Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dell’Ottocento si avverte l’esigenza di riscrivere la storia dell’arte partendo dall’analisi diretta delle opere, per stabilirne con certezza l’autore o almeno l’ambito cronologico e geografico di appartenenza. Viene quindi riconosciuta l’importanza del lavoro dei “conoscitori”, che in Italia raggiunge i risultati più significativi grazie all’opera di Giovanni Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli.
Premessa
La figura del “conoscitore”, un esperto in grado di decifrare la paternità, l’autenticità e il valore di un’opera d’arte, comincia a delinearsi sin dal Seicento negli ambienti dei grandi collezionisti italiani ed europei. Nel 1681 Filippo Baldinucci, esperto d’arte di fiducia dei granduchi di Toscana, in una lettera al marchese Vincenzo Capponi esponeva il suo pensiero sul metodo per diventare un buon “conoscitore”. Il discorso di Baldinucci mette a fuoco due questioni: “se vi sia regola certa per conoscere se una pittura sia copia o originale” e “se vi sia regola per affermare con certezza, se una bella pittura sia fatta dalla mano d’uno o d’un altro maestro o [...] qual sarà il modo più sicuro di fondare alquanto bene il proprio giudizio”.
Riguardo all’ultima questione Baldinucci ritiene che non esista una regola valida se non quella di affidarsi all’occhio, al grande archivio visivo che viene a depositarsi nella memoria dopo anni di esperienza e familiarità con i dipinti: “è dunque necessario che chi vuol farsi giudice delle maniere de’ pittori, abbia vedute tante e tante pitture del maestro di cui egli vuol giudicare la pittura, che gli sia ben rimasto impresso nella mente tutto il suo fare”. Inoltre Baldinucci sostiene che solo l’artista – “il perito solamente” – abbia titolo per essere considerato “conoscitore”, mentre il “dilettante”, ovvero l’intenditore non artista, non potrà mai comprendere fino in fondo l’opera di un pittore perché non ne ha esperienza pratica.
Contrariamente a quanto auspicava Baldinucci, col tempo gli artisti perderanno presto l’“esclusiva” del giudizio sull’arte, ma le altre opinioni del “conoscitore” toscano saranno ereditate dalla critica dei secoli successivi. Nella prefazione alla Storia pittorica della Italia di Luigi Lanzi si legge infatti: “La natura [...] dà a ciascuno nello scrivere un girar di penna che difficilmente può contraffarsi o confondersi del tutto con un altro scritto. [...] Così è in dipingere. Ogni pittore [...] ha di proprio un andamento di mano, un giro di pennello [...] ch’è proprio suo; onde i veramente periti dopo assai anni di esperienza [...] conoscono e in un certo modo sentono che qui scrisse il tale o il tal altro”.
Lanzi è convinto che non basti essere un artista per divenire “conoscitore” – “È più raro trovare un vero conoscitore che un pittor buono” – e ritiene invece che la conoscenza dell’arte si acquisti attraverso un duro tirocinio e un metodo rigoroso: “È questa un’abilità a parte: vi si arriva con altri studi, vi si cammina con altre osservazioni; il poter farle è di pochi, di pochissimi farne il frutto”.
Queste lucide osservazioni di Lanzi, ritenute valide ancora oggi, costituiscono però un’eccezione nel panorama della critica storico-artistica italiana della prima metà dell’Ottocento, molto più arretrata rispetto a quella europea. In Italia, infatti, la storia dell’arte non è ancora riconosciuta come disciplina autonoma e questo ritarda l’acquisizione di un metodo di ricerca da parte degli studiosi, spesso molto eruditi ma poco abituati a verificare “sul campo” le proprie informazioni. Al contrario, in Inghilterra, Germania e Francia si sono formati degli storici dell’arte “conoscitori” a cui viene già riconosciuto uno status professionale. Studiosi come Eastlake, Waagen, Bode collaborano con le più importanti gallerie europee e mettono la loro competenza di connoisseurs al servizio del riordinamento delle collezioni e soprattutto del loro ampliamento, attraverso numerose “campagne di acquisti” compiute in Italia, territorio fertilissimo per il mercato.
La situazione cambia nella seconda metà del secolo, quando l’Italia diventa il nuovo punto di riferimento per gli storici dell’arte di tutta Europa, grazie a due eccezionali figure di “conoscitori”, Giovanni Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli. Diversi tra loro per educazione, personalità e metodo di lavoro, i due sono accomunati da una diretta e capillare conoscenza di un grandissimo numero di opere d’arte e da un precoce interesse per la conservazione del patrimonio artistico dell’Italia.
Giovanni Morelli
Morelli nasce nel 1816 a Verona, da una famiglia franco-svizzera di religione protestante. Si trasferisce presto a Bergamo, città cui rimarrà legato e a cui lascerà la sua collezione di dipinti e disegni. A 18 anni parte per Monaco di Baviera, per studiare medicina; si specializza in anatomia comparata e allo stesso tempo coltiva la sua passione per l’arte, frequentando Gustav Waagen e Karl Friedrich von Rumhor che gli impartiscono le prime lezioni di connoisseurship. Dopo aver perfezionato le sue conoscenze a Parigi, tra il 1838 e il 1849, torna in Italia – dove vive tra Bergamo e Firenze – e stringe amicizia con i giovani letterati che animano la rivista “L’Antologia”. Nel 1848 prende parte attiva – come Cavalcaselle – ai moti insurrezionali, avviando così una lunga carriera politica: sin dal 1861 siede ininterrottamente in Parlamento e nel 1873 viene eletto senatore del Regno d’Italia.
Per tutta la vita Morelli non si stancherà mai di viaggiare tra l’Italia e l’Europa (Germania, Inghilterra, Olanda, Austria), per acquisire una conoscenza il più possibile completa dei capolavori dell’arte italiana. Morelli coltiva rapporti amichevoli con scienziati, diplomatici e artisti: a Milano frequenta il famoso atelier di restauro di Giuseppe Molteni, luogo di memorabili incontri con il direttore della National Gallery di Londra, Sir Charles Eastlake, e con il suo travelling agent – l’esperto che sceglie all’estero i capolavori da acquistare per la galleria – Otto Mündler. Proprio in quegli anni Morelli sperimenta e inizia a mettere a punto il metodo a cui è rimasto legato il suo nome. Per attribuire con sicurezza un quadro a un determinato artista, Morelli si concentra sui particolari secondari delle figure dipinte (le dita delle mani, le unghie, le orecchie), confrontandoli con i particolari delle opere che appartengono con certezza a quell’autore. Morelli sostiene infatti che proprio nelle zone dipinte con maggiore noncuranza emergano le peculiarità inconfondibili di un artista. Applicando questo metodo durante le sue visite alle principali raccolte europee, Morelli elabora un catalogo personale di nuove e “rivoluzionarie” attribuzioni che decide di mettere per iscritto solo dal 1874 – all’età di 58 anni – in una serie di articoli per una rivista di Vienna. Celandosi dietro gli pseudonimi di Ivan Lermolieff (anagramma “alla russa” del proprio nome) e del traduttore tedesco Johannes Schwarze (altra variante, in questo caso tedesca, del suo nome), nel 1880 pubblica il suo primo libro, una rassegna critica dei dipinti conservati nelle pinacoteche di Monaco, Dresda e Berlino (tradotto in inglese nel 1883 e in italiano nel 1886). Nel 1882 vede la luce il suo saggio su Raffaello e nel 1890 gli Studi critici sulla pittura italiana delle gallerie Borghese e Doria Pamphili (tradotti rispettivamente in inglese e in italiano nel 1892 e nel 1897). Nel 1889, un anno prima della morte di Morelli, l’editore Brockhaus di Lipsia inizia la pubblicazione in tre volumi di tutti gli scritti di Lermolieff che l’autore non vedrà mai terminata. Nel rielaborare per quest’edizione lo studio sulla Galleria Borghese, Morelli vi aggiunge il saggio Prinzip und Method, sintesi in forma di dialogo delle riflessioni sul metodo e sui compiti del “conoscitore”.
Dei numerosi successi attributivi di Morelli il più celebre è senz’altro il riconoscimento della Venere dormiente di Giorgione (Dresda, Gemäldegalerie), fino ad allora misconosciuta e catalogata come copia di Sassoferrato da un originale perduto di Tiziano. “A che giovano” – scrive Lermolieff – “le nostre conferenze pubbliche, a che le esposizioni annuali di Belle Arti se, mancandoci una indicazione di catalogo, noi possiamo passare freddi o insensibili davanti a una delle più belle, delle più perfette creazioni che l’arte di tutti i tempi abbia mai suscitato?”. Altro episodio clamoroso è l’attribuzione a Raffaello del Ritratto d’uomo della Galleria Borghese, nonostante fosse quasi irriconoscibile per via dei pesanti ritocchi: “ci vuole davvero [...] un’insolita temerità a voler scoprire oggi, in una delle più visitate gallerie del mondo, un’opera di Raffaello rimasta ignota, eppure io non esito a dichiararlo apertamente”. Dopo aver analizzato la capigliatura, gli occhi, il naso e la bocca del personaggio raffigurato, Morelli conclude: “vorrei esortare i miei amici a confrontare questo ritratto coll’una o coll’altra delle teste degli apostoli nell’Incoronazione della Madonna di Raffaello nella Pinacoteca Vaticana”.
Quest’ultima attribuzione, come molte altre contenute nel saggio sulla Galleria Borghese, vengono recepite sin dal 1888 dal nuovo direttore Giovanni Piancastelli, che cura l’allestimento dei dipinti in base alla scuola regionale di appartenenza, seguendo le indicazioni di Morelli.
Tra le numerose attribuzioni proposte da Morelli, e tuttora accolte dalla critica, ricordiamo la Madonna con il Bambino del Museo Poldi-Pezzoli di Milano restituita al Mantegna, la Sacra allegoria degli Uffizi riconosciuta di mano di Giovanni Bellini e non di Basaiti, il Sant’Agostino nello studio, sempre agli Uffizi, attribuito a Botticelli attraverso il confronto delle peculiarità anatomiche del santo con i personaggi raffigurati nella Calunnia di Apelle, conservata nella stessa galleria.
L’opera di Giovanni Morelli “conoscitore” ha avuto entusiasti seguaci – Gustavo Frizzoni, Jean Paul Richter, Bernhard Berenson, l’archeologo Beazley –, ma ha anche suscitato dissensi, scetticismo e derisione.
Le critiche più aspre si rivolgono da subito alla pretesa scientificità del suo metodo e ai repertori di illustrazioni di dettagli anatomici pubblicati nei volumi di Morelli a dimostrazione delle attribuzioni proposte. Il suo oppositore più tenace è Wilhem von Bode, direttore del museo di Berlino, che in un articolo apparso un anno dopo la morte di Morelli su una rivista inglese sintetizza così il suo pensiero sul “conoscitore” italiano: “[Morelli] pubblicò un catalogo di orecchie, nasi e dita appartenuti un tempo a Botticelli, Mantegna, Raffaello e Tiziano [...]”; definendolo un “ciarlatano”, von Bode evoca l’immagine di Morelli che “tesse le lodi del suo metodo con un’aria di infallibilità”. A conoscenza degli attacchi che gli vengono mossi, Morelli elimina dall’edizione definitiva del volume sulle gallerie Borghese e Doria-Pamphili i disegni anatomici; ma nel saggio Prinzip und Method continua a rivendicare la necessità dell’analisi dei particolari, per giungere alla comprensione di un’opera: “Come il botanico deve conoscere le sue piante, lo zoologo i suoi animali […] così anche lo storico dell’arte è tenuto a conoscere i suoi edifici, le sue statue e i suoi quadri […]. Chi non sarà progredito tanto da sapere analizzare prima di tutto un’opera d’arte e poi dall’analisi giungere alla sintesi, difficilmente potrà dire d’essere in grado di comprendere un’opera d’arte”. E ancora: “per diventare storico dell’arte, bisogna essere conoscitore”.
La figura di Morelli è ancora oggi al centro di studi e dibattiti, ma anche di approfondimenti relativi agli aspetti specifici della sua opera. Per citare solo alcuni di questi contributi, in Arte e anarchia Edgar Wind evidenzia nel metodo morelliano gli indizi di un gusto per il frammento e l’“incompiuto” ancora presente nella critica d’arte contemporanea; in On Art and the Mind, Richard Wollheim studia l’attinenza del metodo morelliano con le teorie della psicanalisi freudiana; in Giovanni Morelli et sa définition de la “scienza dell’arte” Jaynie Anderson ricerca le radici positiviste del procedimento morelliano nella formazione giovanile in Germania, a contatto con scienziati come Döllinger, Cuvier, Agassiz.
Giovanni Battista Cavalcaselle
Giovanni Battista Cavalcaselle nasce nel 1819 a Legnago. La sua formazione avviene all’Accademia di belle arti di Venezia, che lascia senza aver completato il corso regolare di studi, per iniziare a viaggiare e stabilire così un contatto diretto – e non libresco – con le opere d’arte.
Le sue prime tappe sono Roma e la Toscana, poi dal 1846 visita la Germania (Dresda, Lipsia, Berlino); durante uno dei suoi spostamenti conosce il giornalista inglese Joseph Archer Crowe, con il quale in seguito pubblicherà i suoi lavori più importanti. Nel 1848 anche Cavalcaselle, come Morelli, partecipa ai moti insurrezionali del Lombardo-Veneto, rischiando la fucilazione. Nel 1850 ripara in esilio a Londra, dove riallaccia i rapporti con Crowe e dà inizio alle ricerche per la pubblicazione “a quattro mani” di un saggio sulla pittura fiamminga. Nel frattempo guadagna la fiducia di Sir Charles Eastlake, che lo interpella sull’attribuzione di alcuni quadri della National Gallery e lo invia a Parigi con mansioni di fiducia. Nel 1856 esce a Londra il volume sui Primi pittori fiamminghi. Comincia con quest’opera il lunghissimo sodalizio “Crowe and Cavalcaselle”: a quest’ultimo spetta il lavoro attributivo e critico, a Crowe l’integrazione dei dati storici e biografici e la stesura in un inglese più agile e corretto del testo elaborato dal collega italiano.
Nel 1857 Cavalcaselle torna in Italia in veste di travelling agent, grazie al passaporto procuratogli da Eastlake: viaggia per l’Italia dal Nord fino a Firenze e Napoli, studia e prende nota di tutto ciò che vede. Il suo soggiorno è però tormentato dalle difficoltà economiche e dalla precarietà della sua posizione. La collaborazione con Crowe riprende nel 1860, quando i due mettono in cantiere una storia della pittura italiana dal II sec. fino agli inizi del Cinquecento. Nei primi anni Sessanta Cavalcaselle vive l’amarezza di non vedersi offrire dallo Stato italiano un ruolo nell’amministrazione delle belle arti. Tra il 1864 e il 1866 escono a Lipsia i tre volumi della Nuova Storia della pittura in Italia, acclamati in Inghilterra e in Germania ma praticamente ignorati in Italia.
Nel 1871 esce una storia della pittura dell’Italia settentrionale (History of Painting in North Italy) in due volumi; l’anno successivo Crowe e Cavalcaselle si recano a Vienna su invito dell’imperatore Francesco Giuseppe, in occasione dei lavori di riordino e catalogazione della Galleria del Belvedere.
Quando nel 1875 ottiene finalmente l’incarico di ispettore generale per la pittura e la scultura dal governo italiano, Cavalcaselle cerca di realizzare un inventario delle opere d’arte del Regno, ordinate cronologicamente, per scuola e per autore, lavoro che riuscirà a portare a termine solo per il Friuli.
Dal 1875 Cavalcaselle cede alle insistenze di Crowe e prepara le due monografie su Tiziano (1877; in due volumi, subito tradotti in italiano) e su Raffaello (1882-1885). Ma il sogno di Crowe di veder realizzate le monografie su Leonardo e Michelangelo non si avvererà, a causa delle resistenze di Cavalcaselle. Nel 1896 l’inglese muore, seguito l’anno dopo dal suo grande amico e collaboratore.
Dopo la Storia pittorica di Luigi Lanzi, quello di Cavalcaselle è il primo tentativo di sistemazione critica della pittura italiana. Il nuovo ordine dei fatti della storia dell’arte italiana, stabilito dalle recenti conquiste della connoisseurship, viene esposto per la prima volta in un’articolata forma storica, rivolta sia all’élite degli intenditori che a un pubblico colto ma non specialistico di appassionati.
Cavalcaselle ricostruisce il catalogo delle opere di ciascun pittore, facendo emergere figure di artisti rimasti anonimi e dimenticati per secoli. La sua opera getta nuova luce soprattutto sulla pittura dei cosiddetti primitivi (dai primi secoli dell’era cristiana al Quattrocento).
Importante strumento di lavoro per Cavalcaselle sono i suoi disegni, schizzati rapidamente durante l’osservazione dell’opera d’arte e fittamente annotati a margine con considerazioni riguardanti l’attribuzione, la tecnica e lo stato di conservazione. L’attenzione sull’attività di Cavalcaselle disegnatore è stata richiamata da Carlo Ludovico Ragghianti in un articolo del 1952 Come lavorava un critico dell’Ottocento e nel 1973 molti di questi disegni sono stati esposti in una mostra a Verona che ha permesso di ricostruire il metodo di lavoro di Cavalcaselle. Il curatore della mostra, Lino Moretti, osserva come “la traduzione grafica” dei disegni di Cavalcaselle “sia perfettamente intonata alla grafica del pittore studiato” e come “non solo il segno, ma anche la matita, la penna [...] siano scelte in funzione dello stile da individuare”. Nelle annotazioni a margine dei disegni si leggono intuizioni che talvolta Cavalcaselle non ha il coraggio di pubblicare nei suoi scritti, soprattutto quando contraddicono il Vasari. A questo proposito Moretti segnala il caso di due scomparti della pala d’altare dipinta da Masolino per Santa Maria Maggiore a Roma (oggi a Napoli, nella Galleria Nazionale di Capodimonte): ai lati del foglio di taccuino Cavalcaselle annota con sicurezza il nome di Masolino, mentre nell’edizione italiana della Storia si accorda al Vasari attribuendo queste tavole a Masaccio.
Nella Storia della pittura, comunque, le “rivoluzioni” attributive sono notevoli: basti citare il riconoscimento del San Sebastiano della Gemäldegalerie di Dresda come opera di Antonello da Messina degli affreschi della chiesa inferiore di San Francesco ad Assisi come opera dei Lorenzetti e della mano di Giovanni da Milano nella Cappella Rinuccini in Santa Croce a Firenze.
Morelli e Cavalcaselle a confronto
Morelli e Cavalcaselle seguono metodi di lavoro differenti, ma entrambi in realtà – grazie a una conoscenza diretta e capillare dell’arte – procedono all’attribuzione di un’opera compiendo dei processi mentali molto complessi e non riducibili a formule.
Ciò che li distingue è il tentativo di Morelli di ricondurre a un metodo scientifico il proprio procedimento, contro il dichiarato empirismo di Cavalcaselle. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, questa contrapposizione viene ereditata da due grandi storici dell’arte, Bernhard Berenson e Roberto Longhi. Il primo, sostenitore del metodo morelliano, nei quattro volumi sui Pittori italiani del Rinascimento (1897) si preoccupa in primo luogo di individuare gli artisti e di ricostruirne il catalogo completo delle opere; mentre il secondo, seguendo la strada tracciata da Cavalcaselle, proseguita da Adolfo Venturi e Pietro Toesca, mette al centro delle sue ricerche la testimonianza figurativa come chiave per risalire all’autore, ma soprattutto per leggere e interpretare la storia dell’arte. La validità degli studi di Longhi, il suo invito a cercare i nessi che formano la complessità del tessuto artistico delle varie epoche e a rifiutare qualsiasi impostazione “a priori”, orientano la critica italiana del Novecento in senso decisamente ostile al metodo morelliano. Solo in tempi recenti, infatti, Morelli è stato “riabilitato” e la sua opera di “conoscitore” è stata studiata come significativa testimonianza del pensiero ottocentesco.
Lungo il corso della loro carriera, Morelli e Cavalcaselle hanno frequenti occasioni di contatto, dirette e indirette. Nel 1861 Francesco De Sanctis, allora ministro della pubblica istruzione e intimo amico di Morelli, affida a quest’ultimo e a Cavalcaselle il compito di catalogare le opere d’arte delle Marche e dell’Umbria, appartenenti a istituzioni religiose soppresse, per impedirne la fuga all’estero. Nei circa settanta giorni di viaggio, la convivenza tra i due si rivela difficile, come attestano le lettere spedite in quel periodo da Morelli all’amico fiorentino Nicolò Antinori.
Morelli dimostra scarsa stima per questo suo collega schivo e ombroso, di formazione culturale così diversa dalla sua, ed è scettico anche sul metodo di Cavalcaselle, che giudica “intuitivo”, non basato su dati dimostrabili. Non si può dimenticare la feroce caricatura che Morelli tratteggia nella prefazione al volume sulle Gallerie tedesche (1880): in essa Crowe e Cavalcaselle sono descritti come un giornalista stanco del mestiere e un pittore fallito, intenzionati a scrivere una storia dell’arte italiana. L’anno prima Morelli, preannunciando all’amico Layard l’uscita del suo libro, scrive: “il mio opuscolo risulterà in fondo una critica dei libri dei suddetti signori” (Crowe e Cavalcaselle).
All’indomani dell’unità d’Italia, in mancanza di adeguate leggi di salvaguardia, non si riesce a frenare la fuga di opere d’arte dal territorio italiano e Morelli viene spesso accusato di essere tra i principali “animatori” del mercato internazionale, in virtù dei suoi contatti con prestigiosi collezionisti europei, ai quali procura molti buoni affari. Dal convegno del 1987 su Morelli e la cultura dei “conoscitori” e dall’edizione delle gallerie Borghese e Doria curata da Jaynie Anderson è invece emerso come in realtà Morelli metta in atto una politica di incoraggiamento o di freno alle esportazioni a seconda dell’opportunità; spesso egli avvisa collezionisti privati italiani della disponibilità sul mercato di opere che i musei non possono permettersi, invitandoli ad acquistarle per non farle uscire dall’Italia.
Così, se la Tempesta di Giorgione non prende la via di Londra è grazie all’intervento di Morelli che convince il collezionista inglese James Hudson a non acquistarla, con il pretesto del suo eccessivo costo. In un discorso pronunciato alla Camera nel 1862, Morelli si scaglia con parole durissime contro l’ottusità della classe dirigente italiana, sorda alle richieste di leggi mirate a ostacolare le esportazioni, attirandosi l’ostilità dei parlamentari liberisti.
Il tema della conservazione riveste un’importanza particolare nella vicenda di Cavalcaselle che considera la tutela delle opere d’arte strettamente connessa all’impegno civile: il suo atteggiamento “intransigente” deve scontrarsi con ostacoli insormontabili. Nel 1875 viene ristampato un suo opuscolo del 1862, passato allora totalmente inosservato; maturato nell’ambiente della rivista milanese “Il Politecnico”, l’opuscolo segnala le priorità negli interventi a favore del patrimonio artistico: leggi di tutela e di prelazione a favore dello Stato per l’acquisto di opere d’arte, ordinamento e ampliamento delle raccolte pubbliche, conduzione dei restauri secondo criteri conservativi. Da ispettore generale, Cavalcaselle cerca – per quanto possibile – di mettere in pratica i suoi propositi, ottenendo i risultati più soddisfacenti nel campo del restauro. Rimane però disatteso il suo obiettivo principale, la compilazione dell’inventario topografico generale delle opere d’arte del Regno che – oggi sappiamo – auspicava anche Morelli, per liberare molti capolavori dai sotterranei dei musei italiani e collocarli in nuove strutture di esposizione.
Dunque, al di là delle diversità di mentalità e metodo, della rivalità e degli screzi, i due massimi “conoscitori” dell’Ottocento lasciano in eredità ai loro successori le lucide riflessioni sul problema della tutela, ancora oggi il più urgente tra quelli che riguardano i beni culturali italiani.