Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Se è vero che una curiosità per popoli lontani e per civiltà diverse dalla propria accompagna fin dall’Antichità tutta la storia dell’Occidente, è solo nel corso del XVIII secolo che cominciano a definirsi forme scientifiche d’analisi in seguito oggetto di una graduale sistemazione disciplinare nell’antropologia. Già dalla nascita, all’interno della disciplina, convivono due anime: da un lato lo studio differenziale dei caratteri fisici dell’uomo, dall’altro l’indagine sui suoi “costumi”, sulle sue dimensioni e produzioni culturali.
Daubenton e l’angolo occipitale
A quello che Rousseau chiama “nobile e virtuoso selvaggio” tutto il Settecento sembra riservare una solerte attenzione, molto spesso dettata dalla polemica filosofica: l’esistenza di comunità umane totalmente “altre”, testimoniata da viaggiatori, esploratori e missionari solleva molteplici questioni, sino a investire l’identità stessa della civiltà europea e il suo rapporto con il proprio passato. È allora che il tema del “primitivo” balza in primo piano, per occupare poi a lungo la scena e per confluire infine nelle argomentazioni degli evoluzionisti.
Soprattutto in ambito naturalistico si registrano novità di rilievo. Per molti decenni Louis-Jean-Marie Daubenton lavora a Parigi, presso il Jardin du Roi, in qualità di assistente di Buffon, contribuendo non poco alla sua monumentale Histoire naturelle. Daubenton sa mettere a buon frutto le conoscenze là acquisite: pochi contemporanei dominano altrettanto bene l’anatomia comparata, e forse nessuno sa più abilmente coniugarla con la storia naturale. E proprio a Daubenton si deve un Mémoire sur les différences de la situation du grand trou occipital dans l’homme et dans les animaux, presentato all’Académie des Sciences nel 1764. Lo scopo della ricerca è l’individuazione di un sicuro criterio distintivo tra bipedi e quadrupedi, che valorizzi in ultima istanza l’unicità dell’uomo in seno alla natura. Lo strumento idoneo a tale fine viene individuato da Daubenton in un angolo, cosiddetto occipitale, capace di misurare la direzione della colonna vertebrale rispetto al cranio. Quanto più si risale nella scala formata dalle specie viventi e ci si avvicina all’uomo, tanto minore risulta la gradazione di quell’angolo. Daubenton è tra i primi a eleggere il cranio a oggetto privilegiato di un’indagine che sarà più tardi dominio dell’antropologia fisica.
Una linea ideale, benché indiretta, congiunge la craniometria comparata di Daubenton a una dissertazione dell’olandese Peter Camper (1722-1789), concepita nel 1768 ma resa nota soltanto dopo la sua morte. Professore di anatomia e chirurgia all’Athenaeum di Amsterdam, sin da giovane Camper si interessa alle differenze di struttura fisica esistenti tra le razze umane e ai mezzi grafici per rappresentarle.
L’ovale del viso non gli pare adatto a determinare con certezza i tratti fisionomici: tagliando a metà teste umane, Camper nota come a variare sia la posizione delle mandibole, mentre la cavità cerebrale rimane relativamente costante. Anche lui traccia sul cranio un angolo, il facciale, formato dalle rette che uniscono, rispettivamente, la radice del naso e il foro auricolare, l’apice degli incisivi e l’osso frontale.
Tra gli 0 e i 100 gradi di quell’angolo si dispongono tutte le possibili forme animali, oltreché le umane, in una scala di perfezionamenti che culmina nella statuaria greca. Dal cercopiteco (45 gradi di angolo facciale) si perviene attraverso l’orango, la razza nera, la calmucca e l’europea a un progredire di buone proporzioni, simmetria e bellezza.
La reputazione goduta da Camper ovunque in Europa, e la rete di rapporti stabiliti nel corso di numerosi viaggi in Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Germania, agevolano l’accoglienza dell’angolo facciale presso la comunità scientifica.
Verso una sistemazione della disciplina
Verso il 1780 Camper soggiorna a lungo a Göttingen; pochi anni prima Johann Friedrich Blumenbach vi discute la tesi De generis humani varietate nativa, contenente i risultati di osservazioni condotte su un’ampia collezione di crani.
Disponendoli in serie su un piano orizzontale, Blumenbach ne classifica cinque tipi fondamentali, accuratamente differenziati e descritti: caucasico, mongolico, etiopico, americano, malese. Non di geometria qui si tratta, bensì di morfologia, ma pur sempre volta a ritrovare nel cranio segni suscettibili di decifrazione. L’operazione compiuta da Blumenbach equivale a trasferire in ambito umano i principi della tassonomia zoologica: in passato se ne erano già dati esempi, mai tuttavia così rigorosamente e statisticamente fondati. Nella tesi del 1776 Blumenbach non sostiene apertamente che la gerarchia delle forme coincida con quella dell’intelligenza, ma tale illazione è implicita nell’orientamento secondo cui dalla razza caucasica, ritenuta originaria, sarebbero discese le altre quattro in seguito a ibridazione, mutamenti di clima e di alimentazione.
Il caso di Blumenbach mostra come nella seconda metà del Settecento sia ormai consuetudine diffusa tematizzare un necessario (quantunque controverso) rapporto tra fisico e morale.
La Société des Observateurs de l’Homme
Proprio sui Rapports du physique et du moral de l’homme Pierre-Jean-Georges Cabanis nel 1796 legge a Parigi, di fronte ai membri dell’Institut National, alcune memorie che gettano un ponte tra l’Illuminismo dei philosophes e il materialismo di una nuova generazione partecipe dell’età rivoluzionaria. Il medico Cabanis è portavoce autorevole, in quegli anni tumultuosi, del gruppo degli idéologues, cui si deve un ambizioso progetto. Ne è strumento la Société des Observateurs de l’Homme, fondata a Parigi nel 1799, che avrà vita breve ma densa di significato: suona suggestivo il nome del sodalizio formato da naturalisti, filosofi, medici, geografi ed esploratori, storici e archeologi. E non meno straordinario appare quel convergere di svariate competenze verso una scienza dell’uomo considerato “sotto il triplice aspetto fisico, morale e intellettuale”. Promotore e segretario della Société è Louis-François Jauffret (1770-1850) che, occupatosi dapprima di pedagogia e di letteratura per l’infanzia, si dà poi a studi naturalistici e tiene per qualche anno al Louvre un corso pubblico di Histoire naturelle de l’homme. Studi recenti evidenziano che in effetti la Società era stata fondata e veniva sostenuta grazie all’attività di un gruppo di ferventi cattolici e di preti refrattari, che non avevano cioè prestato giuramento di fedeltà allo Stato francese, preoccupati appunto per il perdurare del materialismo più acceso anche nei settori della filosofia, della morale e delle scienze dell’uomo. Negli anni di attività della Società, tra 1800 e 1805, segnati dall’ascesa al potere del generale Bonaparte, permane una grande incertezza sul futuro della religione cattolica nel Paese. La Société apre le sue porte anche ai materialisti e a coloro che auspicano una storia naturale dell’uomo scevra da ipoteche religiose, ma molti dei suoi membri continuano un’azione politica che si esaurirà dopo l’ascesa al trono di Napoleone, nel 1805, e con l’implementazione del Concordato con la Chiesa Cattolica, che attribuisce al clero l’educazione primaria, e si accompagna con una serie di prese di posizione contro l’ateismo e il materialismo. La Société si dissolve, avendo compiuto la propria missione. Gli idéologues vengono cacciati dalle posizioni di rilievo che occupavano all’Institut e nell’amministrazione pubblica. Naturalisti di sicura fede materialista come Lamarck moderano i toni delle proprie pubblicazioni. Lamarck arriva a dichiarare nel luglio del 1802 che non porterà mai a termine il progetto della sua biologia.
Non vi è dubbio tuttavia che un gruppo di membri della Società degli osservatori dell’uomo esprima con forza la consapevolezza di metter mano a una disciplina nuova e autonoma, che deve estendere e cumulare le osservazioni, raccogliere la più grande quantità di “fatti” congedando le vane teorie e le speculazioni arrischiate. Assegnato l’uomo (senza residui) all’ordine di natura, lo si vuol prendere anzitutto in esame sotto l’aspetto fisico – corpo, volto e cranio – badando anche a registrarne le specificità razziali e a ricostruirne origini e migrazioni.
Segue lo studio dei rapporti con l’ambiente nei suoi influssi climatici ma anche sotto forma di alimentazione, abitazione, abbigliamento, socialità in genere.
Viene poi l’homme moral, sempre in stretta relazione con quello physique, ma in più capace di comunicazione linguistica e di elaborazione culturale, soggetto di civiltà diverse nello spazio e nel tempo. A queste civiltà guardano con particolare interesse i soci, come dimostra il loro coinvolgimento nella spedizione scientifica che, organizzata dall’Institut nell’ottobre 1800, fa rotta verso l’Australia. A uso di quei “viaggiatori-filosofi” in partenza da Le Havre per incontrare genti assai diverse dalle europee, Joseph-Marie Degérando redige alcune Considérations générales sur les diverses méthodes à suivre dans l’observation des peuples sauvages: testo non solo di grande bellezza, ma anche esemplificativo di quanto vasto e articolato sia il programma della nascente antropologia. Per l’occasione, una più breve Note instructive sur les recherches à faire relativement aux différences anatomiques des diverses races d’hommes è fornita da Georges Cuvier, che si sofferma sulle misurazioni somatiche (specialmente craniologiche) da effettuare, sui disegni da eseguire, sui reperti da raccogliere.
La spedizione sarà tuttavia afflitta da liti e diserzioni, malattie e morti, compresa la perdita di parte dell’equipaggio. Contemporaneamente, i dissensi sorti tra gli observateurs intorno alla svolta imperiale di Napoleone e le difficoltà finanziarie contribuiranno, già nel 1805, allo scioglimento della Société. Ridotti a minoranza, gli idéologues debbono cedere al potere imperiale e al revanscismo della cultura cattolica.
Sulle differenze fisiche esistenti tra gli uomini, che da sempre erano state notate e che avevano eccitato la curiosità col procedere delle scoperte geografiche, calerà inesorabile la classificazione, strumento d’ordine. Da qui riprenderà il cammino dell’antropologia ottocentesca, presto convinta che le razze non discendano tutte da Adamo, ossia da un unico ceppo ramificatosi e modificato per effetto dell’ambiente, bensì da specie distinte già in origine. A favore di quest’ultima tesi, poligenista, si pronuncia in una Histoire naturelle du genre humain del 1800 Julien-Joseph Virey (1775-1846), vicino alla Société des Observateurs ma schierato contro gli idéologues e i materialisti, fautore della teologia naturale e del vitalismo metafisico. Virey si fa interprete delle preoccupazioni suscitate dalle rivolte degli schiavi a Haiti, guidati da François-Dominique Toussaint Louverture (1743-1803), teorizzando l’inferiorità naturale della razza “negra” e l’inevitabilità naturale dello schiavismo. La brutale e inumana repressione della rivolta, uno dei capitoli più sanguinosi della storia coloniale, viene indirettamente “giustificata” facendo presente che il negro, più vicino all’animale che all’uomo, non sente il dolore, e ha bisogno di maniere forti per essere governato. Da buon cattolico, Virey spende anche parole di comprensione per il destino degli schiavi e invita i suoi contemporanei ad addolcire le misure restrittive e disciplinari. L’europeo, “uomo per eccellenza”, è stato posto dalla natura e dalla Provvidenza alla testa della creazione animale e delle specie umane inferiori destinate al suo servizio. Le tesi di Virey conosceranno grande fortuna negli ambienti schiavisti degli Stati Uniti e delle colonie inglesi.