sulle età di varie navi estere presenti in quegli anni nella flotta mercantile della Serenissima. La più anziana era senz’altro quella fabbricata in Olanda verso il 1665 ed ancora in servizio quasi trent’anni dopo; altri bastimenti delle Province Unite avevano una quindicina o una diecina di anni (31).

Senza alcun dubbio dunque per il Seicento sarebbe da valutare ulteriormente il peso dei traffici di Ponente rispetto a quelli di Levante soprattutto se, per quanto riguarda il movimento del porto lagunare, si tenesse conto non solo di mercantili indigeni o acquistati all’estero ma di quelli battenti bandiera di altri Stati. Almeno per l’inizio del Settecento non ci si deve nascondere d’altra parte che la presenza di vascelli veneziani in Ponente ed in particolare nelle acque atlantiche risultò quanto mai ridotta e non solo per l’inesperienza marittima degli equipaggi (32). La congiuntura che aveva impedito o ostacolato i traffici dei belligeranti inglesi, olandesi e francesi favorendo i Veneziani, era durata soltanto un breve periodo all’indomani del quale i bastimenti della Serenissima che avevano ripreso le rotte atlantiche erano spesso costretti all’inattività. Né alla vigilia dell’ultima guerra con gli Ottomani la navigazione del Levante offriva opportunità molto più propizie. Proprio nel 1714 cinque savi alla mercanzia affermavano che «il debolissimo traffico di questa piazza con le sole scale del Levante non serve a dare sufficiente impiego né meno alla quarta parte di veneti bastimenti» (33).

Se in vari modi, che verranno illustrati anche in seguito, la marina veneziana aveva cercato di reagire alle situazioni meno favorevoli nel corso del Seicento e se la navigazione continuava a rappresentare sotto i suoi vari aspetti una sfera sensibile e viva della città lagunare, essa era inficiata da lungo tempo da una carenza di uomini ed equipaggi anche nel settore mercantile. La guerra di Candia lasciò senza dubbio su questo piano un’eredità assai pesante, per la necessaria mobilitazione dei vascelli indigeni attuata in funzione delle esigenze navali. È vero che non si rinvengono molte tracce della deficienza degli equipaggi prima del 1680 (34). Ma i Capitolari di regolazione della marina mercantile elaborati all’inizio del 1683 stavano a significare anche l’intento di ovviare a parecchie loro carenze. Da un lato si confermava la decisione presa già nel 1633 che prescriveva un servizio di almeno dieci anni come marinaio e come ufficiale di bordo a quanti avessero intenzione di divenire capitani: ad essi si richiedeva per di più la cittadinanza o almeno una residenza decennale nello Stato (35). Dall’altro, mentre sin dal 1626 si erano volute incoraggiare le ciurme forestiere a venire a Venezia, nel 1644 se ne era constatata la penuria «in casi urgenti di armare o per altri rispetti» (36). Venti anni dopo si osservava che il numero dei marinai era assai diminuito ed era venuto meno «l’uso di condursi sopra ogni vassello uno o due nobili per acquistar isperienza nella navigatione» (37).

Non meraviglia dunque che nel 1682 i provveditori all’armar sottolineassero la mancanza di gente di mare: che si trattasse di marinai, di piloti o di capitani. Già due anni prima si era raccomandato ai provveditori alla sanità di raccogliere i giovani raminghi per farli allevare sui mercantili alla pratica della navigazione. Nell’agosto del 1682 si richiedeva che i giovani vagabondi o scioperati venissero segnalati ogni mese dai pievani sia per liberarne la città che per imbarcarli (38). Questi sarebbero dovuti andare a rinsanguare la categoria dei sottomarinai (o marittimi di nuovo imbarco, non però mozzi), che nondimeno non doveva superare un quarto dell’equipaggio — mentre la ciurma di origine straniera doveva restare al di sotto di un terzo del totale (39).

L’intervento pubblico di quegli anni in tale materia approdò nel 1681 all’obbligo per i mercantili veneti di usare solo la bandiera di San Marco e nel 1689 all’introduzione della patente, per far cessare le usurpazioni da parte dei capitani esteri: tale documento veniva concesso solo ai vascelli costruiti nello Stato o appartenenti ad un suddito (40). I citati Capitolari del 1683 contenevano anche varie disposizioni a favore dei marinai, riguardanti sia la corresponsione del loro salario e la somministrazione del loro cibo che la franchigia per le loro cose sul vascello ed il diritto di non esser licenziati in linea di massima prima del ritorno dal viaggio (41).

Le autorità veneziane tardivamente cercarono d’introdurre per i loro mercantili dei maestri di arte nautica e addirittura una vera e propria scuola navale. Quest’ultima, promossa almeno dal 1682, non riuscì tuttavia a decollare: se ne parlava ancora nel 1703 come progetto da attuare e nel 1710 se ne cercava il finanziamento; nel 1715 si riconosceva che ne erano «caduti pur inefficaci gl’esperimenti» (42). Di seria formazione professionale ce n’era senza dubbio ormai bisogno se nel 1704 due capitani di lungo corso potevano affermare che certi piloti veneziani non avevano quasi più pratica delle maree e non si azzardavano ad entrare in laguna con il mare mosso mentre i navigli olandesi ed inglesi lo facevano agevolmente (43).

Vascelli, convogli, sicurtà

Le fonti studiate in particolare da Frederic C. Lane (44), da Ugo Tucci e da Domenico Sella, oltre a quelle ancora disponibili, permettono di seguire almeno approssimativamente l’evoluzione della consistenza della flotta mercantile veneziana fra il Cinquecento ed il Settecento. È giuocoforza tuttavia sottolineare che i documenti sinora utilizzati non solo non consentono di ricostituirne le tappe successive nella loro continuità ma in più di un caso si rivelano almeno in parte fuorvianti. Il mito della grandezza marittima passata agì sui Veneziani stessi sin dal secolo XVI e da allora li indusse non di rado a valutazioni riduttive in questo campo. Si aggiunga che non si possiedono sovente dati precisi sul tonnellaggio delle singole unità o sul numero di quelle appartenenti a ciascun tipo di vascello. Infine determinate disposizioni governative avevano per effetto di volta in volta di favorire certe categorie di bastimenti maggiori mentre si resta in parte all’oscuro degli effettivi e della portata di quelli minori.

Due sondaggi riguardanti il primo terzo del Seicento mostrerebbero innanzitutto — anche se ciò non sorprende — che fra il primo ed il terzo decennio del secolo le navi che portavano i nomi delle casate patrizie erano nettamente diminuite sin quasi a scomparire. Non è ovviamente soltanto per il venir meno di queste ultime che la flotta mercantile dà l’impressione di essere divenuta meno folta che intorno al 1600. Non ha comunque una secondaria importanza che nella fase tra Cinque e Seicento i membri del patriziato continuassero ad essere presenti e fortemente impegnati sul mare nelle squadre navali e brillassero invece progressivamente per la loro assenza nella sfera mercantile. I nomi dei Giustinian, degli Zeno, dei Renier, dei Foscarini, dei Pasqualigo, dei Bragadin, dei Balbi degli inizi del secolo XVII risultano scomparsi intorno al 1630. Indubbiamente tale fenomeno fu accompagnato allora anche da un riflusso di capitali dal settore armatoriale.

Ciononostante, malgrado la carenza di dati sinora rilevati in materia, sembra eccessiva la pessimistica valutazione secondo la quale allo scoppio della guerra di Candia la flotta mercantile della Serenissima sarebbe stata composta soprattutto da marciliane «et pochissimi vasselletti de sudditi» (45). Si spiegherebbe assai male come nel 1647 fossero giunti a Venezia dal Levante ben 25 vascelli, addirittura 28 nel 1648 ed almeno 22 l’anno successivo (46). Che le ostilità navali estremamente prolungate abbiano poi sottratto alla navigazione commerciale varie unità maggiori è più che verisimile. Ma le conseguenze armatoriali di quel conflitto non dovettero peraltro essere tanto negative. Solo tre anni dopo fra navi di fabbricazione veneta ed acquistate all’estero ve n’erano 112 (di cui 77 di portata superiore alle 300 botti) accanto ad altrettante marciliane tutte indigene (47).

Secondo le ricerche di Ugo Tucci, che segnala ben 15 unità prodotte dai cantieri veneziani fra il 1692 ed il 1693, la flotta mercantile avrebbe contato 55 navi a quattro alberi (delle quali 35 acquistate all’estero) nel 1694, oltre a 43 marciliane a due coperte ed a 27 ad una sola coperta; cinque anni dopo il numero delle navi sarebbe asceso a 69 e quello delle marciliane a 78 (48). Che, soprattutto comparativamente, non si trattasse più di una grande marina era evidente, per quanto a quel livello mobilitasse nel momento più alto varie migliaia di uomini. Se ci si riferisce infatti al 1672, una nave di circa 300 tonnellate aveva in media un equipaggio di almeno 25-30 persone, una di 400 da 40 a 50, mentre quelle sulle 150 tonnellate e le marciliane equivalenti ne contavano tra le 15 e le 20. Nei primi decenni del Settecento, mentre il numero dei mercantili di origine forestiera rimase alto ed anzi maggioritario, la consistenza complessiva del naviglio non variò di molto. Nel 1710 Si annoveravano 77 bastimenti, dei quali 46 di fabbricazione estera con larghissima prevalenza francese, nel 1714 erano 60 (con una media di 450 botti) e nel 1722 se ne contavano una cinquantina, come del resto nel 1738 (49).

Senza alcun dubbio l’esigenza della sicurezza della navigazione era fondamentale per i mercantili veneziani, esposti tanto ai corsari quanto — come appartenenti ad una nazione neutrale — agli attacchi ed ai sequestri degli Stati occidentali dell’epoca fra loro belligeranti. Come si è già accennato, i sistemi di protezione contro tali pericoli erano tre: la scorta militare, il viaggio in gruppo o in vero e proprio convoglio e l’assicurazione. La protezione navale almeno indiretta era acquisita nelle aree sorvegliate e perlustrate dalle squadre navali della Serenissima: l’Adriatico, lo Ionio orientale ed in qualche misura almeno alcune zone dell’Egeo. I comandanti militari si facevano un obbligo ed un costante impegno di salvaguardare i mercantili, soprattutto in tempo di pace, considerandoli praticamente come il loro principale dovere. Tuttavia dagli ultimi decenni del Cinquecento in poi e per tutto il Seicento la pirateria mediterranea raggiunse la massima intensità. Le unità navali della Repubblica furono lungi dal poterla fronteggiare ed imbrigliare in modo sufficiente anche in quei mari che lambivano i possedimenti dello Stato da mar. Ma è il caso di segnalare qui che l’incidenza reale delle insidie corsare, già insufficientemente nota per il secolo XVI, è stata ancor meno esplorata per il periodo successivo al 1630 e non si è affatto in grado di valutarla in modo adeguato.

Non stupisce comunque che si facesse strada l’idea di ricorrere alla navigazione in convoglio. In apparenza ci si sarebbe potuti aspettare che i viaggi in conserva e sotto scorta venissero organizzati assai più presto e su più vasta scala. La Serenissima infatti vantava in merito un efficace ed anche redditizio passato tre-quattrocentesco. Della ammirabile organizzazione delle mude tardomedioevali e rinascimentali nondimeno restava ora solo il collegamento con Spalato, senza dubbio di assai notevole valore commerciale ma di non ardua attuazione marittima, che peraltro le guerre con il Turco disturbarono a lungo. Di fatto, nel secolo XVII i convogli diedero più luogo a dibattiti ed a tentativi vari che ad una vera e propria realizzazione. Numerosi furono i decenni durante i quali si continuò a far assegnamento sulle proprie squadre navali, che però non avevano come compito esclusivo la scorta dei vascelli da carico e non di rado erano frenate nella loro azione da impellenti carenze logistiche. Risulta poi abbastanza chiaramente che, malgrado gli interventi governativi, mancasse almeno in parte una vera e propria continuità di coordinamento fra le mosse delle unità militari e quelle dei mercantili. Tale proficua saldatura era d’altronde sovente poco agevole, non solo per gli imprevisti insiti nelle condizioni meteorologiche e nella mobilità degli attaccanti corsari ma per i movimenti stagionali ed obbligati delle galere o di altre navi della flotta.

Mentre almeno dal 1618 si propose di assicurare la navigazione incaricando il provveditore generale da mar di far proteggere i bastimenti da carico, un primo abbozzo di scorta organizzata si delineò fra il 1624 ed il 1625. Due galere grosse avrebbero dovuto accompagnare due mercantili fino ad Alessandretta, dove li avrebbero lasciati per dirigersi su Candia: di là sarebbero tornate ad Alessandretta per navigare insieme con essi fino a Corfù (50). Non si trattava di un vero e proprio convoglio, anche se i criteri di questo intervento puntuale si ritroveranno mezzo secolo dopo quando si tradurranno in pratica i rari esempi di navigazione organizzata in conserva. Mentre la sorveglianza navale veneziana si focalizzava nelle acque di Sapienza e della Morea e soprattutto fra Cerigo e Zante (non ritenendosi necessario proteggere i mercantili maggiori all’interno dell’Adriatico), si riconosceva nel 1626 che la scorta di una sola galeazza non era più sufficiente nel Mediterraneo orientale: si predisponeva quindi che i mercantili partissero insieme «con le mude di Cipro e Soria, perché riceveranno il beneficio della scorta delle galere grosse» (51).

In quegli anni ed almeno sino allo scoppio della guerra di Candia si continuò quindi a contare sulle mude ed a proporre delle carovane nelle acque del Levante, mentre nel cuore del conflitto si presero talora delle misure per promuovere la navigazione in conserva sotto la salvaguardia delle forze navali (52). All’indomani delle ostilità un programma di convogli, evocato fra il 1671 ed il 1672 dai rappresentanti degli armatori, venne finalmente varato nel 1676. In quell’occasione i cinque savi alla mercanzia lo sostennero per «il numero copiossissimo de’ legni rapiti dalla voracità e forza de pirati dal tempo dello stabilimento della pace» (53). Libere ormai dall’obbligo di unirsi alle squadre militari ottomane, le agguerrite unità barbaresche si erano ovviamente potute dedicar di nuovo su larga scala alla pirateria.

Per quanto nel 1676 si fosse deciso di organizzare per il Levante almeno due convogli all’anno, uno in febbraio ed uno in giugno, tre soltanto vennero realizzati fra il 1677 ed il 1681. Eppure si era fatto il possibile per indurre i mercantili a parteciparvi, non solo assicurando loro una scorta adeguata ma infliggendo una forte ammenda ai vascelli che avessero viaggiato da soli durante il periodo di navigazione riservato ai convogli e proibendo loro di riscuotere le assicurazioni in caso di sinistro. Ma lo Stato, che aveva nello stesso tempo richiesto ad ogni nave così protetta di contribuire alle spese versando 300 ducati per ogni viaggio, riuscì in modo assai insufficiente ad armonizzare i movimenti delle navi da guerra con quelli dei mercantili. Ancora peggiore fu la regolarità dei tempi di carico di questi ultimi, cosicché ogni periodo di convoglio invece di limitarsi a tre mesi si andò dilatando perniciosamente.

Non vale quindi molto la pena di esporre nei particolari il programma che venne assai accuratamente previsto prima dell’inizio dell’operazione soprattutto per servire i porti di Costantinopoli, Smirne, Cipro, Siria ed Alessandria (54). Di fatto, ed ovviamente suscitando parecchio disappunto, solo tre navi si presentarono alla partenza del primo convoglio. Il notevole ritardo dei loro movimenti costrinse a raddoppiare la scorta armata mentre vari mercanti si servirono di vascelli forestieri per effettuare carichi in Levante e portarli fuori Venezia, in particolare a Livorno (55). Quest’ultima piazza, d’altronde, organizzava anch’essa dei convogli che avevano miglior esito di quelli varati dalla Serenissima, impigliati fra norme talora contraddittorie, per non parlare della tendenza degli interessati a caricare all’ultimo momento. Così, dopo il convoglio del luglio 1677 e quello del gennaio 1678, si rinunciò ad allestirne nel 1679 e nel 1680 riducendosi ad uno solo nel 1681, tranne che per Costantinopoli e Smirne, per mancanza di capitali e di negozi (56). Abbastanza chiara apparve la disfunzione fra i tempi dei convogli e quelli dei mercati levantini nonché con i ritmi delle carovane turche: né stupisce che i comportamenti ed i pareri nei confronti dell’iniziativa risultassero discordi per parecchi anni, contribuendo alla sua attuazione saltuaria. La lentezza dei movimenti dei mercantili che vi partecipavano provocava maggiori spese per le ciurme, l’eventuale deperimento delle merci e minori profitti, l’arrivo concentrato dei vascelli nei porti interessati turbando per di più il gioco della domanda e dell’offerta (57).

Nondimeno l’alternativa del ricorso alla navigazione in convoglio rimase viva ed aperta non solo sino ai primi decenni del Settecento ma anche all’indomani della guerra conclusa nel luglio del 1718 con la pace di Passarowitz, che sancì la perdita veneziana della Morea. In quei frangenti ci si stava ormai orientando verso l’apertura di trattative dirette con i Barbareschi, pur continuando a sperare nei convogli (che talora erano stati raccomandati altresì, ma senza seguito, per i viaggi di Ponente). È certo che il governo veneziano non fece sempre tutto il possibile, o non con sufficiente chiaroveggenza, per la loro riuscita. Ma i persistenti contrasti e le incertezze fra i mercanti della piazza, e soprattutto la situazione marittima e politica internazionale, contribuirono ancora di più al loro scarso rendimento (58).

L’iniziativa dei convogli poté dunque recare un sollievo parziale ed assai sporadico al peso delle sicurtà che gravavano sulla navigazione veneziana. In questo campo si è però troppo largamente privi di indagini in qualche misura puntuali e si possono azzardare quindi soltanto delle ipotesi per il periodo successivo al 1630. Una fonte abbastanza rara ha permesso di ricostituire su una larga base documentaria l’andamento dei tassi assicurativi lagunari in particolare per l’inizio dell’ultimo decennio del Cinquecento (59). Si dispone per il Seicento di numerose tracce sulla normativa e sul mercato delle sicurtà, ma di scarsissimi riferimenti ai premi praticati.

Poiché in materia non mancano le espressioni icastiche, ancor all’inizio del Settecento i cinque savi alla mercanzia — riprendendo un convincimento già espresso almeno un secolo prima — consideravano l’assicurazione marittima «la pupilla del negotio» e la «radice intrinseca e fondamentale» di esso (60). A Venezia nondimeno, sino ai primi anni del secolo XVIII, era espressamente vietato che qualsiasi membro dell’equipaggio potesse assicurare se stesso, le sicurtà dovendo avere per oggetto solo il carico ed il vascello. Varie altre furono le limitazioni su questo piano a cominciare da quella riguardante i bastimenti: essi potevano essere coperti dal rischio al massimo per i due terzi del loro valore, dopo la stima che ne doveva essere effettuata prima della partenza (61). Oltre alle vere e proprie frodi, molto diffusa era l’inosservanza delle più varie norme, persino da parte di quegli stessi che tenevano le fila di tale negozio e cioè i sensali. Questi ultimi, ad esempio, avrebbero dovuto fin dal 1606 portare ogni mese ai consoli dei mercanti la nota delle sicurtà stipulate e dei sinistri avvenuti. Per quanto in seguito ciò fosse stato di nuovo ingiunto loro, non solo nel 1708 essi non avevano cominciato a farlo ma in quell’anno non si tardò a sospendere la messa in pratica di tale disposizione (62). Ai sensali d’altra parte venne riconosciuta nel 1650 l’alquanto pericolosa facoltà di ritoccare il tenore delle polizze già redatte, a maggiore soddisfazione delle parti contraenti (63). Si deve nondimeno ammettere che il protezionismo delle autorità le induceva talora a prescrivere obblighi magari eccessivi, come quello di dimostrare ai cinque savi alla mercanzia che le merci assicurate fra piazze diverse da Venezia vi sarebbero in ogni caso state condotte entro dieci mesi (64).

Che le gravi peripezie della guerra di Candia influissero negativamente sul mercato assicurativo veneziano non dà adito a dubbi. Se ne ha manifestamente la prova nei registri del senato, nei quali correntemente si annota che le numerose navi armate in partenza per recare rifornimenti a Creta ottenevano licenza di partire «senza le ordinarie sicurtà», «mancando gl’incontri delle assicurationi», affinché il servizio pubblico non venisse a subire eccessivi ritardi (65). Da un lato il numero degli assicuratori disposti a garantire quei vascelli si era estremamente ridotto, dall’altro i tassi richiesti si erano fatti praticamente proibitivi. Situazioni del genere si riprodussero nel corso del conflitto con gli Ottomani che si prolungò dal 1684 al 1699. Un anno particolarmente infausto, il 1692, mette in rilievo come non solo le operazioni militari ma anche un’ondata di perdite mercantili gettassero lo scompiglio nella sfera delle sicurtà marittime. Allora si denunciarono infatti i sinistri di ben 65 bastimenti e vennero accusati danni assicurativi per 260.000 ducati. L’anno successivo era estremamente difficile trovare a Venezia chi consentisse a coprire i rischi della navigazione e gli interessati non sapevano far di meglio che cercarli fuori della piazza, mentre i sensali denunciavano il mancato versamento dei premi (66). Non sorprende che in una simile temperie le sicurtà stipulate ancora nell’emporio realtino riguardassero quasi esclusivamente le merci che non lo toccavano ma che viaggiavano da un posto estero all’altro.

Qualcosa di simile si verificò nei primi anni del Settecento, a partire dal 1702, quando le ripercussioni del conflitto fra i Borboni e le altre potenze europee ricaddero assai pesantemente sui vascelli della Serenissima, allora neutrale. Le navi francesi infatti, oltre a quelle che battevano le bandiere di Spagna, Napoli e Sicilia, si diedero ad una lunga serie di aggressioni, applicando norme arbitrariamente decretate dai loro governi (delle quali gli assicuratori veneziani rifiutavano di subire le conseguenze). Bastava infatti che il bastimento non fosse stato fabbricato nello Stato di San Marco o fosse stato comprato prima ancora del conflitto in corso in paesi schieratisi poi contro i Borboni, oppure commerciasse con i loro nemici, perché le navi e le autorità borboniche ritenessero legittimo sequestrarlo. Soprattutto nel 1711 non si riusciva più a stipulare contratti di sicurtà ed i mercanti giungevano a rinunciare a far partire i mercantili, che rimanevano bloccati nel porto (67). Infatti fra il secondo semestre del 1709 e gli inizi del 1710 erano state catturate almeno una diecina di navi e si era tanto più preoccupati in quanto 46 bastimenti veneti su 77 erano allora comandati da capitani forestieri: nel febbraio del 1710 si calcolava così che il danno provocato agli assicuratori sfiorasse i 200.000 ducati, mentre fra la fine del 1710 ed il maggio del 1711 si era verificata quasi un’altra ventina di prede (68). Più tardi, nel gennaio del 1718, peraltro proprio quando si illustravano le misure navali prese e da prendere contro di loro, si accusavano i Barbareschi di essere la causa degli alti costi dei mercantili veneziani, che essi avrebbero costretto ad enormi spese per la difesa (69).

Si è accennato al carattere eccessivamente episodico dei dati sull’attività dei sensali (70), sull’ammontare dei premi assicurativi annuali (71) e soprattutto sui tassi praticati sulla piazza in questo periodo. Non si ricaverebbe infatti gran che dalla notizia fornita dai cinque savi alla mercanzia il 18 agosto 1703, secondo la quale i tassi variavano allora a Venezia fra il 3 ed il 20% (72). Uno spiraglio senz’altro più chiarificatore — anche se per ora limitato nel tempo — è quello aperto dai contratti parigini del 1672. Essi riguardano pressoché tutte le rotte percorse dai mercantili della Serenissima fuori dell’Adriatico e cioè in viaggi di lungo corso. È vero che si tratta di riassicurazioni in seguito a sicurtà stipulate nella piazza realtina: ma per la loro coerenza e costanza, oltre che per il loro frequente ricorrere, si può abbastanza legittimamente pensare che il livello dei tassi parigini fosse in correlazione con quello dei tassi veneziani di quel momento.

La prima impressione che deriva dai vari premi richiesti sulle diverse rotte è che, in quella congiuntura di pace almeno relativa in Mediterraneo, i tassi fossero assai prossimi a quella che si può definire la normalità. S’intende con questo che quei valori non si discostavano gran che da quelli praticati nell’ultimo decennio del Cinquecento nel porto lagunare. Ugo Tucci ha segnalato bensì che per un viaggio da Venezia a Lisbona nel 1670 era stato pagato il 10% (73), mentre su tre navi francesi rispettivamente di 160, 200 e 250 tonnellate a Parigi il tasso fu del 7,5% nel gennaio del 1672 per il viaggio da La Rochelle a Malta e del 6 e 7% su di un altro vascello forestiero — il Tempio di Salomone appunto da Venezia a Lisbona (74). Ciò non toglie che su di una nave inglese — la Britain — venne richiesto 1’8% sulla piazza francese (75) per il percorso Lisbona-Venezia ed a quanto pare solo il 6% per l’identico viaggio effettuato dalla veneziana Santissima Nonciata di 140 tonnellate (76).

Questi dati potrebbero parere insufficienti per mostrare che le sicurtà sui bastimenti della Serenissima da un lato corrispondevano allora a quelle praticate su altre piazze e per navi forestiere e dall’altro erano appena superiori a quelle stipulate alla fine del Cinquecento. Si aggiungerà quindi che su tre vascelli francesi si assicurò a Parigi al 5% rispettivamente per i tre collegamenti levantini da Venezia a Costantinopoli, dalla Siria a Venezia e da Venezia a Smirne mentre il medesimo tasso risultò praticato su varie navi veneziane da Venezia a Costantinopoli come dalla Siria a Venezia e da Venezia a Smirne (77). Potremmo del resto citare in proposito il tasso del 4% sulla Madonna del Carmine e sulla Santa Giustina, ambedue veneziane, per la rotta Siria-Venezia (78), mentre allo stesso livello si situavano in genere i premi per la linea di Alessandria.

Non v’è dubbio che anche nel 1672 questi viaggi di Levante su bastimenti della Serenissima potevano essere sottoposti a tassi non solo del 6% ma anche dell’8%. Assai chiaramente però si trattava di una minoranza di bastimenti e peraltro non di quelli meno provvisti di artiglierie (79). Comunque anche sulle rotte di Ponente, sulle quali i premi erano pressoché da sempre stati più alti, nel 1672 il livello risultava piuttosto moderato. Tra Venezia e Londra, sempre su bastimenti veneti, si registrava bensì il 12% — come era tradizione d’altronde — ma non meno di frequente il 10% e sulla rotta di Rotterdam l’11,5 ed il 12% (80). Mentre le destinazioni di Napoli, Civitavecchia e Livorno si attestavano sul 4%, i porti della Sicilia e di Malta richiedevano dal 3 al 3,5%, Tunisi il 4,5%, Marsiglia, Alicante, Cartagena, Malaga il 5 e più di rado il 6% (81). A titolo comparativo si citeranno, sulla rotta Venezia-Livorno o viceversa, i casi dell’inglese Black Death al tasso del 6% e del francese Etoile de la Mer al 4% (82). Data la relativa rarità di simile contratto nel porto lagunare si menzionerà infine il tasso di un contratto stipulato per una durata invece che per un preciso itinerario. Sulla nave veneziana Madonna del Buon Cammino si assicurò al 2% al mese per un periodo di sei mesi di navigazione nel Mediterraneo (83).

Il servizio navale

In materia di navigazione veneziana, anche se non solo di essa, risulta abbastanza arbitrario operare una distinzione molto netta fra quella normalmente definita mercantile e quella qualificabile come militare. Divari fra le due forme innegabilmente vi furono, ma i gradi di essi vanno precisati all’interno delle varie marine e dei diversi periodi e scacchieri delle loro attività. Di fronte alle differenze si verificarono sempre in varie misure non solo degli stretti rapporti ma delle osmosi vere e proprie e comunque molteplici nessi. Questo era largamente vero a Venezia, anche se ad esempio nel periodo esaminato qui i capitani dei mercantili non erano più dei nobili e quelli delle unità della flotta rimasero in genere dei membri del patriziato. La fase successiva al 1630, e cioè il novantennio trattato qui, come si è già dovuto ricordare, si distinse inoltre per il fatto che durante più di quarant’anni Venezia affrontò tre guerre navali. Nel corso di esse, per una congiuntura militare ma anche mercantile di notevole rilievo e di indubbia novità, i bastimenti normalmente considerati da carico ed utilizzati come tali vennero chiamati ad esercitare funzioni chiaramente belliche, come del resto — lo si è già visto — i mercantili si dovettero munire sempre più sistematicamente di armi di bordo e di armati anche per i loro viaggi commerciali.

Si trattò, in ambedue le sfere, di un processo assai lungo e vasto. Non foss’altro che per questo emerge l’esigenza di non limitarsi a considerare la navigazione esclusivamente sotto il profilo nautico e dei traffici. D’altra parte, sia per la società veneziana che in particolare per il suo patriziato, la sfera delle operazioni navali costituì in questa fase una dimensione sovente totalizzante, che comprendeva cioè non solo le attività dell’Arsenale o quelle del comando sulle unità della flotta ma ovviamente la raccolta e la destinazione delle risorse di tutto lo Stato e quindi decisioni politiche e notevoli opzioni sociali. Una storia delle guerre della Repubblica sul mare in questo periodo è stata fatta, se pur in modo che ormai si può considerare abbastanza insufficiente (84). È divenuto infatti chiaramente comprensibile che in generale una guerra investe numerosi settori della società che la conduce e la nutre, non le sue sole e cosiddette forze armate. Non v’è quasi bisogno di sottolineare in quale alto grado questo si verificasse per una città come Venezia, che si batté allora solo nello Stato da mar e soprattutto proprio sui fronti marittimi. Appare quindi superfluo insistere sulla necessità di esaminare alcuni aspetti principali della navigazione veneziana che riguardarono appunto in modo preminente operazioni navali.

Si cercherà innanzitutto di evocare l’insieme degli impegni organizzativi, finanziari, logistici oltre che militari in senso lato, che Venezia si sobbarcò dopo il 1630. Solo nel Trecento la città lagunare aveva dovuto far fronte a conflitti marittimi prolungati, anche se mai così protratti come nel Seicento. Almeno dalla caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, la Serenissima si era battuta sul mare contro di essi in rarissime battaglie: tre nel corso di circa duecento anni. A chi la considera in forte declino nel Seicento dovrebbe apparire come incredibile che quasi da sola essa non soltanto resistesse così a lungo ma risultasse vittoriosa in alcune campagne terrestri combattute lontano al di là dei mari e soprattutto fosse vincente in quasi tutti i conflitti navali. Non s’intende certo negare delle evidenze, ed in primo luogo quella che sulla scala internazionale la Serenissima era ormai una potenza piuttosto di terzo che di secondo ordine. Ma non ci si può attenere esclusivamente a questa considerazione comparativa che non sarebbe meno fuorviante della adozione — con risultati tanto diversi — della scala delle opere musicali create in quel periodo dalla compagine lagunare.

Le prove di vitalità di quest’ultima furono certo differenti nel Quattrocento da quelle offerte nel Seicento. Se per il Quattrocento tuttavia non viene considerato come un sintomo di declino il generale ricorso ai mercenari terrestri, non è del tutto giustificato definire come tale la parziale messa in opera di forze marittime forestiere all’interno dei propri ranghi. Venezia si giovò nel Seicento degli apporti che la congiuntura le offriva e completò allora non più di altri Stati le milizie proprie con quelle estere. Ma l’ampiezza e l’efficacia dei suoi interventi furono così notevoli che la Serenissima pervenne ad esempio a difendere per circa un quarto di secolo, contro un nemico agguerrito ed incalzante, un’isola e la sua capitale lontane circa 1.500 chilometri.

Per questo ci appare significativo osservare innanzitutto il ritmo dei rifornimenti che per almeno cinque anni Venezia convogliò appunto verso Candia, nel cuore del conflitto che da quest’isola ha preso il nome. Fra il 1654 ed il 1658 infatti — come naturalmente sin dall’inizio di quella guerra e per venticinque anni — il governo lagunare sostenne le sorti di quella città assediata con l’invio di ogni sorta di aiuti: dai soldati e dai pezzi di artiglieria ai remi ed agli alberi delle unità navali, dalla farina, dal riso e dal biscotto alla polvere da sparo, ai legnami e ad altri vari quanto indispensabili «apprestamenti». Tutto questo proveniva esclusivamente da Venezia, che all’uopo concentrava verso di sé uomini e materiali, raccolti in buona parte altrove, ma li metteva in opera e li inviava attraverso il suo fulcro lagunare, grazie al proprio impulso organizzativo ed alla navigazione da essa orchestrata.

Anche attenendoci soltanto ai relativi contratti menzionati nei registri del senato, 18 furono i mercantili armati che vennero fatti partire per Candia nel 1654, 35 nel 1655, 22 nel 1656, 15 nel 1657 e 28 nel 1658. Non è sempre agevole distinguere quelli che erano propriamente veneziani dai vascelli delle varie altre nazionalità (soprattutto olandesi e poi francesi, inglesi, maltesi e persino amburghesi, genovesi o ragusei). Stando ai dati che riguardano il 1655, su 35 bastimenti circa un quarto erano veneziani. Si trattava in genere di navi fra le 300 e le 50o botti: assai più raramente di bertoni, petacchi, pinchi, tartane, fregate o saiche — naturalmente ben difese e pagate in proporzione al loro carico (85). Si realizzò così un flusso robusto e continuo fra la capitale e la remota piazza assediata, che appunto in virtù di esso fece fronte per un quarto di secolo agli attacchi di cui era senza posa bersaglio.

Come si dovrà sottolineare in seguito, questo essenziale afflusso di rifornimenti era reso possibile dalla continua superiorità navale veneziana non meno che dalla solerte ed avveduta struttura logistica realizzata dalla Repubblica. Tutti questi mercantili, che navigavano spesso in conserva, erano presi al suo servizio per un determinato viaggio, ma assai sovente ne compivano vari altri di seguito. Si è già ricordato che quasi regolarmente viaggiavano privi di copertura assicurativa, inconveniente che non sembra peraltro aver pesato sulle loro prestazioni: il numero dei loro cannoni era comunque generalmente abbastanza cospicuo, in media una buona ventina, anche se molto di rado superava i 35 (86). In rari casi questi bastimenti erano destinati a trasportare non rifornimenti mai più alti comandanti che andavano a raggiungere la flotta sul teatro delle operazioni. È quanto accadde ad esempio alla cospicua nave veneziana San Giorgio, munita di 28 cannoni e con una cinquantina di uomini a bordo, incaricata di ospitare il capitano generale da mar «con sua corte» nell’ottobre del 1655 (87).

Nell’insieme questi mercantili costituirono una notevole flotta sussidiaria e nello stesso tempo indispensabile per le operazioni della guerra di Candia come per quelle dei due conflitti navali successivi. La partecipazione dell’armamento veneziano fu senza dubbio nettamente minoritaria ma non insignificante. Comunque tutta la messa in opera di tali rifornimenti ed aiuti poggiò sulle risorse di ogni genere di cui Venezia fu direttamente o indirettamente all’origine e che si dimostrò in grado di creare. Non v’è dubbio che anche dallo Stato di Terraferma — e non solo da quello da mar — la Serenissima trasse uomini, materiali e soprattutto mezzi finanziari per far fronte alle esigenze di quei numerosi decenni di guerra. La navigazione calamitò nel corso di essi tutta una somma di energie che non parrebbero sgorgare da una potenza proprio in declino.

Nondimeno questo vasto supporto soprattutto logistico fu soltanto uno dei due maggiori aspetti sotto i quali la navigazione sostenne le fortune della Repubblica fra il 1645 ed il 1718. Un buon numero di mercantili venne noleggiato allora a scopo specificamente militare. Venezia non volle certo rinunciare alle sue squadre di galere e nemmeno alle sue pur lente e pesanti galeazze sino al Settecento. Ma non tardò a rendersi conto — come del resto ne divennero consapevoli gli Ottomani — che ormai delle efficaci operazioni navali non potevano essere condotte senza il potente sussidio di mercantili adattati ad uso di guerra. Questo ampio fenomeno aveva caratterizzato da gran tempo le marine atlantiche, da quella inglese ed olandese a quelle dei Francesi o dei Castigliani. Come è noto, in Inghilterra ci si era già avviati intorno alla metà del Seicento verso la costruzione di vere e proprie navi di linea, preminentemente concepite per i conflitti navali. Non era ancora questo il caso di Venezia al tempo della guerra di Candia, anche perché a suo modo la Repubblica aveva da gran tempo una flotta specializzata da guerra ed era portata ad accordare la propria fiducia a quelle unità che tradizionalmente l’avevano difesa. Nondimeno essa si era già volta nella prima metà del Seicento a rinforzare le proprie squadre con mercantili trasformati in unità militari, oltre ad apprestare sempre più nell’Arsenale delle navi da guerra di alto bordo, sul modello dei bastimenti atlantici e ben diverse dalle galere ed anche dalle galeazze.

Mentre per i rifornimenti da trasportare sul teatro delle operazioni le autorità veneziane entrarono in genere direttamente in contatto con i capitani di vascelli disponibili e giudicati adatti, per i bastimenti ad uso propriamente bellico esse si rivolsero di preferenza a noti mercanti forestieri operanti nell’emporio realtino al fine di assoldarne un numero sufficiente e di poter contare da un anno all’altro su squadre vere e proprie. Si può citare ad esempio il contratto per ben 10 navi da guerra stipulato nel 1655 per il tramite dell’olandese Giovanni van Alst, mentre come intermediario in questa materia intervenne in quell’anno anche l’inglese James Stricher, pure dimorante e negoziante a Venezia (88). Per i vascelli francesi i magistrati della Repubblica presero regolare contatto con il console di Francia ed in modo analogo si comportarono per assumere le più rare navi da guerra maltesi o genovesi.

Il governo veneziano fissò dettagliate condizioni per ingaggiare questi bastimenti nella sua flotta militare. Essi dovevano avere a bordo almeno 60 uomini tra marinai e bombardieri, portare un elevato numero di cannoni precisato di volta in volta e sottostare all’obbedienza dei comandanti navali della Repubblica. In compenso i loro capitani ricevevano somme abbastanza cospicue per l’ingaggio della loro nave equipaggiata di tutto punto, sia pur diverse per le varie caratteristiche di ciascuna, varianti fra i 700 ed i 2.100 ducati mensili (89). Abitualmente alla partenza venivano corrisposte a queste navi armate 2 mensilità anticipate, altre 2 venivano versate 6o giorni dopo ed il resto mese per mese (sovente un terzo in zona di operazioni e due terzi a Venezia, a chi ne rappresentava gli interessi). Come per i bastimenti destinati alle forniture, per queste navi da guerra non è sempre agevole identificare la nazionalità, una fregata Contarina — ad esempio — venendo definita vascello olandese (90). In ogni modo su almeno 36 contratti di noleggio rilevati fra il marzo 1652 ed il gennaio 1659, 7 riguardarono vascelli certamente veneziani e cioè mercantili che andavano ad unirsi alle squadre di combattimento. È superfluo sottolineare che non solo non si tiene conto in questo calcolo delle numerose barche armate che prestavano servizio in Dalmazia e venivano costruite in Arsenale (91), ma soprattutto si tralasciano le squadre di proprie navi da guerra che, in aggiunta alle galere ed alle galeazze, la Repubblica allestì di anno in anno e che si distinsero per la loro eccellente riuscita in una lunga serie di operazioni navali.

Nella maggior parte dei casi queste navi assoldate per le campagne belliche, in grande maggioranza olandesi, diedero risultati soddisfacenti mentre con il loro numero testimoniano l’ampiezza dell’impegno della compagine veneziana per assicurare e difendere i propri destini sul mare (92). Eccezionale appare infatti l’atto di fellonia del vascello inglese La Concordia: sottratto nella primavera del 1655 dal suo equipaggio al servizio navale pattuito per metterlo in vendita, esso venne ricomprato e riportato nelle file della flotta (93). D’altra parte l’obbligo di imbarcare anche un contingente di soldati diede almeno talora adito a degli inconvenienti. I componenti di tali milizie sovente non sopportavano il mare e quindi nel giugno del 1655 si decise di aumentare considerevolmente il numero dei marittimi che dovevano salire a bordo, portandolo da 60 a 130-140, in modo da poter ridurre la quantità dei soldati (94).

Nel conflitto di fine Seicento contro gli Ottomani non solo non venne meno l’impiego di mercantili nelle operazioni belliche ma essi raggiunsero talora un armamento ancor più potente che durante la guerra di Candia. Si ebbero così varie unità provviste di 80 -100 uomini ed armate di 40-55 cannoni (95); una di esse, fabbricata ad Amsterdam e costata 94.000 fiorini, era munita di 5o cannoni e d’un equipaggio di 140 uomini, mentre il prezzo di un’altra analoga era di 138.000 ducati(96). All’inizio del Settecento, in un memoriale ai cinque savi alla mercanzia, i due capitani Pietro Rosa e Francesco Rosso, per non lasciar inattivi questi vascelli dopo la fine delle ostilità, proposero di affidarli ai mercanti per i loro traffici(97), sottolineando anche in tal modo il ricambio e l’osmosi verificatisi fra due settori tanto congiunti in questa fase della navigazione.

L’apporto patrizio

Mentre la documentazione superstite offre tracce piuttosto sommarie sulla gente di mare che navigava in questo periodo sui mercantili, ad uso commerciale o bellico, abbonda di testimonianze sui quadri soprattutto ma anche sulle ciurme delle galere e delle galeazze. Se si tiene a ribadire qui che esula dal nostro compito ricostruire le mosse e le gesta delle squadre navali della Repubblica, non ci sembra ammissibile non soffermarsi alquanto per lo meno sul contesto nel quale agirono i loro equipaggi e sul ruolo che svolsero nel corso delle loro navigazioni. È vero che in modo prevalente ci si riferirà su questo piano ai comportamenti dei comandanti, ma si potrà mostrare nondimeno che essi non agirono affatto da soli. Molteplici furono ovviamente i rapporti che intercorsero fra essi e le loro ciurme, al punto che sotto parecchi riguardi l’insieme di tali legami costituiva la trama di un unico ambiente umano. Quest’ultimo rappresentò dunque l’altro versante, e non si direbbe il minore in questo periodo, della navigazione veneziana, che si deve cercare di considerare nella sua globalità.

È assai malagevole non evocare in primo luogo le condizioni delle migliaia di rematori grazie ai quali in buona parte le galere e le galeazze potevano effettuare i loro vari movimenti e le squadre navali affrontare i loro molteplici compiti. Senza dubbio il problema dei rematori travalica il periodo che qui si illustra: in esso però si innesta di gran lunga più che in precedenza quello dei marinai, per il sopravvenuto e sempre più largo uso delle navi pubbliche e private e degli stessi mercantili armati nei ranghi della flotta. Che la vita delle ciurme militari — fossero esse composte di uomini liberi o di condannati — almeno dalla metà del Cinquecento risultasse esposta a grandi disagi è in buona parte noto. Questo non era meno vero agli inizi del secolo XVII, quando i capi delle squadre li definivano correntemente «miserabili» ed «infelici» (98). Per il Seicento non si tratta tanto di richiamare questa generica se pur realistica constatazione quanto di indicare altresì la drammatica evoluzione di questa folta categoria di naviganti.

Anche se testimonianze piuttosto episodiche possono apparire inadeguate in merito, non pare dubbio tuttavia che non solo la situazione dei vari tipi di rematori si era fatta critica ma tale era divenuta altresì quella dei quadri e degli stessi comandanti. Il 22 ottobre 1642 il commissario inquisitore Sebastiano Venier scriveva infatti da Corfù al suo governo: «Gli offitiali [cioè ammiragli, pedotti, comiti e paroni] non sono, communemente parlando, di quella isperienza et habilità che tanto fioriva in altri tempi [...] Questo ordene si va per giornata anichilando, puochi allevandosi; anzi alcuno de’ più periti [...] invece di perseverare nell’impiego se n’è ritirato alla propria casa» (99). Queste pur gravi affermazioni non escludevano un risvolto positivo: alla vigilia della guerra di Candia si avvertivano delle crepe nelle fila degli ufficiali di marina ma il loro insieme aveva tuttora un’innegabile tenuta. Proprio il conflitto, con le più che brillanti e diuturne prove fornite nel corso di esso, dimostrò da un lato quanto tali organi della flotta fossero ancor solidi e dall’altro contribuì a provocarne l’usura inevitabile e pressoché senza rimedio.

I quadri non erano però i soli a destare preoccupazione: i patrizi alla testa delle unità suscitavano ormai evidenti e talora serie inquietudini. Nel Seicento il loro spirito di dedizione ed il loro coraggioso orgoglio di fronte al nemico non erano praticamente incrinati. Essi si sentivano però più di prima padroni oltre che comandanti delle loro galere, sotto certi riguardi — si vedrà — non senza motivo. Il loro comportamento tendeva in qualche caso all’insubordinazione o mostrava altre pecche, la riottosità a reprimere i propri impulsi di membri di un corpo sovrano affiorando qua e là in maniera visibile nei ranghi della marina militare nei riguardi dei loro pari o dei loro superiori.

Così nell’agosto del 1609 il provveditore dell’armata Agostino da Canal faceva sapere che alcuni sopracomiti si davano ad un traffico illecito di condannati al remo, per prolungarne l’obbligo di servizio (100) Nella primavera del 1626 si registrò un increscioso quanto insolito incidente fra due di questi comandanti, Antonio Giustiniani e Giovan Francesco Morosini, che diressero la propria galera l’uno contro l’altro fino a un dito dall’abbordaggio. Il provveditore dell’armata Natale Donà s’interpose personalmente in tempo, ordinò un’indagine, sospese per un momento il Giustiniani inviandolo agli arresti nella fortezza vecchia di Corfù e poi lo reintegrò, dopo che ebbe fatto pace con il rivale (101). Il 4 novembre 1638 un altro provveditore dell’armata faceva sottoporre ad analoga inchiesta Giovan Alvise Balbi per vari maltrattamenti inflitti ai rematori, alcuni dei quali, esasperati, non avevano esitato a disertare per «farsi turchi» (102). Ad alcuni anni dall’inizio della guerra di Candia Francesco Morosini, pure provveditore dell’armata, doveva constatare anch’egli che certi capitani di nave armata vessavano i propri soldati al punto di provocarne la fuga (103).

In certo senso ancor più vistoso risultò — al seguito di una gloriosa operazione navale — l’atteggiamento di un comandante di squadra, il capitano del golfo Barbaro. Questi si ribellò al proprio provveditore Badoer nel luglio del 1656, non sopportando l’ardire con il quale gli alleati Maltesi s’erano impossessati di una notevole parte della preda conquistata in comune e parendogli che i capi veneziani fossero stati troppo arrendevoli con loro. Non solo il Barbaro diede in escandescenze ma nottetempo abbandonò la flotta per protesta, con evidente scandalo (104). Nel corso della medesima estate quel gesto non rimase d’altronde isolato. Il capitano delle galeazze Iseppo Morosini uscì anch’egli dall’armata senza permesso, con aperta insubordinazione nei riguardi del Badoer, per recarsi prima a Candia e poi tornare disinvoltamente a prendere il proprio posto (105). Dopo il lunghissimo conflitto candiota e la pure annosa guerra successiva di fine secolo non stupirà che all’inizio del Settecento, in occasione del terzo scontro di questa fase con gli Ottomani, si lamentassero larghe e pesanti deficienze nel corpo degli ufficiali di marina (106). La secolare fedeltà alla carriera della milizia marittima ormai vacillava preludendo ad un esito tangibile dai ranghi delle squadre navali (107).

Di fatto, nel corso del Seicento vari fenomeni negativi si vennero a saldare l’uno all’altro, a cominciare dalla scarsità di ciurme, che induceva ed obbligava i sopracomiti a procurarsele con ogni mezzo. Senza dubbio da tempo esse costituivano un problema sotto molteplici rispetti, ma quella della marina militare rappresentava ancora una grande carriera, se non per i rematori almeno per gli ufficiali e soprattutto per i comandanti di unità. Numerosi erano tuttora i membri di parecchie case patrizie per i quali il servizio navale rappresentava una prospettiva oltremodo gratificante. In esso non era dato distinguersi soltanto sul piano civile e militare ma su quello personale. In altri termini il comando di un naviglio della flotta costituiva un investimento pressoché totale con soddisfazioni di primazia, di pompa, di superiorità gerarchica nettamente pronunciate non senza un’esaltazione per la visibilità della propria dedizione all’interesse pubblico. In questa luce vanno viste sia le spettacolari imprese delle squadre veneziane nel corso dei due grandi conflitti della seconda metà del Seicento sia le varie implicazioni dell’impegno globale che esse comportarono.

Una delle esigenze principali della funzione e dell’esercizio del comando a bordo di queste unità era ovviamente quella di disporre appunto di un’adeguata dotazione di rematori. I sopracomiti ed i capi della flotta ne erano coscienti, come ad esempio il provveditore dell’armata Antonio Cappello che nell’autunno del 1639 prospettava addirittura il disarmo di alcune galere per mancanza di ciurme, al fine di rendere almeno le altre atte ai loro compiti (108). I comandanti patrizi tenevano ad evitare il disdoro della sia pur temporanea inutilizzazione della loro unità, nella quale appunto avevano sovente investito anche gran parte dei loro averi. All’indomani di un naufragio subìto proprio all’uscita dalla laguna il provveditore dell’armata Antonio Pisani scriveva: «Vengo con miserabilissimo naufragio a lasciar hoggi a questa punta [di San Piero in Volta] la galea e tutte le poche sostanze che havevo al mondo» (109). In modo ancor più trasparente si era espresso l’anno prima il suo predecessore Natale Donà: «Con l’assenso publico et con mio considerabile interesse ho ne’ mesi passati sostentati et mantenuti nella mia galea huomini oltre il numero ordinario per meglio stabilire il frutto del publico servitio» (110).

Insomma, in mancanza di adeguato finanziamento pubblico o per il ritardo di esso, il sopracomito patrizio non esitava a profondere il proprio patrimonio per non sfigurare con la sua galera nel corso della navigazione e per distinguersi nel servizio della Repubblica (111). Nel 1640 Antonio Cappello parlava della propria ciurma «fatta da me con ogni interesse e senza alcun riguardo alle mie poche fortune» (112). Vari anni dopo uno dei suoi successori, Francesco Morosini, non esitò a chiedere la cessazione delle sue funzioni di provveditore dell’armata per «l’incommodi che caggiona alla mia casa il considerabile capitale di questa ciurma» e già più di un anno prima aveva scritto: «Mi vedo levato il modo di poter più ressistere alle tante spese intollerabili et continue di questa carica» (113). Non stupisce quindi che per colmare i vuoti creatisi nei loro equipaggi, alcuni patrizi non esitassero neppur a comprare le ciurme di altri comandanti (114), mentre era abbastanza corrente denunciare il fortissimo aggravio derivante loro dalla carenza di uomini (115). Com’è agevole immaginare, il fenomeno si protrasse per tutto il secolo XVII, con gli stessi echi da una generazione di comandanti all’altra (116). Né la situazione era certo migliorata all’inizio del Settecento, neppure in tempo di pace. Il provveditore dell’armata Domenico Badocr scriveva infatti il 18 giugno 1711: «Vedo sormontar il dano rissentito dall’abbatutta e miserabile mia casa, che marca la piaga di quattordici e più milla ducati, unica nostra sostanza» (117). Gli faceva eco qualche anno dopo un suo successore, Alvise Foscari: «Estenuata le ristrette fortune della casa da lunghe profusioni in pesantissimi armamenti e nel mantenimento d’una decorosa figura sempre dispendiosa, singolarmente ne’ tempi di guerra [...]» (118).

Quelli che costavano soprattutto erano i rematori liberi, la cui presenza era ancora in certa misura prescritta su parecchie unità militari. «Questa qualità di ciurme di buona voglia [faceva osservare il commissario inquisitore Sebastiano Venier] è pur grandemente necessaria e vale di sollievo singolare a’ condannati e di sostenimento essentialissimo all’armata» (119). Nel 1642, al momento della sua inchiesta, il loro numero superava ancora nettamente quello dei condannati. Per i più diversi motivi non era tuttavia facile procurarsene, per quanto venissero ricercati in particolare dalle isole Ionie all’Arcipelago. Gli stessi condannati, del resto, al termine della loro pena, o i soldati imbarcati, consentivano talora a divenire rematori liberi. Nondimeno già nel 1642 lo stesso Venier definiva i condannati come «la militia principale per il remo» nonché la fonte del «moto» e della «forma» dell’armata (120). Venezia ne era la principale fornitrice, pochi delinquenti venendo puniti in tal modo nello Stato da mar. Fra queste due categorie ne appariva talora una terza: quella dei requisiti, presi per mezzo di drappelli di soldati che li costringevano a forza ad imbarcarsi come rematori (121).

Secondo i Capitolari dei provveditori all’armar, all’indomani della guerra di Candia ogni comandante di galera non esclusivamente ciurmata con uomini condannati (unità che formavano una squadra a parte) doveva avere a bordo circa la metà di rematori liberi (122). Ma la stessa fonte aveva menzionato per l’anno precedente addirittura il ricorso a schiavi «per rinvigorire le galere» (123), mentre precisava poi che nel 1700 ciascuna galeazza doveva imbarcare ancora 120 galeotti di libertà e nel 1710 se ne prescriveva 308 su ognuna (124). Un corpo di rematori professionali, esperti ed avvezzi ai disagi del mare, ricercato da Sebastiano Venier nel 1642, doveva comunque costituirsi sempre meno non solo per le soverchianti esigenze del conflitto candioto ma per l’inaridirsi delle risorse demografiche dello Stato da mar e per le difficoltà finanziarie della Repubblica.

Le ciurme continuavano inoltre a risentire i danni dei fattori logistici legati alla struttura geografica dello Stato da mar, con la fonte di ogni rifornimento — alimentare, navale e finanziario — situata all’estremità dello spazio in cui si dovevano muovere le squadre. Non sarebbe che una lunga litania quella delle richieste incessanti dei comandanti che invocavano l’invio dalla capitale di denaro per le paghe, di palamenti, di tende da inverno per riparare i rematori ed ancor più di biscotto. Nel 1610, ad esempio, il provveditore dell’armata aveva dovuto lasciar in pieno inverno la base di Corfù per risalire fino in Istria a procurarsi il biscotto, i remi e le paghe che gli mancavano (125). Nel marzo 1658 la squadra di Antonio Barbaro s’era vista costretta ad abbandonare Candia per la penuria del vitto e ad andar vagando da un’isola all’altra dell’Egeo per procurarsene (126). Quel provveditore dell’armata anzi gridava al miracolo in quell’occasione, per la straordinaria capacità dimostrata dagli equipaggi delle sue unità di sopravvivere con un quarto della loro normale razione di pane (127).

Mentre queste deficienze potevano esser considerate pressoché croniche (e d’altro canto non vanno esagerate in quanto i documenti si soffermano ovviamente in particolare su di esse senza quasi dar conto di quando le cose andavano molto meglio), tale non era ancora nella prima metà del Seicento la carenza di marinai sulle navi armate. La situazione non tardò a mutare nei decenni successivi, senza dubbio anche per l’incidenza delle quasi ininterrotte campagne navali. Nel 1665 si osservava che, mentre ancor di recente l’Istria, la Dalmazia e le isole Ionie avevano fornito equipaggi, ormai le navi armate non riuscivano più a trovarne a sufficienza (128). Si dovette così avviare una ricerca di marittimi al di fuori dello Stato, dai volontari olandesi reperibili a Livorno nel 1683 alle ciurme di Perasto(129). Era questa una delle più gravi ricadute della estenuante guerra di Candia e del successivo conflitto di fine secolo. La Repubblica si vide costretta ancor in tempo di pace a ricorrere per mezzo del suo ambasciatore a Londra ai marinai d’Olanda o d’Inghilterra e persino a quelli amburghesi, nonché di alcuni porti italici (130).

Senza dubbio simili fenomeni strutturali dimostravano ancor più di altri l’ampiezza della crisi che era sopravvenuta a colpire i settori essenziali della navigazione, in quanto ne intaccavano le fonti umane d’energia e le forze vive. Nei primi decenni del secolo XVIII, la marineria militare e mercantile veneziana appariva seriamente in pericolo sotto questi riguardi. Nondimeno è altrettanto indiscutibile — al di là delle manchevolezze segnalate e pur secondarie ancora, rispetto al rendimento navale complessivo — che nelle due grandi guerre marittime seicentesche essa aveva saputo far fronte nel modo più brillante a tutte le evenienze lungo i quattro decenni del loro svolgersi, con tale ampio ripetersi di audaci imprese e di successi ininterrotti da destar meraviglia in chi l’avesse considerata esausta.

Si è già cercato di mettere in rilievo la profusione di mezzi logistici ed umani che la comunità lagunare seppe mettere in opera, dall’ingaggio dei mercantili per soddisfare le immense esigenze dei rifornimenti all’armamento di navi indigene o forestiere ad uso di guerra. Queste ultime in particolare contribuirono alla diuturna ed eccezionale riuscita della strategia veneziana soprattutto nel corso dei venticinque anni del conflitto candiota. Com’è noto infatti, con una mossa a sorpresa che però i capi da mar della Serenissima non seppero fronteggiare con prontezza, sin dall’inizio delle operazioni gli Ottomani riuscirono a sbarcare a Creta un forte corpo di spedizione. Quest’ultimo però non si rivelò affatto in grado di venire a capo della resistenza delle forze della Repubblica. Da allora e per circa un quarto di secolo s’impose ai Turchi il problema di mantenere ed accrescere la pressione delle loro truppe nell’isola ed ai Veneziani d’impedirlo.

I comandanti della flotta di San Marco optarono allora per una scelta strategica non solo ardita ma di difficile attuazione: quella di andar a bloccare i Dardanelli, in modo da non far passare i soccorsi per il corpo di spedizione nemico. Se Creta era già lontanissima dalla base lagunare, mentre per raggiungerla i Turchi dovevano coprire solo un terzo di quella distanza, le bocche del Bosforo erano a quasi 2.000 chilometri da Venezia. Malgrado ciò, pressoché ogni anno le forze navali della Repubblica si proposero quello scopo andando a schierarsi tempestivamente per sbarrare la strada ai vascelli che tentavano di lasciare Costantinopoli verso Creta. Tale arduo compito, assolto talora anche durante i mesi invernali e reso sovente ancor più difficoltoso dal regime dei venti della zona, venne eseguito soprattutto dalle navi armate, anche se ad esse si unirono molto spesso le galere e le galeazze. Queste audaci operazioni portarono a lungo i loro frutti, tanto più che la maggior parte dei furiosi scontri navali susseguitisi da una campagna all’altra ebbero in genere esiti del tutto favorevoli ai Veneziani. Questi ultimi si dimostrarono cioè per più di duc decenni e non di rado in modo spettacolare indiscutibilmente superiori sul mare, né va dimenticato che questo venne a ripetersi anche nel quindicennio del secondo conflitto di fine secolo.

Un’analisi complessiva di queste due grandi guerre veneto-ottomane darebbe conto della rispettiva incidenza dei vari fattori che intervennero sulle loro sorti. Sul piano della navigazione non si poteva far a meno di accennare al carattere eccezionale del predominio marittimo veneziano in ambedue i conflitti. Essi impegnarono a fondo la Repubblica ed ebbero almeno un duplice aspetto. Da un lato la sottoposero alle prove globalmente più rudi della sua storia sul mare, dall’altro la videro non solo farvi fronte ma prevalere nell’insieme sullo scacchiere navale. Se Venezia ne uscì almeno in parte esausta, nondimeno è giocoforza constatare che per compiere senza posa tali imprese essa rappresentava a suo modo ancora una potenza di primo piano in quella sfera.

Occorre ora in particolare mettere in rilievo un elemento fondamentale e pur sinora sottaciuto: l’apporto patrizio in simili congiunture. Anch’esso andrebbe esaminato in modo più ampio di quanto si possa fare qui: nondimeno esso va sottolineato almeno sul piano della navigazione. Il governo aristocratico lagunare e le sue diverse magistrature o istanze amministrative rappresentarono infatti la guida e la forza motrice di tutte le iniziative in materia, più o meno riuscite che fossero, fra Sei e Settecento forse ancor più che in passato. Quello poi che sotto certi rispetti più conta, i membri delle casate nobili costituirono la spina dorsale non solo della direzione politico-militare ed economico-finanziaria ma soprattutto del funzionamento delle forze marittime così largamente ed efficacemente dispiegate. Al di là dell’eccezionale ardimento che essi costantemente dimostrarono al comando delle loro squadre e delle loro unità non vi fu soltanto una straordinaria vigoria e capacità dei singoli ma una precisa coscienza ed un vivo orgoglio di ceto. L’appartenenza al patriziato per nascita venne a coniugarsi con il senso di responsabilità verso la Repubblica per essere stati eletti dai propri pari all’esercizio delle funzioni marittime, loro tradizionale appannaggio (131).

Non si trattava di una visione fuori del tempo ma di una consapevolezza formatasi nel corso dei secoli. Fra Sei e Settecento essa non solo non risultò scalfita ma fu come riassodata. Potrebbe apparire generico definirla senso dello Stato, in quanto era bensì tale ma più precisamente traduceva l’aderenza ad una sorta di vocazione divenuta connaturale e tuttora sentita nella maniera più profonda. In altri termini il senso dello Stato di cui il patriziato veneziano diede larga e continua prova era di gran lunga specifico alla compagine lagunare e solo per vaga analogia comparabile con quello di altri organismi politici coevi. In particolare il patrizio di questo periodo condivise il convincimento, individuale e collettivo insieme, che sul ponte di comando doveva dare tutto se stesso come godere delle soddisfazioni e dei privilegi che riteneva gli spettassero. Era questa indubbiamente non solo la fonte da cui sgorgavano imprese del tutto fuori dell’ordinario ma una colonna portante della comunità attraverso le sue peripezie storiche nonché una forza animatrice che perdurava nella sua interezza.

In un secolo in cui i fiori della retorica apparivano a gara in ogni sorta di scrittura, né la prosa di questi capi da mar né la loro costante e pur straordinaria condotta mostrarono di ricercarli o di compiacervisi, situandosi prevalentemente fra i due poli della sobrietà e della modestia (132). Per loro e per i loro sopracomiti i termini di dedizione, di sacrificio totale e soprattutto di patria non solo mantennero la pienezza del loro senso ma costituirono le linfe vigorose e la sostanza dei comportamenti quotidiani. Nella loro continua trama si trovarono così esaltati l’attaccamento ai doveri del pubblico servizio (133) e la persistente solidità della Repubblica marittima di cui furono l’anima vittoriosa (134) nel corso di questo periodo (135).

1. Domenico Sella, Commerci e industrie a Venezia nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961. Dello stesso autore anche, nel volume VI di questa Storia di Venezia, il capitolo L’economia, pp. 651-711.

2. Si veda il suo notevolissimo saggio La marina mercantile veneziana nel Settecento, «Bollettino dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano», 2, 1960, p. 158 (pp. 155-200): «La guerra di Candia ha accelerato i tempi di un processo già iniziato da qualche decennio».

3. A.S.V., Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 2, c. 18v, 8 novembre 1710.

4. «Quando vi sia numero di vasselli [si riafferma nel 1644] Si dà trattenimento a tutte l’arti, tutti oprano e travagliano»; cf. ivi, Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 97, fasc. 1.

5. Ibid., fasc. 3, intitolato Navi venete, 8 febbraio 1708.

6. Ibid., fasc. 1, 15 luglio 1602. In quell’occasione si puntava il dito in particolare sugli Inglesi, che erano riusciti a trafficare senza passar da Venezia «perché col progresso del tempo hanno, con le intelligenze et compagnie di mercantie de navi et altri vasselli de sudditi di questo Dominio, potuto defraudare a tutti gli ordini del Levante et particolarmente nel Zante et Zaffalonia hanno havuto in gran parte li appalti di esse uve passe et di vini». Gli Inglesi inoltre avevano portato le loro merci a Venezia soppiantando i Veneziani e distribuito direttamente le merci levantine nei porti del Nordeuropa.

7. Cf. Paris, Archives Nationales, ser. Z 1 D, nr. 77, 7 novembre 1672.

8. Ibid., 6 febbraio e 20 maggio 1672.

9. Ibid., 8 gennaio e 31 maggio 1672.

10. Ibid., 26 marzo e 16 luglio 1672.

11. Ibid., 23 aprile e 16 luglio 1672.

12. Cf. ibid., 20 agosto 1672.

13. Cf. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 107, 10 dicembre 1714.

14. Ibid., b. 97, fasc. 1, 1° agosto 1625, e fasc. 3, 3 agosto 1720. Nel secondo caso si chiedeva di ridurre «la speditione de’ bastimenti alla dipendenza d’un solo magistrato».

15. Cf. ibid., b. 97, 12 luglio 1625, e reg. 347, febbraio 1700.

16. Cf. ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, c. 91v, 24 settembre 1672. Certi stessi privilegi potevano esser considerati inattuali, come quello secondo il quale, «dandosi in nota per qualche scala una nave fabricata a Venezia, non possa altra nave fabricata fuori di Venezia darsi in nota» per il carico; cf. ivi, Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 45, giugno 1683.

17. Ivi, Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 97, fasc. 1.

18. Cf. U. Tucci, La marina mercantile, p. 166.

19. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 97, fasc. 4.

20. Ibid., fasc. — 15 luglio 1602, e b. 6, 1° agosto 1625.

21. Ibid., b. 97, fasc. 1.

22. Ibid. Il 9 luglio 1644 Si precisava che la portata delle navi acquistate doveva situarsi fra le 400 e le 600 botti.

23. Il documento appena citato denunciava la navigazione nelle acque del Levante, per conto dei Veneziani ma sovente per il contrabbando, di «vasselleti e tartanelle» di portata inferiore alle 300 botti: pressoché disarmati, questi navigli praticavano per di più noli molto elevati.

24. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 97, fasc. 3, 8 febbraio 1708.

25. Cf. U. Tucci, La marina mercantile, p. 162.

26. Ibid., p. 155.

27. Ibid.

28. Cf. Paris, Archives Nationales, ser. Z 1 D, nr. 77. Cf. ancora U. Tucci, La marina mercantile, p. 162 per la navigazione veneziana in Ponente nel 1692.

29. Quei magistrati azzardavano addirittura delle previsioni positive: «Deve sperarsi che continui sempre più anche negli anni avenire questo traffico delli bastimenti veneti col Ponente, a respiro e sollievo della povera Piazza» (A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. I, b. 350, nr. 282).

30. Ibid., nr. 287, 27 marzo 1694.

31. Ibid., nrr. 272, 294, 307, 323, 358, 365 e 375.

32. Cf. in merito un rapporto di Pietro Rosa e Francesco Rosso, del 10 gennaio 1704, ibid., ser. II, b. 105 ed anche b. 97, fasc. 3, 28 marzo 1723.

33. Ibid., b. 97, 4 agosto 1714. Ne sarebbe derivata addirittura un’ondata di vendite di mercantili da parte degli armatori messi a disagio anche da una sopravvenuta concorrenza genovese nella stessa Morea allora ancora veneziana.

34. Nel 1675 anzi si affermava ancora che la marinaresca veneta era «reputata la migliore del mondo», ibid., b. 45, 20 agosto 1676.

35. Cf. ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, cc. 120-121, 8 agosto 1682, e U. Tucci, La marina mercantile, p. 168.

36. Cf. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 97, fasc. I.

37. Ibid.

38. Cf. ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, cc. 111v (31 dicembre 1680), 120v (8 agosto 1682) e 123 (3 ottobre 1682).

39. Ibid., c. 120v.

40. Cf. U. Tucci, La marina mercantile, p. 163.

41. Ibid., p. 168 e A.S.V., Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, c. 121v (8 agosto 1682).

42. Cf. A.S.V., Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. I, cc. 109 (26 giugno 168o), 123 (3 ottobre 1682), 250 (12 settembre 1703), 255v e 258v (28 febbraio 1704), 261v-264 (9 giugno 1704); reg. 2, cc. 18v (8 novembre 1710) e 47 (18 luglio 1715).

43. Ivi, Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 105, scrittura di Pietro Rosa e Francesco Rosso, 10 gennaio 1704. Cf. su questo anche ibid., b. 97, fasc. 3, 30 agosto 1714, ove si denuncia «l’inesperienza de capitani e piloti, che screditano il valore della natione ».

44. Frederic C. Lane, Venetian Shipping During the Commercia) Revolution, «The American Historical Review», 38, 1933, pp. 219-239

45. Cf. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 97, fasc. 1, 12 gennaio 1616.

46. CL in proposito il prospetto pubblicato da U. Tucci, La marina mercantile, p. 157 n. 8.

47. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 97, e U. Tucci, La marina mercantile, p. 156.

48. Cf. U. Tucci, La marina mercantile, pp. 164-165.

49. Cf. ibid., pp. 167 e 169 nonché A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, bb. 98 (26 febbraio 1710), 215a, 107 (7 novembre 1714) e 97, fasc. 3 (14 gennaio 1722); e ser. I, b. 348 (12 dicembre 1738).

50. Cf. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 45, 20 agosto 1625. Alla stessa data si parla altresì dell’armamento di due navi fiamminghe prese a nolo per rinforzare la scorta, provvista ciascuna di 6 pezzi d’artiglieria.

51. Ibid., 17 gennaio 1626.

52. Cf. ad esempio ibid., 13 febbraio 1657.

53. Ibid., 2 giugno 1676. Nei Capitolari dei provveditori all’armar le misure per i convogli vengono menzionate già sotto la data del 13 febbraio 1673 (cf. ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, c. 101v).

54. I bastimenti che avrebbero formato il convoglio dovevano ritrovarsi insieme a Corfù, per navigare di conserva sino alle acque di Candia. Le due navi armate avrebbero scortato allora prima i vascelli diretti a Smirne ed a Costantinopoli (ma questi ultimi sarebbero arrivati sul Bosforo da soli), poi avrebbero accompagnato le altre ad Alessandria ed infine protetto quelle per Cipro e la Siria. Al ritorno inversamente i mercantili sarebbero dapprima stati presi in conserva dalle navi armate a Cipro, poi ad Alessandria ed infine a Smirne (dove dovevano convergere quelli arrivati sino a Costantinopoli), per dirigersi insieme fino all’imboccatura dell’Adriatico, donde ciascuno avrebbe proceduto per Venezia per proprio conto. Cf. ivi, Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 45, 20 agosto 1676.

55. Ibid., 5 giugno 1677. Alla stessa data si lamentavano già altri gravi inconvenienti, il convoglio «essendo riuscito con sommo pregiuditio de’ negozianti [...] per esser solamente arrivati in Levante li legni doppo la partenza delle carovane, restando ne’ magazeni invendute le merci et per conseguenza li stessi vuoti anco di carico a questa volta».

56. Ibid., bb. 46 (15 luglio 1680 e 26 maggio 1721), 45 (3 gennaio, 3 marzo e 23 maggio 1682, 27 gennaio 1684) e 105 (18 aprile 1699).

57. Cf. U. Tucci, La marina mercantile, p. 161.

58. Una diffusa critica del sistema dei convogli la si trova in A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 46, 26 maggio 1721.

59. Cf. Branislava Tenenti, I tassi assicurativi sulla piazza di Venezia: secc. XVI-XVII, «Studi Veneziani», n. ser., 10, 1985, pp. 15-55.

60. Cf. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 6, marzo e 22 aprile 1704.

61. Ibid., b. 97, fasc. 1, 1° agosto 1625. Altrimenti, in caso di sinistro, era stato appena prima statuito che non si riscuotesse alcunché dagli assicuratori: anzi gli assicurati erano tenuti a corrisponder loro «il pretio della sicurtà nella summa che sarà conveniente» (ibid., 12 maggio 1624).

62. Cf. Alberto Tenenti, L’assicurazione marittima, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Id.-Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 680-681 (pp. 663-686).

63. Cf. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 6, 20 luglio 1650.

64. Ibid., 20 ottobre 1607.

65. CL ad esempio ivi, Senato, Mar, reg. 118, c. 128v, 10 luglio 1655.

66. Ivi, Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 6.

67. Cf. U. Tucci, La marina mercantile, pp. 163 e 167 nonché A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 98, 2 settembre 1708, ove si rievocano nei particolari le malefatte dei Francesi negli anni precedenti, compiute su tanti mari, da Amsterdam a Rovigno e da Cipro a Messina.

68. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 98, 4-5 e 26 febbraio 1710; ser. I, b. 215a, 5 e 17 febbraio, 30 aprile e 2 maggio 1711.

69. Cf. ibid., ser. II, b. 105, 24 gennaio 1718. Il 2 agosto 1719 Si precisava che per difendere un bastimento occorrevano almeno 60 uomini e 24 cannoni a bordo, ma si aggiungeva che secondo l’esperienza recente neppure così armato un vascello veneziano avrebbe resistito ad uno barbaresco: cf. ibid.

70. Presso un solo sensale sarebbero state stipulate a Venezia 516 sicurtà nel 1700 e 325 nel 1702, mentre la media mensile di quelle realizzate dai 9 mezzani in attività sarebbe stata di 70: cf. ibid., b. 6, 18 e 21 agosto 1703.

71. Nel 1693 i premi assicurativi sarebbero ammontati a più di 200.000 ducati; cf. ibid.

72. Ibid. Nel marzo del 1704 si precisava che per Durazzo, la Puglia e Corfù i tassi erano anche del 2%; cf. ibid.

73. Cf. U. Tucci, La marina mercantile, p. 160.

74. Cf. Paris, Archives Nationales, ser. Z 1 D, nr. 77, 28 gennaio 1672; Si noti che questi tre vascelli non erano particolarmente muniti di pezzi d’artiglieria; per il quarto v. ibid., 13 maggio e 16 luglio 1672. Si noti ancora che, sia pure di rado, almeno sino al secolo XVII, tassi alquanto diversi potevano esser applicati per il medesimo viaggio della stessa nave.

75. Ibid., 15 giugno 1672.

76. Ibid., 23 aprile 1672.

77. Ibid., 9 agosto, 28 settembre e 7 ottobre 1672 (per i navigli francesi) e 20 febbraio, 22 marzo, 29 aprile, 27 maggio, 26 luglio, 3 e 20 agosto 1672 (per quelli veneziani).

78. Ibid., 20 febbraio e 22 marzo 1672.

79. Ibid., 19 e 26 novembre e 23 dicembre 1672.

80. Ibid., 14 giugno, 16 luglio e 16 agosto 1672 per Londra; 19 luglio e 4 ottobre per Rotterdam.

81. Ibid., per Malta, 23 gennaio e 24 aprile 1672; per Palermo, 20 febbraio, 12 marzo e 20 maggio 1672; per Messina, 9 settembre 1672; per Augusta, 4 aprile 1672; per Napoli, 13 maggio 1672; da Civitavecchia, 20 maggio 1672; per Livorno, 16 aprile e 13 maggio 1672; per Tunisi, 3 e 20 agosto 1672; per Marsiglia, 18 novembre 1672; da e per Alicante, 12 marzo, 20 e 22 agosto, 9 settembre 1672; per Cartagena, 29 ottobre 1672; per Malaga, 26 luglio 1672.

82. Ibid., 27 maggio e 26 luglio 1672.

83. Ibid., 27 maggio 1672.

84. Vedi in particolare Mario Nani Mocenigo, Storia della marina militare veneziana da Lepanto alla caduta della Repubblica, Roma 1935.

85. Ad esempio alla nave veneziana San Giorgio vennero corrisposti 2.350 ducati per recare legnami e soldati a Candia nell’ottobre del 1656: cf. A.S.V., Senato, Mar, reg. 120, c. 62.

86. Piuttosto eccezionale è da considerare quindi il caso della saica Sant’Alvise, un naviglio probabilmente catturato agli Ottomani, che portava — anche per il suo ridotto tonnellaggio soltanto 6 periere e 10 marinai. Cf. ibid., reg. 117, c. 329, 7 gennaio 1655. Relativamente non molto armati erano anche i petacchi, piuttosto numerosi in questi frangenti, le tartane e le fregate.

87. Cf. ibid., reg. 118, c. 255. Vedi un caso analogo per il viaggio del capitano delle galeazze, ibid., reg. 120, c. 11v, 7 settembre 1656, e reg. 121, C. 374, 23 gennaio 1658, per quello del governatore delle tre isole Ionie.

88. Ibid., reg. 117, c. 375, 20 febbraio 1655, e reg. 118, c. 57v, 21 aprile 1655, oltre a ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, c. 28, 17 novembre 1651.

89. Così il vascello da guerra veneziano Madonna di Scarpello, con soli 30 marinai, di cui 6 bombardieri, munito di 14 cannoni e periere, venne ingaggiato per proteggere le acque della Dalmazia centrale e meridionale per la somma di 700 ducati mensili mentre la nave inglese Thomas Francis ricevette 2.100 ducati al mese per compiti navali diversi. Cf. rispettivamente ivi, Senato, Mar, reg. 121, c. 43v, 3 marzo 1657, e reg. 117, c. 55, 11 marzo 1654. Analogo a quello della Madonna di Scarpello fu il caso del bastimento pure veneziano Tre Fratelli, al quale per analoga missione vennero attribuiti 950 ducati mensili (aveva un equipaggio di una quarantina di uomini e 21 cannoni): ibid., reg. 47, 22 febbraio 1657.

90. Cf. ibid., reg. 117, c. 57, 18 marzo 1654.

91. Cf. ad esempio ibid., reg. 119, C. 6o, 4 aprile 1656.

92. Non mancano naturalmente gli echi documentari degli esiti positivi dell’impiego di mercantili ad uso di guerra né del trasferimento dei marinai dai bastimenti commerciali a quelli militari: cf. almeno ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, c. 126v, 11 marzo 1683, e reg. 2, c. 46v, 13 luglio 1715. Negli stessi Capitolari si proclamava in materia di navi mercantili atte al combattimento: «E questo il corpo d’armata hoggidi il più necessario, nel quale [...] è riposta la custodia delli Stati del Levante e la protetione del mare»; ibid., reg. 1, c. 289, 28 settembre 1707.

93. Cf. ibid., reg. 118, c. 65v, 1° giugno 1655.

94. Ibid., reg. 119, c. 125, 8 giugno 1655.

95. Citeremo almeno il caso dei mercantili Scala di Giacobbe, Rosendal, Arca di Noè e Diligenza, menzionati ivi, Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 107, 7 luglio 1684, 19 febbraio 1685, 16 luglio 1686 e 12 aprile 1687. V. anche, ad esempio, ibid., ser. I, b. 215a, 9 marzo 1711, e ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, c. 215V, 12 novembre 1695.

96. Ivi, Cinque Savi alla Mercanzia, ser. II, b. 107.

97. Ibid., b. 105, 10 gennaio 1704.

98. Citiamo a titolo di esempio tre sole menzioni in merito: una del capitano in golfo Antonio Civran (ivi, Provveditori da Terra e da Mar, b. 1268, dispaccio da Zara del 13 marzo 1613) e due del provveditore dell’armata Natale Donà (ibid., b. 1209, dispacci dell’11 giugno 1626 e del 30 maggio 1625).

99. Ibid., b. 1242.

100. Ibid., b. 1200, dispaccio da Casopo del 10 agosto 1609.

101. Cf. ibid., b. 1209, dispacci del 10 maggio e 22 giugno 1626.

102. Ibid., b. 1216, dispaccio di Antonio Cappello da Corfù.

103. Ibid., b. 1221, dispaccio del 29 novembre 1653.

104. V. ibid., b. 1222, i dispacci di Barbaro Badoer dell’inizio e della fine del luglio 1656.

105. Ibid., dispacci di Barbaro Badoer del 6 e 11 agosto e del 5 ottobre 1656. Al provveditore non rimaneva che scrivere sconsolato: «Mi conviene sofferir le voci ch’io risento sparse fin nella più minuta gente poiché, ascrivendosi a cause di necessità e di bisogno le fughe de’ Capi principali dell’armata, mormorano ad alta voce i soldati che tanto più lecito a loro riescano le fughe quanto che da più duri patimenti sono costretti procurar lo scampo»; cf. ibid., 11 agosto 1656.

106. In due suoi dispacci il provveditore dell’armata Marco Loredan metteva il dito sulla piaga, scrivendo il 1° dicembre 1716: «Gl’officiali di marina dovendo combattere con la necessità perdono l’amore al servitio et si fissano, più tosto che al buon governo delle galere, all’indagare il modo per poter vivere» e denunciando il 2 agosto 1717 «dieci galere fiacchissime di ciurme, con officiali di marina senza imaginabile cognitione et esperienza»; cf. ibid., b. 1233. Più deprimente ancora il quadro tracciato verso la fine delle ostilità dal suo successore Giorgio Pasqualigo: «Non vomiti, non paroni, non peotti, non altri di questa sfera vi sono, per quanto comprendo, di quel carattere d’attività ch’appariva una volta. Tutto è disapplicatione dal mestiere e tutto nel mestiere è mancanza»: ibid., 8 gennaio 1718.

107. L’8 gennaio 1718 Giorgio Pasqualigo scriveva da Corfù: «Trascorso è il tempo in cui i padri si facevano una solecitudine d’allevarvi [nel servizio navale] i propri figlioli. Hora si fanno un impegno d’allontanarveli»; cf. ibid. Marino Antonio Cavalli, suo successore come provveditore dell’armata, rincarava la dose poco dopo, riferendosi alla marineria «riddotta in constitutione che li buoni e capaci lasciano questo publico servitio per abbracciare il particolare che trovano di più loro utile; donde ne procede che poi rari d’abilità vi s’impieghino e vi s’allevino»; cf. ibid., b. 1235, 11 agosto 1724.

108. Ibid., b. 1216, 28 ottobre 1639.

109. Ibid., b. 1209, 26 maggio 1625. Per le analoghe conseguenze di un altro naufragio vedi il dispaccio del 24 marzo 1658 spedito da Stampalia dal provveditore dell’armata Antonio Barbaro.

110. Ibid., 25 ottobre 1625.

111. Era lo stesso Donà a scrivere il 16 aprile 1626: «Ho convenuto nella sterilità del publico suffragio et nella dispensa di qualche mio particolare peculio distribuito a servitio et commodo della medesima squadra [...]»: ibid. Non meno esplicitamente si esprimeva Antonio Cappello anni dopo: «Il danaro [...] vien subito distribuito da me in paghe, somministrandogliene talvolta [alle ciurme] secondo la debolezza delle mie fortune ancor del proprio in mancanza del publico, con mio incommodo ancora»; cf. ibid., b. 1216, 14 ottobre 1639.

112. Ibid., 21 febbraio 1640.

113. Ibid., b. 1221, dispacci del 18 marzo 1653 e 24 giugno 1654.

114. Ibid., b. 1223, 24 marzo 1658.

115. Il provveditore dell’armata Piero Querini lo fa in termini eloquenti: «Ben m’affligo nel vedermi in avvenire insufficiente alla conservatione di questa galea, capitale forse dei migliori che si trovi nell’armata, mentre, havendo consumato tutto quel più che ho potuto spremere dalle mie indebolite fortune, non mi rimane il modo con che sovvenirla»; cf. ibid., 9 novembre 1658. In modo non diverso si esprime ad esempio il provveditore dell’armata Antonio Barbaro il 23 gennaio 1661: cf. ibid.

116. Una singolare coincidenza offre l’espressione analoga di tali difficoltà da parte di un provveditore dell’armata omonimo, che nel 1694 scrive da Nauplia: «Spremute le poche forze de’ miei haveri dai gravosi dispendii sofferti negli impiegi [sic] deccorsi, convengo con rossore scorgermi inhabile in supplire agl’aggravii indispensabili che portano l’obligationi di questa carica»: ibid., 1° aprile 1694. In proposito vedi altresì due dispacci del provveditore dell’armata Carlo Pisani, del 15 novembre 1698 e del 10 agosto 1699: ibid.

117. Ibid., b. 1234. Cf. in proposito anche Alberto Tenenti, Il senso del mare, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Id.-Ugo Tucci, Roma 1991, p. 73 (pp. 7-76)

118. A.S.V., Provveditori da Terra e da Mar, 24 aprile 1717. Citiamo in merito almeno due altre testimonianze: quella del provveditore dell’armata Giovan Battista Vitturi del 3 dicembre 1722 e quella del suo successore Marino Antonio Cavalli dell’11 agosto 1724; cf. ibid., b. 1235.

119. Ibid., b. 1242, 22 ottobre 1642.

120. Cf. ibid. Ma l’inquisitore deplorava la loro crescente scarsità.

121. V. ad esempio i dispacci di Antonio Cappello del

16 e 27 giugno 1638, ibid., b. 1216. In quell’occasione il provveditore dell’armata ne aveva fatti cercare 800 ma era riuscito a raccoglierne solo la metà.

122. Ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, c. 81, 17 gennaio 1670.

123. Ibid., c. 75, 31 maggio 1669.

124. Ibid., c. 235, 6 novembre 1700, c. 267, 3 gennaio 1705; reg. 2, c. 19, 20 dicembre 1710.

125. Ivi, Provveditori da Terra e da Mar, b. 1200, dispaccio da Pola di Agostino da Canal del 23 gennaio 1610.

126. Ibid., b. 1223, 24 marzo 1658.

127. Ibid. In compenso Antonio Cappello si era dichiarato in difficoltà per tener a freno le proprie ciurme sottoposte agli stenti: cf. ibid., b. 1216, 25 dicembre 1639.

128. Ivi, Provveditori all’Armar, Capitolari, reg. 1, c. 64v, 4 novembre 1665.

129. Ibid., c. 130, 26 febbraio 1683, c. 216v, 17 dicembre 1695, c. 238, 14 maggio 1701; reg. 2, c. 73v, 3 febbraio 1717. Cf. ibid., reg. 1, c. 289, 28 settembre 1707.

130. Ibid., reg. 1 c. 297, 8 gennaio 1708; reg. 2, c. 52v, 8 febbraio 1716, e c. 84v, 17 dicembre 1717.

131. Citeremo almeno due dispacci in merito. Nel primo il provveditore dell’armata Piero Querini confessa di aver «contratto però anch’io colla nascita il debito d’indricciare al publico adorato servizio ogni mio respiro»: (ivi, Provveditori da Terra e da Mar, b. 1228, 1° agosto 1693); nel secondo il suo collega Carlo Pisani sottolinea «l’impegno d’essere per debito obligato ai loro supremi comandi [dei governanti] come lo sono per eletione e per nascita»: ibid., 7 aprile 1694.

132. Oltremodo numerose sarebbero le dichiarazioni che potremmo menzionare in merito. Se ne sceglieranno due di Francesco Morosini che nel settembre 1652 diceva: «Uguale al debito è il desiderio c’ho di ben servire alla Serenità Vostra e di farmi conoscere quel riverente e sviscerato cittadino che sempre proffessai» ed il mese dopo scriveva: «ogni incontro poi di buona fortuna [aveva appena catturato quattro vascelli nemici] e tutti i vantaggi si sono conseguiti col mezo di mia debolezza nel poco spatio di tempo sostengo questa carica attribuisco ad unica gloria dell’armi publiche e non già ad alcun merito da me preteso oltre quello di una intiera puntual obedienza»; cf. ibid., b. 1221.

133. Difficile non riportare al riguardo almeno le parole di Barbaro Badoer: «Il semplice oggetto del publico servitio porge il motto e dà l’anima alle mie operationi» (ibid., b. 1222, 5 ottobre 1656) e quelle di Piero Querini: «Di tutto ciò poi può discendere dalla mia sviscerata servitù e che mi sarà permesso dal possibile, non mancherò a tutte l’occasioni, cimenti e rincontri a farmi conoscer non infruttuoso cittadino della patria», ibid., b. 1223, 29 giugno 1658.

134. Tra le frequentissime testimonianze in tal senso ricordiamo quelle di Antonio Barbaro («Pur propitia ho havuto la fortuna nel dimostrarlo [l’animo], mentre intervenuto nell’occasioni de’ più ardui confflitti [sic] dove l’armi di Vostre Eccellenze gloriosamente hanno trionfato sopra le forze de’ nemici, ho versato il sangue proprio»: ibid., b. 1223, 23 gennaio 1661) e, per la generazione successiva, di Carlo Pisani («Doppo che hebbi la felicità d’esponere per più giorni la vita nel pericoloso attacco della Valona [...] procurai in molt’occasioni di far risplendere le parti intiere di devoto e fedel cittadino»: ibid., b. 1228, 7 aprile 1694) che il 15 novembre 1698 soggiungeva: «Non ancor saria d’azzardi e perigli la vita, cercherò nuovi cimenti fra le occasioni più esposte e più facili per acquistarmi, anco a costo di sangue, la gloria della publica gratitudine»: ibid.

135. Il provveditore dell’armata Giorgio Grimani così si esprimeva ancora il 14 febbraio 1729: «Non sono penosi i lunghi impieghi allorché il dovere di un divoto cittadino s’obliga a sostenerli per il servitio della patria in qualunque fattica, cimenti e dispendio. Quest’è l’esempio honorato che mi lassiorno in heredità i miei progenitori ed io sarò per seguirlo fino che havrò spirito e ragione»: ibid., b. 1235.

Indice
  • 1 Navi ed equipaggi
  • 2 Vascelli, convogli, sicurtà
  • 3 Il servizio navale
  • 4 L’apporto patrizio
Tag
  • PROVVEDITORE GENERALE DA MAR
  • PATRIZIATO VENEZIANO
  • ATTIVITÀ MERCANTILE
  • FRANCESCO MOROSINI
  • SEBASTIANO VENIER
Vocabolario
òcchio
occhio òcchio s. m. [lat. ŏcŭlus]. – 1. a. In anatomia, organo di senso, pari, caratteristico dei vertebrati, che ha la funzione di ricevere gli stimoli luminosi e di trasmetterli ai centri nervosi dando origine alle sensazioni visive;...
navigazióne
navigazione navigazióne (ant. navicazióne) s. f. [dal lat. navigatio -onis]. – 1. a. L’attività del navigare, di percorrere cioè con una idonea costruzione galleggiante (nave, veliero o altra imbarcazione) un tratto più o meno esteso di...
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