La nascita del sistema ferroviario e il ruolo della tecnica
I primi passi dell’esperienza ferroviaria preunitaria
L’introduzione delle ferrovie nella penisola italiana prima del 1861 rappresenta un tipico caso ottocentesco di trasferimento tecnologico e di impianto di una novità dal forte impatto economico e sociale in una realtà periferica e arretrata. Ciò avvenne con tempi e modalità differenti da Stato a Stato e quindi con esiti altrettanto diversificati e non genericamente del tutto positivi. Laddove il terreno venne gradatamente dissodato da alcuni personaggi e ambienti, appartenenti sia al mondo politico-economico sia intellettuale e tecnico-scientifico, i risultati furono indubbiamente più convincenti. Nei contesti in cui si percepirono le potenzialità della portata complessiva del nuovo mezzo di trasporto, catalogato inizialmente come un’invitante espressione di progresso, venne avviato il dibattito e preparato in misure e toni variegati l’avvento. Viceversa, le ferrovie faticarono a sfondare e convincere proprio dove prevaleva l’occhiuto controllo poliziesco sulla curiosità nei riguardi del nuovo.
Come avvenne in ogni altro Paese europeo, anche in Italia le ferrovie costituirono il più grande affare dell’Ottocento e una delle questioni politiche cruciali. Fin dai primi anni si moltiplicarono i progetti, stimolando tecnici dalla più varia estrazione a cimentarsi con la novità. Furono oggetto del desiderio di politici e capitalisti, provocando al tempo stesso euforia e diffidenza, e divennero progressivamente merce di scambio nel complicato rapporto fra centro e periferia del Paese. Influirono sulla struttura dei primi mercati maturi di capitali, inducendo pratiche borsistiche moderne e favorendo l’invenzione di nuovi prodotti finanziari, ma finendo anche per gonfiare il fenomeno della speculazione.
Negli Stati italiani prevalse una grave e generalizzata mancanza dei capitali necessari alla costruzione delle varie linee, che provennero quasi interamente dall’estero, spesso attraverso l’intermediazione di uomini d’affari locali. Ciò facilitò anche l’inserimento di Stati periferici nel cuore economico e finanziario dell’Europa. Le azioni delle strade ferrate italiane fecero la loro apparizione al London stock exchange, suscitando interesse, movimentando il mercato e contribuendo inesorabilmente alla diffusione della pratica speculativa. Inoltre, le compagnie ferroviarie, secondo la ben nota analisi di Alfred D. Chandler (Strategy and structure, 1962), relativa in particolare al caso americano, possono configurarsi come le prime grandi imprese apparse sulla scena mondiale sul finire del secolo. Da ogni punto di vista, dunque, caratterizzano profondamente l’intera storia del 19° secolo.
Frammentata politicamente, l’Italia non poteva che giungere all’appuntamento ferroviario in ordine sparso. Anche quanti reagirono sollecitamente agli stimoli provenienti dall’estero non furono in grado di realizzare che linee singole o, al più, microsistemi subregionali, assai lontani dal formare reti organiche. Senza sopravvalutarne i risultati, che furono a dire il vero modesti, l’esperienza ferroviaria italiana rappresentò comunque un primo successo per la penisola, economicamente arretrata e incapace di sopperire autonomamente al bisogno di capitali.
Sotto il profilo delle competenze tecniche il nascente mondo ferroviario funzionò da laboratorio per generazioni di tecnici che, all’inizio ancora in difetto rispetto ai più valenti colleghi stranieri, in tempi brevi colmarono il ritardo, imparando e ottenendo acquisizioni indubbiamente significative. In ultima analisi, un altro aspetto va messo adeguatamente in luce: le ferrovie segnarono, spesso per sempre, il territorio e trasformarono radicalmente l’impianto delle città, incidendo in via definitiva sulla loro urbanistica e sanzionandone una gerarchia basata sull’inserimento o meno nella rete principale.
Le informazioni ferroviarie cominciarono a filtrare dalla fine degli anni Venti negli Stati preunitari italiani grazie a quella parte più illuminata di borghesia attenta al progresso e attirata dalle nuove opportunità economiche, un gruppo ristretto che ebbe però il merito di mantenersi costantemente aggiornato rispetto a quella che, secondo il sentire comune, rappresentava la novità più sorprendente del tempo. A seconda dei casi, le ferrovie trovarono una sponda efficace nelle corti dei regnanti, molti dei quali vi colsero un possibile motivo di prestigio e di generica modernizzazione. Mancò, come del resto è comprensibile, una piena consapevolezza delle potenzialità eccezionali delle ferrovie come volano dello sviluppo economico e, in particolare, come fattore di industrializzazione. Spinti da motivazioni diverse e orientati verso obiettivi spesso divergenti, i governanti italiani ovunque si accostarono al problema ferroviario con un sentimento misto di interesse e di diffidenza, ma difficilmente si dimostrarono capaci di gestire autonomamente qualsiasi iniziativa concreta, per la quale si dovettero appoggiare a figure esterne economicamente influenti.
I primi frutti, comunque, nonostante la fragilità delle risorse a disposizione e dei progetti elaborati, non si fecero attendere: nel 1825 Carlo Ginori Lisci in Toscana e l’anno successivo un gruppo di commercianti genovesi presentarono ai rispettivi regnanti una domanda per la costruzione di una via ferrata che avrebbe dovuto unire la capitale del proprio Stato con il porto principale, Firenze a Livorno, nel primo caso, e Torino a Genova nel secondo. Entrambi i prematuri tentativi, ispirati chiaramente a motivazioni di natura commerciale, andarono a vuoto, subendo però soltanto un rimando di qualche anno. Fu un inevitabile passo falso, ma quanto meno compiuto praticamente in contemporanea con il debutto ferroviario inglese, segno che gli echi erano giunti anche in Italia. Mancava ancora tutto ciò, oltre alle idee chiare sul ruolo da concedere alle ferrovie, anche i capitali per finanziarle e il know-how per costruirle. Le suggestioni che le notizie provenienti dall’Inghilterra provocavano facevano scattare la molla della fantasia, che però non bastava a compensare la mancanza degli elementi di base.
Risultato per certi versi anomalo fu dunque la realizzazione del primo brevissimo tratto ferroviario nella penisola, quel Napoli-Portici inaugurato nel 1839, che colse è vero il record italiano in fatto di ferrovie, senza però significare nulla di più di un abbellimento della corte borbonica, quasi una linea giocattolo, per la realizzazione della quale Ferdinando si rivolse all’imprenditore francese Armand Bayard de la Vingtrie.
Nel panorama del primo Ottocento l’iniziativa di Ferdinando appariva del tutto pionieristica. Conferma, nei fatti, di una situazione di arretratezza relativa nel campo dell’interesse e delle acquisizioni tecnico-produttive del tutto incomparabile a quella fatta registrare sul piano politico. Il Regno delle Due Sicilie conosceva aree di progresso in più settori della vita economica, intesa nel suo complesso, che in molti casi gli permettevano di confrontarsi alla pari con le realtà più progredite del Paese. Non solo i Borboni misero il proprio marchio sulla prima ferrovia italiana, ma fecero altrettanto sulla prima nave a vapore del Mediterraneo. Si trattava evidentemente di un progetto limitato, un tratto ferroviario di pochi chilometri che non riservava difficoltà costruttive di rilievo. Sta di fatto, però, che l’iniziativa includeva egualmente una buona dose di azzardo e perfino di incoscienza da parte del sovrano borbonico. In definitiva, fu effettivamente un evento memorabile, benché sostanzialmente simbolico, per le ridotte dimensioni del tratto e l’assenza forzata di qualunque finalità economica.
Cavour
«In Inghilterra non esistono più distanze. Le comunicazioni anche tra città lontane, come Londra e Liverpool, sono diventate più facili che tra quartieri diversi della stessa città. La posta parte da Londra due volte al giorno per quasi tutte le direzioni» (cit. in Romeo, Cavour e il suo tempo, 1° vol., 1977, p. 735). Così scriveva estasiato nel proprio diario l’unico che al tempo fu in grado di intuire pienamente le potenzialità del nuovo mezzo di trasporto e di disegnare in modo lungimirante una rete ferroviaria già italiana prima ancora dell’esistenza dell’Italia.
Camillo Benso conte di Cavour, verso la metà degli anni Quaranta, indovinando il destino unitario del Paese, affidava alle ferrovie, potente stimolo per l’economia e al tempo stesso elemento di civiltà e di progresso, un ruolo decisivo rispetto al processo di unificazione politica ed economica e le incorporava nel proprio modello di sviluppo. Il suo Des chemins de fer en Italie, pubblicato nel maggio 1846 sulla parigina «Revue nouvelle» in forma di recensione all’opera di Carlo Ilarione Petitti di Roreto, rappresenta la dimostrazione della chiarezza della visione cavouriana in tema di ferrovie e la sua completa capacità di padroneggiare la materia.
Cavour comprendeva la rilevanza della rete, quando ancora si ragionava prevalentemente in termini di acquisizioni singole, affidando alle ferrovie un ruolo cruciale rispetto al processo di unificazione politica ed economica. Si trattava per Cavour del punto di arrivo della sua elaborazione e si giovava della vasta esperienza maturata all’estero, grazie agli svariati viaggi compiuti e alle altrettanto numerose relazioni che intratteneva con personaggi influenti sparsi per l’Europa occidentale. Il famoso scritto ferroviario fu importante per il celebre politico piemontese anche perché era la prima volta che sosteneva pubblicamente il tema della nazionalità italiana, legandolo strettamente alla diffusione della più innovativa infrastruttura del tempo. Sulle ferrovie il conte puntava anche in termini morali: «Più di ogni altra riforma amministrativa – scriveva nell’articolo – e forse anche di larghe concessioni politiche, l’esecuzione delle strade ferrate contribuirà a consolidare questo stato di mutua confidenza fra i governi e i popoli, base delle nostre future speranze».
La mappa ferroviaria ideata da Cavour indicava come centrale l’unione delle linee piemontesi con quelle lombarde e altrettanto strategico era considerato il progetto che indicava di unire i porti tirrenici con quelli adriatici. Per il Meridione la considerazione non cambiava: il treno gli appariva il mezzo ideale per aggregare anche quelle regioni alla nuova nazione in fieri.
La politica ferroviaria piemontese
Grazie a Cavour, ma anche all’ambiente indubbiamente più reattivo rispetto a quanto di nuovo si stava imponendo al di là delle Alpi, nel Piemonte una riflessione organica sulle ferrovie procedette con speditezza sulla base di una proficua articolazione fra pubblico e privato, cogliendo alla lunga risultati apprezzabili e facendo da modello al momento della creazione dello Stato unitario. Tale riflessione coniugava l’esigenza di guidare l’espansione delle ferrovie con l’immutato credo nel verbo liberista, al tempo stesso facendo i conti con le ristrettezze finanziarie di un piccolo Stato, un equilibrio non facile da raggiungere.
Un altro fattore decisivo fu il buon livello di preparazione, nei ranghi statali, di un personale tecnico in grado di realizzare i programmi di espansione ferroviaria e il graduale sviluppo di capacità adeguate tra gli imprenditori locali di lavori pubblici, istruiti in precedenza dagli appalti per la costruzione dei tronchi delle linee statali, cui si sommò la costituzione di un’azienda ferroviaria di Stato, capace di gestire, con risultati economicamente validi, le linee via via approntate. Le regie patenti emanate nel 1844 da Carlo Alberto, dopo lungo tergiversare, aprirono in pratica l’era ferroviaria nel Piemonte sabaudo affidando agli uffici tecnici statali l’analisi delle linee principali studiate fino a quel momento. L’ingresso dello Stato nella questione ferroviaria venne ribadito l’anno successivo, quando il re avocò al potere pubblico la realizzazione della linea per Genova, lasciando viceversa all’iniziativa privata i tratti minori.
L’istituzione principale dedicata alla formazione degli ingegneri, nella prima epoca ferroviaria sabauda, fu il Corpo del Genio civile, creato nel 1825. La prima scuola professionale destinata alla formazione dei ferrovieri, soprattutto dei macchinisti che guidavano i primi convogli, venne istituita dall’amministrazione ferroviaria piemontese nel 1853 presso le officine di Busalla, sulla linea Genova-Novi Ligure. In generale, è possibile affermare che l’acquisizione di conoscenze presso le officine e i cantieri da parte degli ingegneri fu di grande importanza ai fini della crescita professionale della categoria e contribuì in maniera decisiva al processo di consolidamento della cultura ferroviaria. In definitiva, per quanto concerne l’esperienza sabauda non appare fuori luogo richiamare l’esistenza di una prima moderna cultura delle infrastrutture, probabilmente ancora acerba, ma del tutto rilevante ai fini della maturazione del contesto ferroviario nel suo complesso.
Degli 850 chilometri di ferrovie costruiti in epoca preunitaria nel Regno sabaudo, 276 appartenevano allo Stato, 404 erano suddivisi fra 12 compagnie concessionarie e 170 costituivano il patrimonio della Vittorio Emanuele, fondata nel 1853 al fine di collegare il Piemonte con la Savoia, la Svizzera e la Francia. In conclusione, anche per il contributo offerto da Cavour, il Piemonte fu l’unico Stato italiano ad allinearsi, in quanto a politica ferroviaria, alle scelte delle maggiori potenze europee.
Croci e delizie delle ferrovie preunitarie
Non dappertutto le ferrovie ottennero la stessa ospitalità. In Toscana, ad es., rappresentarono uno dei banchi di prova più affidabili per i primi tentativi di modernizzazione dello Stato da parte del granduca Leopoldo II. I risultati furono relativamente considerevoli anche per la presenza di personaggi indubbiamente preparati per sfruttare l’occasione propizia; non è un caso che finanzieri del calibro di Ubaldino Peruzzi e Pietro Bastogi di lì a qualche anno si ritroveranno ai vertici del nuovo Regno. Favorito dalla concezione accentuatamente privatistica che delle ferrovie e dell’impresa si aveva ai vertici dello Stato, il capitale estero, soprattutto inglese e austriaco, accorse con interesse laddove le accentuate rivalità municipali facevano moltiplicare, insieme con i progetti delle linee, le opportunità di guadagno speculativo. Assolutamente minoritario fu invece il coinvolgimento del capitale locale.
Pur impossibilitato a prendere decisioni autonome, avendo le mani legate dall’occupazione austriaca, il Lombardo-Veneto presentava un’attrezzatura economica e protoindustriale, in particolare nel settore metalmeccanico, non dissimile da quella piemontese. Se la prima realizzazione ferroviaria in questo Stato non è degna più di tanto di nota – la Milano-Monza venne aperta nel 1840 e si limitava a collegare il capoluogo lombardo con la sede della reggia – lo è invece assai di più il dibattito che si sviluppò intorno alla realizzazione della linea fra Milano e Venezia.
Concepita fin dall’inizio come tratto portante dei territori dominati dall’Austria in Italia in funzione di collegamento fra Milano, Venezia e il porto di Trieste e di là fino alla capitale Vienna, quando venne il momento di sceglierne il tragitto si confrontarono più opinioni. La ben nota controversia, che fece a lungo scuola nella progettazione ferroviaria italiana, verteva sull’opportunità di puntare direttamente a congiungere i due punti estremi della linea o piuttosto di scegliere il percorso che univa il maggior numero di centri intermedi, come sosteneva Carlo Cattaneo. Il dibattito sviluppatosi appartiene di diritto alle pagine più interessanti della storia delle prime ferrovie italiane, che plasmò e rese fertile. Iniziata la costruzione nel 1841, solo nel 1857 ne fu assicurata l’intera percorrenza.
Le prime proposte ferroviarie dettero minori frutti nei due grandi Stati che occupavano il Centro-Sud della penisola. Papa Gregorio XVI, il pontefice che occupò il trono di Pietro dal 1831 al 1846, negò qualsiasi apertura a quanti invocavano l’introduzione della rivoluzionaria infrastruttura, che avrebbe probabilmente rischiato di far circolare insieme con le locomotive anche idee liberali e pericolose istanze di cambiamento e riforma. L’intransigenza papalina nei confronti di uno dei portati più straordinari del progresso fu un’ulteriore prova dell’ottusità politica dello Stato pontificio.
Solo con Pio IX l’atteggiamento cambiò e soprattutto nelle Legazioni la prospettiva ferroviaria ebbe modo di svilupparsi più concretamente: alla prima proposta di una linea fra Bologna e Ancona ne seguì un’altra di una transappennina per la Toscana, ma in una simile atmosfera di invadente oscurantismo entrambe faticarono non poco, nonostante l’impegno di una borghesia vivace e aperta. Formato per lo più da proprietari terrieri e commercianti di generi agricoli, il ceto dirigente bolognese ed emiliano comprese tempestivamente le possibilità che si sarebbero aperte con la ferrovia per lo smercio dei propri prodotti, costretti, per raggiungere i mercati nazionali ed esteri, a compiere estenuanti e costosissimi viaggi in nave. Soprattutto a Bologna si scatenarono gli entusiasmi e gli appetiti degli speculatori e dei nuovi imprenditori, confortati dal mutamento di rotta, ma ostacolati dalla chiara volontà di appropriarsi dell’intero affare ferroviario evidenziata dalla borghesia affaristica romana, più vicina e in certi casi in aperta collusione con gli alti gradi della gerarchia pontificia. Pio IX mostrò subito di non pensarla come il suo successore in fatto di strade ferrate e nel luglio dello stesso anno della sua elezione nominanò una Commissione consultiva per le Strade ferrate.
Nel 1850 il Granducato di Toscana ero lo Stato più denso di ferrovie con 119 km, contro i 115 del Lombardo-Veneto, su un totale di 371 km di linee, cui il Regno sardo contribuiva con 91. Nove anni più tardi, alla vigilia dell’unificazione, il Regno sardo raggiungeva la cifra di 835 km, seguito dal Lombardo-Veneto con 656, mentre il Granducato era fermo a 322. Dal 1850 al 1859 la rete ferroviaria italiana era passata a 2238 km, aumentando di sei volte, due terzi dei quali appartenevano all’Italia del Nord. Al momento dell’unificazione la rete italiana constava di 1625 chilometri, cifra ancora distante da quelle conseguite in Gran Bretagna e in Francia.
Una chance per l’ingegneria italiana
L’epoca del primo sviluppo ferroviario rappresentò un’occasione irripetibile per gli ingegneri attivi negli Stati italiani preunitari e contribuì in maniera decisiva alla loro presa di coscienza e preparazione, costituendo un passaggio fondamentale nel processo di autonomizzazione della materia ferroviaria. Grazie alle ferrovie si resero più nitidi i contorni della professione e la figura dell’ingegnere assunse un rilievo particolare, conquistando uno spazio assai più ampio e consolidato. Fu un banco di prova formidabile, trattandosi di un campo completamente nuovo per i tecnici italiani, i quali vi si avvicinarono armati di una marcata vocazione all’empirismo e forti soltanto delle conoscenze provenienti dall’estero, che avevano appreso, nella maggior parte dei casi, come un’eco lontana e solo in alcuni attraverso un’esperienza diretta. Il percorso prese corpo fin dai primi anni del debutto ferroviario sulla penisola, dunque a partire dalla seconda metà degli anni Venti, con le prime isolate pionieristiche iniziative, per diventare poi una frontiera di scoperta nel decennio successivo. In pratica, mantenne una sua linearità grosso modo fino agli anni Sessanta, epoca in cui si riformarono gli studi di settore e si riorganizzò sotto il profilo societario il mondo delle ferrovie italiane.
Negli Stati preunitari più avanzati sotto il profilo della cultura delle infrastrutture, due istituzioni – il reale Corpo del Genio civile in Piemonte e il Corpo degli ingegneri in Toscana –, entrambe nate nel 1825, formarono una buona fetta degli ingegneri poi attivi in ambito ferroviario. Fu un iter lungo e complicato. Per molto tempo la definizione di ingegnere ferroviario non comparve nei testi relativi al primo processo di diffusione delle ferrovie sulla penisola. Furono i tecnici specialisti in discipline afferenti sia all’ingegneria civile sia a quella meccanica – fisiche, ma anche chimiche e idrauliche – ad accostarsi per primi al settore emergente, acquisendo con il tempo la qualifica di ingegneri ferroviari.
Lo sviluppo dell’ingegneria ferroviaria si sostanziava nella ricerca di tecniche coordinate afferenti a campi non sempre confinanti, al fine di dare una soluzione a una serie di quesiti tecnologici appartenenti a una dimensione sconosciuta. In generale, appare lecito affermare che una delle caratteristiche principali della prima ingegneria ferroviaria sembra essere stata proprio la multidisciplinarità. Agli ingegneri veniva richiesta una buona dose di versatilità: non bastava che si interessassero di ferrovie, ma, viceversa, venivano obbligati a seguire gli sviluppi delle tante discipline che facevano corona al nuovo mezzo di trasporto. Prevaleva nei nuovi protagonisti ferroviari una provenienza dal campo delle comunicazioni: è rintracciabile per certi versi una linea continua fra il lavoro tecnico dell’ingegnere ferroviario e quello impegnato in precedenza nel settore delle strade e delle vie d’acqua, dove attingeva alle conoscenze che la categoria aveva maturato fin dall’inizio del secolo grazie anche alla spinta napoleonica in campo territoriale.
Un’ulteriore tessera venne aggiunta nel mosaico della formazione degli ingegneri: ai nuovi ingegneri venne richiesto di misurarsi con una dimensione più imprenditoriale, necessità di cui le ferrovie si fecero portatrici. Congiuntamente alla redazione del progetto tecnico, si trovarono quindi nella necessità di tenere in considerazione anche le questioni economiche, ossia, da un lato, la spesa da affrontare nelle sue varie articolazioni – nella quale occorreva far rientrare tutto, dagli oneri richiesti per le opere d’arte fino ai rimborsi per gli espropri ai proprietari terrieri – e, dall’altro, i profitti da attendersi ragionevolmente dall’intrapresa. La scelta di un tracciato a favore di un altro, così come l’opzione per una soluzione tecnologica alternativa pesavano sui costi della linea e alla lunga la orientavano e la influenzavano non meno della logica della direzione.
La realtà delle ferrovie impose comportamenti nuovi: la questione ferroviaria va letta anche in chiave di responsabilità di chi doveva predisporre il complesso del viaggio in treno. La specializzazione richiesta esigeva infatti un costante aggiornamento per la rapidità dei cambiamenti; a nessuno era permesso di non continuare a studiare e a indagare le esperienze più avanzate. Per questo gli ingegneri viaggiarono a lungo, trascorrendo periodi di tirocinio all’estero, oltre a leggere e a informarsi; e, ancora, dovettero cimentarsi in scritti tecnici a proposito della scelta di un tracciato o di una tecnica costruttiva, scambiando pareri con i colleghi degli altri Paesi e mantenendo un livello di informazione sempre molto elevato. Si gettarono, spesso sul filo della polemica litigiosa, in dispute appassionate, dando vita quasi a un genere letterario nuovo, il pamphlet ferroviario, che innervò l’intera letteratura grigia ottocentesca, così come le carte ferroviarie, disegnate con particolari sorprendenti, divennero quasi un genere artistico.
Del resto la funzione si prestava al dispotismo; l’ingegnere ferroviario si fece spazio senza mezzi termini, in virtù di conoscenze molto specifiche rispetto agli altri senza esitare a forzare la mano a quanti recalcitravano, entrando spesso in rotta di collisione non solo con i colleghi, ma soprattutto con i responsabili amministrativi governativi. La storia delle ferrovie preunitarie italiane è ricca di scontri e diatribe che possono anche essere letti in filigrana come un duro confronto fra un settore privato dinamico e prorompente, sulle ali di una novità prodigiosa che spiazzava, e un settore pubblico che cercava di resistere al cambiamento, puntando a non perdere la propria sovranità sul territorio. In questo modo la categoria di ingegneri ultima arrivata acquistò una visibilità prima sconosciuta. Emulazione e convergenza segnano la storia degli ingegneri ferroviari italiani, i quali nel complesso dimostrarono di saper colmare in tempi relativamente rapidi il divario che li separava dai colleghi europei. In ogni settore si registrarono avanzamenti concreti e, anche in termini di capacità di innovare, gli ingegneri attivi sulla penisola si rivelarono propositivi e pieni di inventiva, come anche i dati relativi ai brevetti rilasciati in ambito ferroviario sono in grado di testimoniare.
I luoghi dell’apprendimento
Trasferimento tecnologico e pratica sul campo furono i primi veicoli di conoscenza ferroviaria negli Stati italiani. Gli ingegneri si formavano sui testi e sui manuali, che in questi anni conobbero una certa diffusione anche nella penisola. Si trattava soprattutto di opere redatte in francese, lingua allora più conosciuta dell’inglese, concepite appositamente per istruire e far penetrare in un Paese ancora vergine i primi rudimenti della scienza ferroviaria. Bisognerà aspettare gli anni Cinquanta per l’uscita dei primi manuali scritti da tecnici italiani.
La pratica invece veniva fatta nei cantieri lungo le linee e nelle officine di riparazione. La prima scuola professionale destinata alla preparazione dei ferrovieri risale al 1853. Venne istituita dall’amministrazione ferroviaria piemontese presso le officine di Busalla, sulla Genova-Novi Ligure; vi si istruivano soprattutto i macchinisti dei primi convogli che attraversavano il territorio sabaudo. Altre scuole collocate all’interno delle officine sorsero anche a Milano e in altri centri ferroviari della penisola. In particolare, una vera e propria scuola per i ferrovieri venne fondata a Pietrarsa presso Napoli, sede delle principali officine della prima epoca ferroviaria in Italia, dove l’insegnamento era orientato verso la riparazione e la manutenzione del materiale rotabile. In generale, è possibile affermare che l’acquisizione di conoscenze presso le officine da parte degli ingegneri fu di grande importanza ai fini della crescita professionale della categoria e contribuì in maniera decisiva al processo di consolidamento della cultura ferroviaria.
Una vera e propria istruzione universitaria in campo ferroviario tardò a essere organizzata in Italia e cominciò a essere impartita soltanto con l’Unità. Il primo corso di ingegneria ferroviaria – denominato Macchine a vapore e ferrovie – fu attivato per la prima volta presso la Scuola di applicazione per gli ingegneri di Torino nell’anno accademico 1861-62 e venne affidato a Dionigi Ruva, direttore delle officine di riparazione piemontesi fra il 1859 e il 1862. La creazione del Politecnico nel 1863 coincise con l’avvio del primo insegnamento di ingegneria meccanica a Milano.
Il disegno delle linee e la produzione del materiale rotabile
Molte sono le tappe che l’innovazione tecnologica conobbe in campo ferroviario a partire dal tracciamento delle linee – profilo planimetrico e disegno dei vari manufatti – fino al materiale rotabile, alla tipologia dei materiali e ancora del segnalamento, le tre filiere tecnologiche principali che compongono il sistema ferroviario.
Le prime linee furono costruite in pianura su terreni resistenti in modo da evitare ostacoli di difficile superamento. Gli studi geologici non avevano ancora raggiunto livelli di conoscenza sufficientemente avanzati e incombeva il rischio di stendere i binari su terreni inadatti a riceverli. Ponti e viadotti costituirono le opere necessarie allo scavalcamento di corsi d’acqua e avvallamenti. La prospettiva cambiò quando sorse l’esigenza di superare asperità. In linea di massima, furono due le scuole che si imposero. Secondo i dettami della prima, di origine austriaca, la convenienza veniva individuata nel disegno di linee tortuose che salivano, in gran parte tenute allo scoperto. L’altra invece, sviluppatasi soprattutto in Italia, preferiva affrontare la costruzione di lunghe gallerie, tenendo la linea a quote più basse. Scavalcamento e perforazione della montagna – vuoi gli Appennini vuoi le Alpi – rappresentavano comunque una sfida da far tremare i polsi. Costruire un lungo tunnel, poi, armati spesso solo di piccone e pala, costituiva un’impresa mai sostenuta in precedenza.
L’inesperta ingegneria del tempo neppure con il contributo del know-how straniero era in grado di mettere a disposizione strumenti idonei per costruire tunnel di una certa lunghezza, né per salire fin quasi alla cima e passare dall’altra parte. Vi si impegnarono generazioni di tecnici (ingegneri, geologi, matematici, fisici), i cui sforzi sono testimoniati anche da una mole ingente di scritti, fonte irrinunciabile per gli storici della materia.
Oltre che sulla realizzazione della linea, il lavoro sperimentale dei tecnici si concentrò sulla trazione: permettere alle locomotive di trainare lunghi e pesanti treni sulle salite appenniniche e alpine non era impegno di poco conto, tanto che nei primi progetti vennero ancora a lungo previste macchine fisse e cremagliere, che in pratica trascinavano il treno quasi a passo d’uomo nei punti più ripidi. L’ingresso poi delle linee nelle città proponeva difficoltà altrettanto elevate e imbarazzi di ogni genere per la ferma opposizione a qualsiasi deturpamento e limitazione opposta dalle amministrazioni municipali.
L’altro versante dell’opera dei tecnici era rappresentato dalla costruzione del materiale rotabile, soprattutto delle locomotive, che costituivano un oggetto estremamente sofisticato sotto il profilo tecnologico. La filosofia dei primi progettisti italiani di locomotive fu chiara fin dall’inizio: puntare sulla specializzazione dei tipi in relazione alla loro utilizzazione. La costruzione delle locomotive nel nostro Paese ha risposto, infatti, storicamente a bisogni specifici, nel senso che la tipologia era legata alle esigenze manifestate dalle singole linee sulla base delle proprie caratteristiche di percorso, fatto che, com’è intuibile, provocò notevoli problemi in ordine alla standardizzazione del materiale. Si cercò con il tempo di fornire prodotti in grado di rispondere volta a volta alle esigenze che si presentavano. Così si svilupparono differenti tipologie, a seconda che alle macchine fosse richiesto il trasporto di persone o di merci o che dovessero trainare treni in salita.
La produzione di locomotive in Italia venne avviata dall’impresa genovese Ansaldo nel 1854, uno dei rari grandi soggetti industriali dell’Italia prima del 1860, ma il nostro Paese restò dipendente in questo campo prima da Inghilterra, Francia e Belgio, grosso modo dalle origini fino al 1875, poi soprattutto da Austria-Ungheria e Germania, ma specialmente da quest’ultima, nel periodo che giunge fino alla nazionalizzazione. Le prime due locomotive italiane vennero consegnate nel 1855; nel giro di cinque anni il numero di locomotive costruite fu di 16. Fra il 1847 e il 1860 vennero immesse sulla nascente rete peninsulare in tutto 404 locomotive, di queste, 383 furono importate dall’estero.
La prima grande sfida tecnica: la Torino-Genova
I lavori della Torino-Genova ebbero inizio nel 1846 sulla base del progetto di Ignazio Porro, ma il garante tecnico fu uno degli ingegneri ferroviari più conosciuti del tempo, Isambard Kingdom Brunel (1806-1859), nome di tutto rispetto nel panorama internazionale e costruttore di alcune delle principali linee britanniche, come la Great Western, la South Wales e la Cornwall.
Non c’era ferrovia italiana che in quegli anni non si giovasse dell’apporto tecnico di ingegneri britannici o comunque di qualche Stato europeo; le conoscenze specifiche erano ancora troppo deboli e avevano bisogno di un supporto tecnico-scientifico indispensabile. Venerati come sacerdoti di una nuova religione, i grandi costruttori ferroviari britannici giravano per l’Europa come protagonisti di una sorta di star system grazie alle conoscenze che erano in grado di trasmettere.
La Torino-Genova venne inaugurata il 18 dicembre 1853; il tracciato comprendeva il primo vero tratto di montagna realizzato in territorio italiano e uno fra i primi e più arditi a livello continentale. La galleria dei Giovi, l’opera di maggior impegno, misurava 3254 m e costituiva all’epoca uno dei trafori più lunghi e impegnativi del mondo. La pendenza tra Pontedecimo e Busalla, mai affrontata in precedenza, raggiungeva il 35‰ e per superarla venne ideata un’apposita potentissima locomotiva, il Mastodonte dei Giovi, alla cui realizzazione lavorarono sia Michel-Henri-Joseph Maus sia Germano (Germain) Sommeiller, protagonisti anche della ferrovia del Fréjus.
Grosso modo contemporaneamente veniva realizzato un altro valico ferroviario di grande portata tecnologica. Nel 1854 venne infatti aperta la linea da Trieste a Vienna – anche in quel caso fra la capitale e il suo porto principale – attraverso il Semmering. Il progettista fu il veneziano Carlo Ghega, che costellò la linea di 14 gallerie, una delle quali raggiungeva la lunghezza di 1431 m, con 16 viadotti e più di un centinaio di ponti. La linea affrontava dislivelli compresi fra il 20 e il 25‰. Per quanto non appartenga stricto sensu a una rassegna italiana, rappresenta comunque una pagina di grande rilievo nella storia ferroviaria ottocentesca.
La Porrettana
In epoca preunitaria molti furono i progetti, per lo più abortiti, di comunicazione transappenninica che vennero proposti all’epoca con estrema noncuranza, senza tenere conto di ostacoli spesso insormontabili. Spinti da amministrazioni municipali e da enti economici, progettisti improvvisati si gettarono nella mischia, al punto da fare della transappenninica una vicenda chiave che si sarebbe trascinata per lunghi anni, caratterizzando l’intera storia delle ferrovie italiane nell’Ottocento.
Il progetto che giunse felicemente in porto per primo fu la Porrettana, aperta al traffico nel 1864 e reputata fin dall’inizio come l’indispensabile tratto di congiunzione fra il Nord e il Sud della penisola. In ordine di tempo dopo i Giovi e il Semmering fu la più ardita opera di ferrovia di montagna. Linea difficile per le opere d’arte – 35 ponti e 49 gallerie – e per i terreni sui quali poggiava, la Porrettana opponeva ostacoli inusitati anche per il superamento della sommità.
Per risolvere l’inestricabile problema della discesa verso Pracchia venne reclutato un ingegnere francese trapiantato a Bologna, Jean-Louis Protche, il quale ideò un’innovativa galleria di valico elicoidale di modernissima concezione – lunga 2727 m e posta a 617 m di quota – che ha poi fatto scuola per i progettisti di linee di montagna.
La svolta: il Fréjus
Il taglio dell’istmo di Suez (1869) e il traforo del Fréjus furono le due opere infrastrutturali più celebri del proprio tempo. Incorporavano lo spirito del progresso che nelle infrastrutture si rifletteva coerentemente. Pareva impensabile riuscire a scavare il deserto così come la montagna, eppure l’uomo, grazie al proprio ingegno e alle straordinarie acquisizioni tecnologiche messe in opera, vi riuscì brillantemente, delineando una prospettiva di interminabile ottimismo. Le due iniziative segnarono un punto di svolta: da quel momento nessuna impresa venne reputata fuori dalla portata umana.
A entrambe le vicende partecipò da protagonista un personaggio come Pietro Paleocapa (1788-1869), uno degli ingegneri più famosi dell’Ottocento italiano. Laureatosi all’Università di Padova, dove studiò matematica e legge, e divenuto tenente del Genio all’Accademia militare di Modena, iniziò nel 1817 la propria carriera tecnica presso il Corpo degli ingegneri di acque e strade di Venezia, uno dei luoghi privilegiati all’epoca per la progettazione e la sperimentazione pratica sulle infrastrutture. Si specializzò in idraulica, ferrovie, trafori e canali navigabili, sostanzialmente il ventaglio tematico completo di un’epoca che nelle infrastrutture individuava la frontiera della novità e del cambiamento. Seguì quindi da vicino i lavori della ferrovia Milano-Venezia, una delle linee che fecero da battistrada per l’intera esperienza ferroviaria italiana, partecipando in prima persona all’accalorata disputa sulla scelta del percorso fra Milano e Brescia.
Negli anni successivi arricchì ulteriormente di esperienze i due filoni che fecero da pilastri alla sua attività: le ferrovie e l’idraulica. Dopo essere stato impegnato a lungo nella pubblica amministrazione del Lombardo-Veneto, nel 1848 divenne ministro dei Lavori pubblici dello Stato sabaudo. In tale veste ebbe modo di seguire la costruzione delle prime linee ferroviarie piemontesi, inclusa evidentemente la più importante, quella per Genova. Nonostante una malattia agli occhi che lo condusse a una progressiva cecità, rimase ministro fino al 1857; due anni prima era entrato a far parte della Commissione internazionale incaricata di scegliere la soluzione più acconcia per la realizzazione del taglio del canale di Suez.
In quel consesso, Paleocapa si distinse in virtù delle proprie capacità di tecnico dotato di una vasta esperienza – in particolare aveva studiato a lungo gli insabbiamenti dei porti adriatici – in campo idraulico, che sfruttò puntualmente per trovare soluzioni all’intricata questione del canale. Il ruolo tecnico di Paleocapa, che per una beffa del destino morirà pochi mesi prima dell’apertura del canale, sarà primario. Sua, infatti, fu l’idea dell’abolizione delle chiuse e suoi alcuni decisivi consigli sul tracciato del canale direttamente dalla rada del Pelusio a Suez, di cui è rimasta traccia nei numerosi articoli scritti fra il 1856 e il 1859 sul «Bollettino dell’istmo di Suez». Paleocapa, fervente sostenitore dell’opera, si distinse anche nel rintuzzare i frequenti attacchi portati dagli inglesi contro il taglio; più volte entrò in polemica con personaggi del calibro di Robert Stephenson, acceso nemico del canale, dimostrando di non essere secondo a nessuno in quanto a conoscenze tecniche.
L’ultimo degli incarichi assegnatigli nella sua carriera fu di nuovo ferroviario: la presidenza della Società dell’Alta Italia nel 1861 a unificazione ormai avvenuta.
Insieme con Cavour, Paleocapa, all’inizio degli anni Cinquanta, patrocinò presso il Parlamento subalpino la linea del Fréjus – studiata e proposta per primo da Francesco Medail fra il 1832 e il 1841 – e, una volta avviata la costruzione, fu responsabile di diverse cruciali scelte tecniche. La linea di alta montagna, che univa Modane a Bardonecchia, venne disegnata con forti acclività e il tunnel fu previsto molto in alto, secondo un modo di progettare le ferrovie di montagna che successivamente sarebbe stato gradatamente abbandonato a favore di linee tenute più in basso con gallerie più lunghe. Nel complesso le difficoltà furono enormi e richiesero studi accurati da parte dei migliori tecnici dell’epoca.
Fra i molti che vi si applicarono, l’ingegnere belga Maus dimostrò che lo scavo della lunga galleria sarebbe stato possibile soltanto risolvendo i delicati problemi di aerazione. Non potendo ricorrere alla tecnica dei pozzi intermedi, Maus propose l’adozione di mezzi meccanici azionati da funi metalliche mosse da ruote idrauliche. Il progetto non ottenne il plauso della commissione, cui venne assegnato il compito di vagliare le varie idee elaborate per la realizzazione dell’imponente opera.
Alla fine, l’ultimazione dell’impresa fu resa possibile dall’utilizzo delle macchine perforatrici, costruite in Belgio, ma inventate dagli ingegneri Sommeiller, Sebastiano Grandis e Severino Grattoni, tecnici di grande livello cresciuti nel seno del Genio civile piemontese. Tali macchine, adottate sperimentalmente anche nella costruzione della Porrettana, sfruttavano l’energia idrica per comprimere aria e trasmettere il movimento di perforazione, il che permise di penetrare la montagna senza la realizzazione di pozzi verticali di aerazione. La nuova macchina si giovò dei risultati delle ricerche condotte dal fisico ginevrino Jean-Daniel Colladon, che per primo aveva compreso il possibile sfruttamento dell’aria compressa ai fini della perforazione della montagna. I lavori iniziarono nel 1857; la galleria principale, lunga 13,6 km, venne inaugurata il 17 settembre 1871. Il primo treno impiegò tra le due estremità del traforo 40 min, a fronte delle 12 ore circa necessarie per strada. Il risparmio dei tempi di percorrenza per le merci rivoluzionò i flussi di commercio non soltanto con la Francia, ma, in una più vasta prospettiva internazionale, con l’intera Europa occidentale, fatto indispensabile per il nuovo Regno.
Il grande traforo ferroviario nelle Alpi occidentali provocò anche una violenta polemica in merito alla primogenitura del progetto della macchina perforatrice. Un altro tecnico infatti, il milanese Giovan Battista Piatti, aveva studiato fin dal 1853 un sistema ad aria compressa per la perforazione delle gallerie, di cui poi Sommeiller, a detta del presunto autore originario, si sarebbe impossessato. Come gran parte delle innovazioni tecnologiche in ambito ferroviario, anche la macchina perforatrice fu il risultato di una lunga serie di sperimentazioni, le quali permisero l’accumulazione di conoscenze e di risultati che, giunti alla maturazione, conobbero l’applicazione adatta alla circostanza.
Oltre agli indubbi meriti tecnici, Paleocapa, impeccabile modello di ligio civil servant, contribuì a elevare l’ingegneria e le questioni tecniche a elementi centrali anche del dibattito politico, intuendo come le infrastrutture fossero capaci di fornire un supporto essenziale allo stesso agire politico. In un certo senso, fu uno dei grandi tecnici che nell’Ottocento permise all’ingegneria di varcare la soglia della stanza dei bottoni. Grazie anche a Paleocapa, particolarmente attento alle leggi, ai meccanismi di funzionamento e alle regole del contesto che si andava formando, oltre che alla tecnica, la filosofia dei lavori pubblici maturò pienamente, divenendo uno dei rami fondamentali della pubblica amministrazione, cui lo Stato moderno non poteva rinunciare. Con lui si cominciò a parlare di programmi organici di infrastrutture nel territorio e non solo più di singoli progetti non ancora inseriti in un’ottica di rete. La sua eredità tecnica e ideale passò direttamente al nuovo Regno italiano, i cui primi passi non a caso furono in direzione di un rafforzamento della rete infrastrutturale.
I valichi alpini
Le due grandi epopee ferroviarie cui si è fatto riferimento aprirono la strada alla progettazione di altri valichi alpini, dimostrando la fattibilità di idee che solo qualche anno prima sembravano del tutto irrealizzabili. Negli ultimi tre decenni del secolo la questione delle comunicazioni ferroviarie alpine tenne banco nel Paese, stimolando un dibattito di grande rilevanza fra politici e tecnici e raggiungendo anche l’opinione pubblica.
Quasi altrettanto interesse venne riversato sulle linee transappenniniche trasversali, di cui l’Italia soffriva la mancanza e andava alla ricerca; a due anni di distanza dalla Porrettana, nel 1866 venne aperta anche la Roma-Ancona. Nel 1867, l’anno dell’inaugurazione del Brennero, venne anche presa la decisione a favore del San Gottardo, contrapposto a progetti altrettanto essenziali all’economia italiana in espansione, come lo Spluga e il Lucomagno, di cui si parlò a lungo nella scena pubblica italiana.
In un’ottica di particolare enfasi sulle comunicazioni internazionali, l’apertura dei valichi permetteva, nella visione dei tecnici più avveduti, di mettere in collegamento l’Italia con l’Europa centrale, schiudendo le porte di mercati sempre più facilmente raggiungibili e permettendo al Paese di uscire da un isolamento che i governanti del nuovo Regno cercarono di combattere fin dalla sua instaurazione. Alla lunga fu una scommessa vinta sia sul piano politico-diplomatico sia su quello economico-commerciale sia, in ultima analisi, in termini di sfida tecnologica.
Non va sottovalutato poi il fatto che la disputa sui progetti alpini favorì studi e ricerche in campo ferroviario che contribuirono all’ulteriore maturazione del ceto tecnico italiano rispetto alla realizzazione di linee ferroviarie di montagna.
Le sfide tecnologiche di questi anni resero gli ingegneri italiani – i più coraggiosi nell’assumersi i rischi di lunghi trafori, al punto da costituire in pratica una vera e propria scuola nel settore – fra i più esperti al mondo nelle linee ferroviarie di montagna. Furono anche occasioni di collaborazione internazionale fra Paesi diversi, che in quegli anni, specialmente in ambito tecnico, visse la sua età dell’oro.
Nell’arco di un quarantennio la geografia ferroviaria alpina venne completamente rivoluzionata, inserendo l’Italia definitivamente nella rete ferroviaria europea. Nel 1879 entrava in funzione la Pontebbana, nel 1882 il Gottardo e più tardi, nel 1906, il Sempione. Se il Brennero fu la prima grande linea alpina internazionale dell’Italia unita, fu probabilmente il Gottardo – in territorio svizzero, ma alla cui realizzazione l’Italia partecipò in maniera del tutto significativa, sia in termini di lavoratori sia di contributo finanziario – a giocare un ruolo decisivo ai fini di inserire il Paese nei circuiti commerciali europei più importanti, in un’epoca poi in cui l’Italia si stava avviando verso la sua prima industrializzazione. La realizzazione dell’opera fu avviata nel 1872 e la galleria di valico venne aperta dieci anni dopo. Sotto il profilo delle tecniche di costruzione, è necessario sottolineare come nella costruzione del tunnel di valico del Gottardo, lungo 15 km, venne utilizzata la nitroglicerina, che provocò drammaticamente un sensibile aumento dei caduti sul lavoro, ben 179.
Nel caso della costruzione della galleria del Sempione, effettuata fra il 1898 e il 1906, differentemente da altri casi consimili di grandi gallerie alpine, venne preferito il criterio di aumentare la lunghezza del tunnel per mantenere bassa la quota. In tal modo, l’ingresso nella galleria di valico avveniva fra i 600 e i 700 m di altitudine. Inoltre, per la prima volta non venne scavata una galleria a doppio binario, ma due distinte gallerie a binario unico. Con i suoi 19,8 km, la galleria del Sempione fu la più lunga del mondo fino al 1979.
La Direttissima
Una breve carrellata delle conquiste di maggior rilievo nel campo delle ferrovie di montagna nella storia d’Italia non può non includere anche la Direttissima Bologna-Firenze, la cui storia lunga e accidentata rappresenta in qualche misura lo specchio della storia ferroviaria italiana, nei suoi ritardi e al tempo stesso nelle sue acquisizioni, e una delle vette della capacità degli italiani di costruire linee ferroviarie di montagna.
Distendendosi fra il 1845 e il 1934, lungo un arco che va dal primo sviluppo ferroviario fino all’apice mai più raggiunto della rilevanza del trasporto ferroviario nel Paese, la linea trasversale italiana, cardine dell’intero sistema, rappresentò a lungo un’ineguagliabile realizzazione tecnologica, alla quale si ispirarono ovunque nel mondo costruttori di linee ferroviarie.
Con essa si chiude in qualche modo la grande epoca delle ferrovie di montagna in Italia. Progettata già in età granducale, ripresa negli anni Ottanta, venne a compimento soltanto nella primavera del 1934, dopo una schermaglia interminabile sul tracciato. Nell’infinita serie di progetti che vennero preparati e proposti, furono immaginati trafori di ogni tipo e lunghezza. Il torno di tempo lungo il quale la vicenda si dispiega riflette anche le diverse concezioni di superamento delle acclività di montagna. Se all’inizio i tecnici immaginavano una linea che saliva per ridurre costi e rischi di un lungo traforo, a mano a mano che la storia entrava nel 20° sec. prese corpo sempre di più l’ipotesi di una lunga galleria di valico, come alla fine venne effettivamente deciso.
Al termine di lunghi anni di lavori e di sacrifici, specialmente da parte di quei minatori che sono passati alla storia come i ‘giganti della montagna’, la Direttissima ha permesso un’accelerazione formidabile nelle comunicazioni fra Nord e Sud, passando da una velocità commerciale di 59 km all’ora a 105, dunque con un risparmio del 78%. La grande galleria costituì l’epitome della tecnologia ferroviaria nel campo delle linee di montagna, di cui all’epoca l’Italia si faceva massima interprete. La lunghissima galleria di valico rappresentò un gioiello tecnologico e un vanto per il regime fascista che sulle ferrovie, com’è noto, puntò buona parte delle proprie carte. L’intero percorso, con le sue gallerie e i suoi viadotti, costituì il banco di prova migliore per dimostrare che l’ingegneria italiana aveva ormai raggiunto livelli assoluti su scala internazionale.
Bibliografia
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