La nascita della scienza giuridica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La scienza giuridica è una disciplina che studia il diritto, inquadrandolo razionalmente ed elaborandolo in modo tale che l’interpretazione delle norme sia compiuta attraverso procedure logiche verificabili in ogni passaggio. Nella storia della cultura giuridica dell’umanità una vera e propria scienza del diritto si trova sviluppata per la prima volta nel mondo romano, mentre non se ne riscontrano tracce significative né nella cultura giuridica dei paesi del Vicino Oriente antico, né nella Grecia antica.
La scienza giuridica è una disciplina che studia il diritto e lo considera come una materia a sé stante, separata dagli altri campi del sapere. Quando si afferma che lo studio del diritto è da considerarsi una "scienza", si intende comunemente fare riferimento a un contesto politico, sociale e culturale in cui il diritto viene inquadrato razionalmente e viene elaborato in modo tale che l’interpretazione delle norme sia compiuta attraverso procedure logiche verificabili in ogni passaggio.
Perché si possa parlare, in relazione a un determinato contesto, di scienza giuridica, è dunque necessario che in quel contesto esista il diritto, anche se non sempre l’esistenza di questo dà luogo a una scienza giuridica.
Infatti, mentre il diritto consiste in un insieme di norme con cui si regolamentano i rapporti tra i consociati per prevenire e disciplinare i conflitti di interesse intersoggettivi, l’esistenza, in un determinato sistema, di una scienza giuridica presuppone che il complesso delle norme sia organizzato in un articolato sistema di principi. Come scrive Rudolf von Jhering, tra un sistema di principi e un sistema di regole vi è una differenza che può essere paragonata a quella tra una scrittura alfabetica e un sistema di ideogrammi.
Secondo l’opinione oggi dominante, nella storia della cultura giuridica dell’umanità una vera e propria scienza del diritto si trova sviluppata per la prima volta, e con un livello di elaborazione molto elevato, nel mondo romano e ancora oggi lo studio del diritto romano si ritiene che fornisca al giurista moderno sia l’alfabeto, sia la grammatica del pensiero giuridico.
La caratteristica peculiare del mondo romano, che porta alla nascita della scienza giuridica a Roma, è dovuta al fatto che in esso si sviluppano un’inedita riflessione e un’altrettanto innovativa elaborazione dei concetti giuridici da parte di personale specializzato, i giuristi o giurisprudenti (da iuris prudentia, ovvero "conoscenza del diritto"), che studiano e pubblicano opere espressamente dedicate allo studio del diritto, costituendone il principale fattore di sviluppo.
Non tutti concordano sul fatto che la nascita della scienza giuridica sia da collocarsi a Roma. Alcuni studiosi, in tempi recenti, hanno sostenuto l’opinione che essa trovi le sue origini nel Vicino Oriente antico. Le fonti principali di cui disponiamo per la conoscenza del diritto di queste civiltà è costituito principalmente da alcuni codici del secondo millennio a.C., tra cui possiamo citare, come uno dei più famosi, il Codice di Hammurabi, proveniente da Babilonia, scritto in accadico e risalente al 1750 a.C. Ebbene, secondo parte della dottrina moderna questi codici sarebbero trattati scientifici di diritto, ai quali si sarebbe ispirata in seguito la scienza giuridica romana.
La natura scientifica dei diritti del Vicino Oriente antico viene motivata sulla base della considerazione che la forma dei detti codici è casistica: essi sono composti dalla previsione di una serie di casi, che ricorrono spesso in differenti codici, anche se non sono necessariamente presentati negli stessi termini e vengono risolti in modi che possono essere di volta in volta differenti. Alla luce dei tratti comuni a tutti, si sostiene che la loro origine vada ricondotta a una scienza mesopotamica, il cui metodo sarebbe basato sulla compilazione di elenchi, formati da casi, cui viene data una soluzione. A partire da ciascuno di essi la giurisprudenza modifica i particolari della fattispecie, creando una serie di variazioni intorno a essa, che diventa così oggetto di studio e può poi essere usata come paradigma per l’insegnamento, o per ulteriori discussioni.
Gli studiosi moderni fautori di questa ipotesi osservano che i codici in questione contengono il prodotto di una tradizione giuridica stratificata, fino a formare un canone di problemi, che per un verso si diffonde nelle diverse accademie del Vicino Oriente antico e per altro è posto alla base dell’attività legislativa compiuta da alcuni sovrani.
A questo proposito occorre rilevare che, pur volendo ipoteticamente ammettere che quella mesopotamica sia una scienza giuridica, essa in verità non conosce la definizione di concetti astratti e la classificazione in categorie e sotto-categorie. Si caratterizza piuttosto per essere una "scienza di liste", che procede attraverso il concatenamento di esempi, raggruppati per associazione. Sembra dunque più opportuno ritenere che si tratti di una scienza assai elementare e certamente molto più semplice di quella romana. Manca altresì ogni prova che la scienza giuridica romana possa derivare da quella mesopotamica.
Minori dubbi vi sono, tra gli studiosi moderni, nel negare che nella Grecia antica esista una scienza giuridica. Invero in Grecia non è mai esistita un’attività specialistica di elaborazione di concetti giuridici, né è mai esistito personale specializzato in tale campo.
Esistono gli esegeti, ma essi sono soltanto interpreti delle regole del diritto sacrale, con competenza unicamente in materia religiosa (ad esempio, in caso di controversia sulle regole relative alla purificazione dei responsabili di omicidio) e sono più simili a sacerdoti che non a giuristi, sono detentori di verità piuttosto che interpreti di norme giuridiche. Analogamente, ma per motivi diversi, non sono giuristi neppure i famosi "logografi giudiziari" del mondo ateniese, vale a dire gli oratori che scrivono su commissione e dietro compenso le orazioni giudiziarie che i loro clienti recitano successivamente in giudizio: essi hanno unicamente una competenza in campo retorico. Nel mondo greco antico non sono giuristi neppure i giudici, i quali sono incaricati di giudicare nelle cause dopo che un magistrato ha svolto la parte istruttoria del processo e sono per lo più semplici cittadini senza alcuna competenza specifica nella materia giuridica. Escludendo l’esistenza della scienza giuridica in Grecia, non si vuole tuttavia negare ogni influenza della cultura greca sulla nascita della giurisprudenza romana. Al contrario, bisogna sottolineare l’importanza dei modelli filosofici sviluppati dai Greci, che a partire dal II secolo a.C. vengono importati a Roma, influenzando notevolmente la giurisprudenza romana di età classica. Tra le principali innovazioni che Roma deriva dal mondo greco si trova l’introduzione di concetti giuridici astratti, in funzione sia euristica sia prescrittiva, cui si collega l’uso di tecniche classificatorie di origine platonica, aristotelica ed ellenistica: si pensi all’uso di categorie come quelle di genus e di species, e al metodo diairetico.
È dunque al mondo romano, variamente influenzato da apporti provenienti da altre culture ad esso più o meno vicine, che si deve rivolgere l’attenzione per trattare del modo in cui nasce la scienza giuridica.
Le ragioni della nascita della scienza giuridica a Roma si connettono e devono essere viste in relazione con la particolare natura del nucleo più antico e più importante del diritto romano, detto ius civile ("diritto dei cittadini"), e con le modalità originarie con cui è possibile, nella Roma arcaica, venire a conoscenza del suo contenuto.
Lo ius civile è un diritto non scritto e a base consuetudinaria, essendo costituito principalmente da mores (appunto "consuetudini") risalenti alla fase pre-civica. Il carattere orale del diritto antico pone il problema, anche durante la fase civica, nel periodo regio della storia di Roma (tradizionalmente compreso tra il 753 e il 509 a.C.), della "memoria" dei mores. Essa è affidata ai pontefici, un collegio di sacerdoti patrizi, incaricato di celebrare i culti religiosi dello stato. I pontefici sono esclusivi depositari della conoscenza del diritto e sono i soli incaricati di fornirne l’interpretazione; essi sono così in grado dare ai cittadini che ne facciano richiesta responsi su quale sia il contenuto del diritto in relazione a un determinato punto specifico e procedono altresì a un lavoro di massimazione del diritto vigente, i cui risultati essi mantengono riservati. È da sottolineare che l’attività di interpretazione dello ius civile compiuta dai pontefici non si pone sullo stesso piano dell’interpretazione della legge nei sistemi giuridici moderni: dato che il diritto non è scritto, essi non sono interpreti di un testo legislativo, sono piuttosto coloro che dichiarano ciò che è il diritto. E poiché sono i soli depositari della sua conoscenza, l’attività di interpretazione è da loro compiuta con grande libertà e con effetti innovativi nello sviluppo dell’ordinamento privatistico romano di questa fase.
Qualche tempo dopo l’inizio della repubblica la popolazione appartenente alla classe plebea, numericamente superiore a quella d’estrazione patrizia, aspira a una maggiore certezza del diritto, in modo che esso non riposi più solo su ciò che viene di volta in volta dichiarato dai pontefici. In un periodo profondamente segnato da lotte di classe i plebei sospettano che la pronuncia dei pontefici (esclusivamente patrizi) sulla validità di particolari atti giuridici possa non essere sempre del tutto disinteressata, soprattutto quando la questione riguardi un conflitto di interessi tra un patrizio e un plebeo. È così che, intorno al 450 a.C., alcuni dei principali mores vengono fissati in forma scritta, nelle famose XII Tavole, da una commissione probabilmente a composizione mista patrizio-plebea, formata da dieci magistrati, detti decemviri. Anche dopo il periodo post-decemvirale e dopo la parziale redazione in forma scritta dello ius civile, l’attività di interpretazione dei pontefici non si ispira tuttavia a un gretto letteralismo, ma continua, come in precedenza, con accenti che all’occorrenza possono essere fortemente innovativi e che possono giungere a creare nuovi istituti sconosciuti al diritto precedente.
Questo accade, ad esempio, quando i pontefici interpretano una norma delle XII Tavole che limita l’arcaico potere dei padri di vendere i figli. Infatti nel mondo romano un padre può vendere il proprio figlio a un estraneo, per il quale il figlio lavorerà quasi come uno schiavo. L’acquirente può liberare la persona che ha acquistato, ma essa ritorna sotto il controllo del padre, che, se desidera farlo, può rivenderla e così per più volte. Nelle XII Tavole è previsto il limite massimo di tre vendite, dopo le quali il figlio è definitivamente liberato dal potere paterno. I pontefici interpretano in modo innovativo la norma e ideano, partendo da essa, l’istituto dell’emancipazione, basato proprio su un procedimento di tre finte vendite, che il padre compie con un amico: dopo ogni finta vendita l’amico lascia libera la persona e dopo la terza vendita e la terza manomissione questa è definitivamente liberata. Attraverso l’interpretazione dello ius civile, i pontefici finiscono con il rendere i padri in grado di emancipare i figli dal loro potere mediante il ricorso a un atto volontario di autonomia privata, cosa fino ad allora neppure ipotizzabile.
Fra il IV e il II secolo a.C. compaiono a Roma nuove fonti del diritto oltre ai mores orali. Vi si trova innanzitutto la legge scritta, approvata dal popolo nei comizi (che tuttavia di rado attiene al diritto privato) e poi fa la sua comparsa l’editto del pretore urbano. Quest’ultimo è un magistrato eletto ogni anno dal popolo; è incaricato di istruire i processi in materia di diritto privato e quindi di inviare le parti davanti a un giudice che emetterà la sentenza. Il pretore ogni anno emana, al suo ingresso in carica, un editto, che viene scritto su grandi pannelli di legno ed esposto nel foro. Il pretore dell’anno successivo conserva l’editto del pretore dell’anno precedente, ma può apportarvi le innovazioni e le modifiche che ritiene necessarie. L’editto contiene una serie di formule che vengono usate per lo svolgimento dei processi e attraverso le quali il pretore è in grado di creare diritto nuovo. Questo non confluisce nello ius civile, ma va a costituire un (sotto)sistema normativo a sé stante che prende il nome di diritto pretorio (ius honorarium).
La mutata fisionomia del diritto privato romano nel periodo in esame non fa immediatamente venire meno le funzioni pontificali. Tuttavia, tra III e II secolo a.C., l’accresciuta complessità del sistema normativo privatistico fa sì che la sfera del diritto sia percepita sempre più come distinta da quella religiosa. Perciò la centralità dei sacerdoti come i soli depositari della conoscenza dello ius vacilla. D’altro canto, né i pretori, né i giudici, né gli avvocati hanno una formazione giuridica e hanno pertanto bisogno dell’aiuto di esperti. E così, dalla seconda metà del III secolo a.C., si ha notizia della nascita a Roma di una classe di esperti di diritto, che non sono più i sacerdoti, né rivestono formalmente alcun ruolo nell’amministrazione della giustizia, ma hanno la preparazione necessaria per spiegare il diritto ai cittadini che ne facciano richiesta. Costoro sono dunque dei laici, senza alcun immediato rapporto con la religione cittadina e sono espressione della nobiltà patrizio-plebea, detentrice in quest’epoca del potere politico. Il passaggio delle funzioni di interpretative del diritto a questi nuovi giuristi è noto come "laicizzazione della giurisprudenza". In un primo tempo i giuristi laici non sono pagati, e considerano il loro lavoro come una sorta di servizio pubblico. Sono i nuovi custodi del diritto. La fondamentale differenza fra loro e i pontefici è che essi svolgono l’attività di interpretazione del diritto apertamente e in pubblico. La loro attività si intensifica a partire dal I secolo a.C. e va perfezionandosi nelle tecniche adoperate e nei risultati raggiunti.
È questa l’età nota come il periodo classico della giurisprudenza romana, che termina nel 235 d.C., quando, con la morte dell’imperatore Alessandro Severo, si esaurisce la forza propulsiva dei giuristi e l’innovazione del diritto dipenderà massimamente dall’attività delle cancellerie imperiali in forma sempre più accentrata e burocratizzata.
I giuristi classici sono studiosi che si dedicano al diritto, della cui pratica si occupano quotidianamente, rispondendo alle necessità di chi si rivolge loro. Essi inoltre fondano scuole e pubblicano in opere anche molto corpose le loro raccolte di responsi o i loro commenti al diritto. In ragione di ciò sono i soli ritenuti in grado di avere una conoscenza veramente approfondita del diritto e di determinare quando siano necessarie riforme delle norme vigenti.
La loro attività di interpretazione si concentra sullo ius civile non scritto, con ampio spazio per innovazioni; ma essi interpretano anche le leggi scritte, ad esempio indagando di volta in volta, secondo i casi concreti sottoposti alla loro disamina, se debba prevalere lo stretto tenore letterale di un testo normativo o piuttosto il suo spirito; ancora, danno consigli ai privati cittadini che chiedano loro come devono compiere un determinato atto giuridico. Indicano anche come si debbano interpretare atti giuridici già compiuti, specialmente atti scritti (come per esempio i testamenti), determinando se debba prevalere, secondo i casi, l’oggettivo significato espresso dall’autore dell’atto o piuttosto la sua reale intenzione, seppur manifestata in modo ambiguo.
La grande importanza della giurisprudenza romana risiede anche nel fatto che le interpretazioni date dai giuristi e pubblicate nelle loro opere costituiscono esse stesse diritto, del quale sono una delle fonti.
L’elaborazione del diritto classico compiuta dai giuristi è fondamentalmente incentrata su casi reali o ipotetici, questi ultimi inventati nelle scuole. Muovendosi entro un tale metodo, può darsi che diversi giuristi diano soluzioni diverse a uno stesso caso, partendo da una differente interpretazione delle stesse norme vigenti. Ciò tuttavia non impedisce che divergenti interpretazioni giurisprudenziali siano tutte percepite allo stesso tempo come diritto vigente.
È quello che comunemente si intende quando ci si riferisce al diritto giurisprudenziale romano come a un ius controversum ("diritto controverso"), che raggiunge il suo apice tra il I e il II secolo d.C., a causa del contrapporsi su numerosi temi delle due principali scuole dell’epoca, quella dei Sabiniani e quella dei Proculeiani. È questa l’epoca in cui i giuristi romani iniziano anche un processo volto alla sistematizzazione e alla categorizzazione del loro sistema casistico, tendente per natura a diventare sempre più intricato e complesso, e lo fanno ricorrendo ai metodi greci di classificazione.
Tra i giuristi del I secolo a.C., l’ultimo dell’epoca repubblicana, bisogna menzionare Quinto Mucio Scevola, il primo a tentare l’esposizione dello ius civile in categorie logiche, e Servio Sulpicio Rufo, celebrato autore di responsi, che fonda una scuola con tendenze prevalentemente pratiche.
A partire dal 23 a.C., con l’ascesa al potere di Augusto (che muore nel 14 d.C.), avviene il passaggio all’impero: gli imperatori progressivamente si attribuiscono sempre crescenti poteri legislativi, che si esplicano mediante l’emanazione delle cosiddette "costituzioni imperiali", aventi un’efficacia equiparata a quella delle leggi comiziali. Queste costituzioni consistono per lo più in editti, ovvero provvedimenti normativi a carattere generale, e in rescritti, ovvero risposte date dall’imperatore a questioni giuridiche poste da litiganti o da pubblici funzionari. Tutte queste novità che si producono in campo costituzionale ma con riflessi anche sul versante delle fonti del diritto non diminuiscono minimamente l’importanza della giurisprudenza. Al contrario, i giuristi costituiscono un ceto gradito agli imperatori, che a loro si appoggiano per la redazione delle costituzioni.
Ciò è dimostrato dal fatto che già Augusto per primo attribuisce a certi giuristi il diritto (detto ius respondendi) di esprimere opinioni fornite dell’autorità imperiale, probabilmente per alleviare il carico di lavoro gravante sulla sua cancelleria a causa dell’elevata richiesta di rescritti. Tutti i suoi successori confermano tale innovazione e nel II secolo d.C. Adriano dispone che le opinioni di tutti i giuristi muniti di tale diritto, qualora in accordo tra loro, debbano avere per i giudici la forza vincolante di una legge. Soltanto nei casi in cui vi sia conflitto tra i pareri di due giuristi entrambi forniti di ius respondendi, è lasciata ai giudici la scelta tra le due discordanti opinioni.
Tra i primi giuristi del I secolo d.C. ricordiamo Capitone e Labeone, capiscuola rispettivamente della corrente dei Sabiniani e di quella dei Proculeiani. Il primo è un caloroso fautore di Augusto ed è pertanto molto gradito negli ambienti ufficiali, ma non godrà di molto successo presso i posteri. Il secondo resterà invece famoso nel tempo come un ardito innovatore in campo giuridico. Molto importante è anche Masurio Sabino, allievo di Capitone, che perfeziona e riprende lo schema espositivo dello ius civile proposto da Quinto Mucio Scevola. Da Sabino prende in effetti il nome la scuola dei Sabiniani, mentre il nome dei Proculeiani deriva da Proculo, un allievo di Labeone.
Tra i giuristi del II secolo d.C. si trovano Salvio Giuliano, Pomponio e Gaio. Il primo viene incaricato da Adriano di fissare in forma definitiva l’editto dei pretori, dato che questi ultimi progressivamente sono stati privati dagli imperatori del potere di innovare il diritto privato attraverso lo ius honorarium. Il secondo è autore di ampi commenti allo ius civile e all’editto del pretore e ci lascia altresì un importante profilo della storia della giurisprudenza romana dalle origini ai suoi giorni. Il terzo è autore di numerose opere, tra le quali particolare successo ha avuto nel tempo un breve manuale per l’insegnamento del diritto nelle scuole, intitolato Institutiones ("Istituzioni", ovvero "insegnamento introduttivo").
Tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C. troviamo i giuristi più importanti, quelli che operano durante l’impero della dinastia dei Severi (da Settimio Severo asceso al potere nel 193 d.C. alla morte di Alessandro Severo nel 235 d.C.).I più insigni sono Papiniano, Paolo e Ulpiano. Tutti e tre, oltre a essere giuristi al servizio imperiale, svolgono anche la carriera politica, giungendo a ricoprire la più alta carica, quella di prefetto del pretorio. Ciascuno di essi è quindi al contempo sia il principale funzionario dell’imperatore nel campo giuridico, sia il suo capo di stato maggiore. Sono tutti autori molto fecondi. Papiniano, prefetto del pretorio di Settimio Severo e poi messo a morte nel 212 dal successore di quest’ultimo, Caracalla, eccelle nell’analisi di casi particolari. Paolo e Ulpiano, entrambi prefetti del pretorio di Alessandro Severo (il secondo di essi è ucciso dalle guardie ammutinatesi nel 223 d.C.), sono noti per i loro grandi commentari che sintetizzano l’opera dei predecessori, trasmettendo alla posterità i principali esiti della giurisprudenza classica, in una forma molto matura e assai complessa. Con la fine dell’età severiana termina il periodo classico della giurisprudenza romana. L’interpretazione del diritto vigente spetta ormai soltanto alle cancellerie imperiali e, anche se queste ultime compiono sforzi affinché sia mantenuto lo stesso livello di elaborazione scientifica dei periodi precedenti, la crisi delle scuole di diritto e il cessare dell’attività letteraria dei giuristi fanno venire meno la possibilità che si crei nuovo ius controversum e, con ciò, la scienza giuridica romana si inaridisce, cessando di continuare a rappresentare una componente vitale del diritto.
Gli scritti dei giuristi romani non sono pervenuti fino a noi in forma integrale, con la sola eccezione delle Institutiones di Gaio. Ampi estratti di essi, tuttavia, sono conservati da Giustiniano (imperatore romano d’Oriente tra il 527 e il 565) in una sorta di antologia della giurisprudenza classica, i Digesta, che egli fa compilare ai suoi collaboratori e che dota della forza di legge. Ciascuno dei frammenti dei giuristi classici inserito nei Digesta reca l’indicazione della fonte di provenienza. Numerose tracce dello ius controversum della giurisprudenza classica ancora traspare dai testi conservati nei Digesta, anche se talune delle contraddizioni tra i diversi giuristi sono state appianate dai "compilatori" di Giustiniano.
Lo studio dei Digesta, interrotto durante il Medioevo, riprende intorno al 1200 d.C. a Bologna, a opera di una scuola fondata da Irnerio e dai suoi successori, che costituisce la prima università dell’epoca moderna. Esso continua tutt’oggi e i metodi scientifici ideati dai giuristi romani per l’interpretazione del diritto influenzano ancora profondamente la scienza giuridica contemporanea.