La musica nelle culture mesopotamiche
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nei suoi 5000 anni di storia, la Mesopotamia è stata abitata da molte popolazioni differenti, in primo luogo i Sumeri, poi gli Accadi, i Babilonesi e gli Assiri. Su questo sfondo emergono dalla Mesopotamia e da regioni vicine, come la Siria e l’Iran, molte culture musicali che riflettono influenze reciproche in continua evoluzione. La multiforme vita musicale, il suo ruolo e le sue tradizioni sono ampiamente documentate nelle fonti letterarie e iconografiche, e rivelano come in tali culture la musica sia ritenuta un’arte altamente sofisticata e di conseguenza stimata, in grado di conferire al suo esecutore una vita prestigiosa.
La nostra conoscenza della musica mesopotamica proviene esclusivamente da manufatti archeologici; immagini su pietra e terracotta, sigilli cilindrici o placche votive del periodo dinastico antico illustrano molte forme di strumenti musicali, le loro tecniche esecutive e il loro contesto culturale. Le tavolette cuneiformi, tra cui vi sono documenti d’uso corrente come lettere, ricevute e testi mitologici e poetici, ci informano sui musicisti e sulla loro formazione istituzionale, sulle tipologie di canto e sui sistemi tonali (vedi parte sulla teoria musicale) in uso. Sebbene nessun canto o melodia originali siano sopravvissuti sino a noi, queste fonti ci forniscono una ricca documentazione che ci aiuta a comprendere le numerose sfaccettature delle culture musicali mesopotamiche.
Solo pochi strumenti musicali originali si sono conservati sino ai nostri giorni. I più spettacolari sono le lire e le arpe preziosamente decorate scoperte nel 1928 da Sir Leonard Woolley negli scavi del cimitero reale di Ur, datate al XXIV secolo a.C. Tra i molti servitori che dovevano seguire i loro sovrani nella morte e che sono sepolti accanto ad essi nelle loro tombe, vi sono anche alcuni musicisti che hanno ancora le dita sulle corde dei loro strumenti. Le loro lire a cassa e le arpe che arrivano sino a 120 cm di altezza non hanno uguali, coperte come sono parzialmente d’oro e d’argento e intarsiate con pietre semi-preziose e conchiglie!
Arpe arcuate con non più di tre corde sono i più antichi strumenti a corda attestati su tavolette d’argilla dipinte datate intorno al 3100 a.C. Loro eredi in contesto sumerico sono preziose lire a cassa e arpe conosciute anche da immagini del periodo dinastico antico, che si datano agli inizi del III millennio a.C.: esse mostrano un numero di corde che varia da nove a undici. Solo a partire dal periodo accadico (2300 a.C. ca.) vengono invece introdotti in Mesopotamia i liuti, probabilmente provenienti dall’Iran occidentale.
Con l’inizio del II millennio a.C. entra in uso l’arpa angolare suonata in due modi differenti, orizzontalmente tramite un plettro o verticalmente con il pizzico delle dita. Entrambe le tecniche esecutive vengono mantenute per tutto il I millennio a.C. Forme standardizzate dello strumento sono dipinte sui rilievi di palazzo di età neoassira (900-650 a.C.), suonate più spesso stando in piedi o camminando che rimanendo seduti.
Al contrario delle arpe, le lire sviluppano molte forme e misure differenti nel corso dei 5000 anni delle culture musicali mesopotamiche. Solo le più antiche lire a cassa sumeriche codificano una struttura standard e assumono la forma di un toro o una mucca. Resti di questa tradizione si trovano nell’Anatolia e nell’Egitto del II millennio a.C., dove alcuni dipinti testimoniano l’esistenza di enormi lire suonate in contesti cerimoniali religiosi.
A parte queste lire suonate in posizione seduta, i Sumeri sviluppano versioni più ridotte che possono essere trasportate grazie a cinghie legate attorno alla spalla e suonate in posizione eretta. Questa postura esecutiva, che si adatta anche a processioni ed esibizioni danzate, diventa comune per tipologie di lira successive che si sviluppano nel corso del II millennio a.C. Le lire piccole e riccamente decorate vengono introdotte in Mesopotamia e a Babilonia dalle tribù dei nomadi Amorrei, che emigrano dalla Siria occidentale e centrale. Per quel che riguarda la sua distribuzione culturale, la lira è lo strumento musicale più popolare della sua epoca, espandendosi per tutto l’Iran, la Mesopotamia, la Siria e la Palestina, l’Egitto, l’Anatolia e infine la Grecia.
La comparsa dei liuti nel Vicino Oriente antico è culturalmente legata agli Accadi, che espandono la loro influenza politica sulla Mesopotamia intorno al 2350-2200 a.C. Essi suonano questo strumento principalmente durante occasioni religiose. Questa tradizione continua all’inizio del II millennio a.C. ad Elam, nell’Iran sud-occidentale, la località all’origine della seconda ondata di diffusione del liuto per tutta la Mesopotamia, la Siria e la Palestina. La tipologia più diffusa è il liuto a manico lungo dalla cassa armonica rotonda o ovale, che non possiede più di tre corde: non sono invece attestate forme di liuti a manico corto, come il moderno ’ud arabo. Al di là della sua importanza per la musica religiosa, il liuto è anche uno strumento popolare suonato da giocolieri e domatori di animali, nani nudi con le gambe storte e giovani ragazze che si trovano a corte a scopo d’intrattenimento. Nel lessico cuneiforme sono attestati quasi 20 nomi diversi per indicare il liuto, fenomeno che riflette la sua ampia diffusione culturale.
Gli aerofoni sono raramente dipinti, se paragonati ai cordofoni. A parte strumenti molto elementari come semplici canne o fischietti, troviamo flauti dal collo lungo, doppi oboi, trombe e corni. L’identificazione degli aerofoni nei testi scritti è resa possibile dai determinativi che ne precedono i singoli nomi, vale a dire gi per indicare l’“ancia” o si per il “corno”.
Gli strumenti ad ancia sono associati al dio della vegetazione e della fertilità Dumuzi. Il loro legame con lamenti e riti funebri è legato alla morte e resurrezione mitologica di tale divinità. Corni e trombe sono strumenti utilizzati per dare un segnale, sia durante le introduzioni cerimoniali di feste e riti templari che nelle attività militari e in lavori di costruzione.
Le percussioni preferite in Mesopotamia sono i membranofoni, rappresentati in differenti forme e misure. Caratteristici tamburi a cornice giganti, che raggiungono addirittura l’altezza di un essere umano e sono percossi da due persone, compaiono alla fine del III millennio a.C. alle corti di Ur e Lagash, suonati in contesti cerimoniali a cui partecipava il sovrano, allo scopo di dedicare sacrifici e preghiere al dio della città. A partire dal II millennio a.C., essi sono sostituiti dai timpani, che entrano quindi in uso a partire dal periodo seleucide (III-II sec. a.C.). I suoni dei membranofoni giganti hanno un ruolo essenziale nelle cerimonie religiose che intendono rilassare e confortare dèi e uomini. I timpani appartengono al repertorio dei sacerdoti-kalû, il cui compito principale è quello di portare armonia e pace nel cuore degli dèi al fine di allontanare dall’umanità la loro rabbia.
Accompagnano i grandi e profondi membranofoni gli idiofoni, strumenti più leggeri e di registro più acuto. Particolarmente importante è il sistro, conosciuto sin dai primi secoli del III millennio a.C., che nel tempo verrà poi rimpiazzato dai cimbali, suonati sia in modo orizzontale che verticale. I rilievi palaziali neoassiri mostrano tali strumenti inseriti in ensemble misti con cordofoni, tra cui si trovano arpe e lire.
Tamburi a cornice di dimensioni più ridotte, ricoperti su entrambi i lati e riempiti di materiale tintinnante, vengono suonati in tutte le occasioni, sia da soli che assieme a cordofoni, idiofoni o strumenti a fiato. Nel mondo mesopotamico sono attestate anche percussioniste donne, tipiche di grandi formazioni orchestrali, con un ruolo speciale nelle processioni religiose e nelle festività più gioiose.
Reperti originali di sonagli d’argilla si trovano in tutto il Vicino Oriente antico, dall’età neolitica in poi. Essi presentano le fattezze di vari animali – anche se i favoriti sono gli uccelli – ma si trovano anche a forma di palla o uovo con molti fori e maniglie sonanti attaccate ad essi. Oltre ad essere giocattoli da bambini, vengono utilizzati come protezione magica e in rituali di guarigione in maniera simile agli idiofoni in metallo, come battagli, cimbali e piccole campane. Campane ben più preziose, decorate con immagini di demoni protettivi conosciuti solo a partire dal I millennio del periodo neoassiro, sono usate dai sacerdoti per scopi apotropaici.
L’esistenza di tecniche di canto ed esibizioni vocali diversificate è testimoniata sostanzialmente in forma scritta, in quanto l’identificazione dei cantanti dalle immagini appare piuttosto problematica. Le testimonianze nei testi cuneiformi suggeriscono una differenziazione di voci acute e gravi, che cantano in formazioni responsoriali e antifonali. I solisti sono i favoriti nel padroneggiare un canto ornamentale melismatico con un tono parzialmente vibrante e trillante, accompagnati da strumenti a corda solisti o da un coro che intona un bordone.
L’identificazione di strumenti musicali attraverso i loro nomi originari sumerici e accadici è in continua discussione. Il materiale di base e la tipologia di uno strumento è indicata attraverso determinativi sumerici scritti all’inizio o alla fine del nome stesso: a seconda che siano legno (gish), canna (gi), metalli (urudu per il rame e zabar per il bronzo) o pelle di animale (kush), gli strumenti si identificano come cordofoni, aerofoni o membranofoni e idiofoni.
L’ambivalenza dei termini tecnici è una caratteristica della musica mesopotamica. Ciò si può osservare in modo particolare per la terminologia sumerica, dove parole come tigi, adab o zami possono indicare allo stesso tempo uno specifico strumento musicale, un tipo di canto o un’esibizione cultuale.
Inoltre, le singole parole e il loro significato sono soggetti ai continui cambiamenti della tradizione musicale nel tempo e nello spazio. Può addirittura accadere che, a causa del suo contesto multiculturale, lo stesso strumento abbia due nomi diversi.
Più impegnativa è la discussione sulla parola sumerica balag, che per i più antichi Sumeri del III millennio a.C. potrebbe essere il nome delle lire a forma di testa di toro, sacre e addirittura divinizzate. Durante l’ascesa della cultura babilonese, intorno al II millennio a.C., i membranofoni assumono un ruolo centrale nella musica religiosa. A partire da questo periodo, balag è usato come termine per indicare le percussioni a cornice giganti divinizzate. Ogni dubbio scompare nel caso dei timpani liliz/lilissu (rispettivamente in lingua sumerica e accadica), che solo in un’occasione compaiono con un’immagine e il nome scritto accanto ad essi su una tavoletta cuneiforme datata al periodo seleucide (III-II sec. a.C.).
Testimonianze di attività musicali provengono soprattutto da fonti prodotte nell’ambiente dell’élite più elevata, ragion per cui le informazioni sulla musica di tutti i giorni, eseguita per strada e nei campi di lavoro, sono scarse e si ricavano come informazioni secondarie da fonti iconografiche piuttosto popolari, come i rilievi in terracotta dell’antica Babilonia (II millennio a.C.). Oltre ai professionisti attivi alla corte del re o al tempio, abbiamo notizia di giocolieri, commedianti e domatori di animali che suonano percussioni, flauti o liuti per accompagnare le loro esibizioni danzate. Non si sa invece quasi nulla della musica suonata all’interno delle mura di casa. Nonostante ciò, sembra che fosse una tradizione per ogni cittadino partecipare alle esibizioni coreutico-musicali locali legate al culto.
Il dio patrono della musica e dei musicisti è Ea (Enki in lingua sumerica), dio della saggezza e dell’artigianato che rappresenta anche l’origine di tutte le conquiste culturali e l’ispirazione creativa. Ishtar (Inanna in lingua sumerica), la dèa dell’amore e della guerra che rappresenta il cambiamento e la diversità, è invece la patrona di gruppi ai margini della società, cui possono appartenere anche musicisti di strada, giocolieri, danzatori e speciali sacerdoti.
All’interno della grande varietà di artisti musicali nel Vicino Oriente antico, due sono le professioni che mantengono un ruolo centrale nel corso di tutti i 4000 anni della storia mesopotamica. Innanzitutto il nar (in accadico narum), sostanzialmente un cantante e suonatore di strumento a corda che si esibisce sia a corte che al tempio in varie posizioni gerarchiche. Il “bardo” personale del re è il nar lugal, vale a dire il “musicista del re”, e ha il compito di celebrare e cantare la fama del suo sovrano. Il gala (in accadico kalûm) è invece un sacerdote musicista e cantore di lamenti, che dedica la sua performance di cantante e percussionista – in tempi più antichi anche di suonatore di lira – esclusivamente agli dèi. Nel I millennio a.C. il suo repertorio di canti sumerici, che consiste in lamentazioni che hanno lo scopo di calmare le divinità, si sviluppa in un canone liturgico.
Esempi da due lamenti sumerici
Uru Ashera “La Città in lacrime” ll. 27 ss.
La mia città piangeva a dirotto in una insopportabile miseria. La sua gente era ammassata
La mia città piangeva a dirotto come il sibilo di una scure. I suoi giovani erano ammassati.
La mia città piangeva a dirotto come il frastuono del mare. I suoi uomini erano ammassati.
Utugin Eta “Sorgi come il sole” ll. a+207 ss.
Nella città egli ha maledetto il suo signore (il dio della città)
Ha prostrato la sua signora (la dèa della città) in malattia.
Quella città abbandonata dal suo signore
Enlil (il capo del pantheon divino) l’ha trasformata in un luogo tormentato.
Colui che piange i defunti versa lacrime in questo luogo.
Colui che pronuncia i lamenti versa lacrime in questo luogo.
Il pastore suona la canna dei lamenti in questo luogo.
Il sacerdote gudu non parla più in modo felice in questo luogo.
Il sacerdote gala non canta più “Oh, mio cuore!” in questo luogo.
In quanto arte sofisticata, la musica è comunicata e tramandata in modi diversi. In periodi di stabilità politica, essa viene insegnata in apposite scuole, strutture ben organizzate annesse ai palazzi e ai templi. Ma i testi cuneiformi documentano anche la pratica di lezioni musicali private, impartite sia a laici che a persone che aspirano a specializzarsi in una professione religiosa. Un sacerdote-musicista apprendista può spendere metà della sua vita vivendo a casa del suo maestro per completare la propria istruzione.
Lo status sociale di un musicista dipende dalla sua formazione istituzionale o familiare, pur se posizioni altolocate e prestigiose, a contatto diretto con un sovrano, sono solitamente assegnate a uomini. I musicisti professionisti sono molto stimati, portando addirittura grandi re come Shulgi di Ur a vantarsi nei propri inni di essere un maestro nell’esecuzione musicale.
Shulgi Inno B ll. 154 ss.
Io, Shulgi, re di Ur, mi sono dedicato anche all’arte musicale. Nulla per me è troppo complicato; conosco la gamma completa delle percussioni tigi e adab, la perfezione dell’arte musicale. Quando fisso i tasti sul liuto, che cattura il mio cuore, non danneggio mai il suo manico; ho inventato delle regole per innalzare e abbassare la sua accordatura(?).
“Anche se mi portano uno strumento musicale che non ho mai ascoltato prima, come si potrebbe fare a un musicista professionista, quando inizio a suonarlo faccio conoscere il suo vero suono; sono in grado di maneggiarlo come se lo avessi già avuto tra le mani. Intonarlo, tendere e allentare le corde e fissarle non sono gesti al di là delle mie competenze. Non faccio risuonare lo strumento ad ancia come uno strumento rozzo, e di mia iniziativa sono in grado di intonare un canto sumunsa o di cantare un lamento allo stesso modo di chi lo fa regolarmente.”
“Stelle musicali”, nel moderno senso della parola, sono per il resto sconosciute; in generale in Mesopotamia non è un fatto comune mettere in rilievo singoli esseri umani che non siano il sovrano. Anche se conosciamo i nomi di molti musicisti conservati in vari documenti di vita quotidiana, i testi poetici ne ricordano pochissimi individualmente: in primo luogo il cantore personale di Gilgamesh che, secondo la leggenda, attraverso il suo canto incita il proprio padrone alla battaglia contro il selvaggio toro celeste.
Lo sviluppo di un sistema di temperamento codificato è attestato nella Babilonia meridionale del II millennio a.C. da numerosi testi cuneiformi. Secondo il fondamentale documento denominato UET 7, 74, questo sistema viene elaborato per intonare sette scale diatoniche differenti su una lira o un’arpa a nove corde. Il sistema si basa su cicli di quinte discendenti e quarte ascendenti e assomiglia molto a quello successivamente sviluppato dai pitagorici, in contesto greco, intorno al VI secolo a.C.
Considerati i suoi fondamenti pratici, non vi è definita alcuna altezza assoluta ma piuttosto l’intervallo esistente tra una corda doppia sullo strumento. A tali intervalli viene applicata una terminologia fissa che fa riferimento a quinte e quarte differenti, così come a terze e seste.
La stessa terminologia si ritrova negli elenchi di parole medio babilonesi, nei canti hurriti del XIII secolo a.C. trovati ad Ugarit e nelle istruzioni di preghiera neoassire del tardo I millennio a.C. Essendo una notazione musicale rudimentale che indica modelli intervallari che accompagnano la performance vocale, questo sistema mostra un’ampia diffusione sia geografica che storica.
Citazione dal documento UET 7, 74 (II millennio a.C.)
“Se la lira zami è nella [scala] pitu [= corde 7 4],
e tu suoni il [bicordo] embubu [corde 3 7] e non è chiaro,
allora rilascia la terza corda,
e il/la [bicordo/scala] embubu [3 7] diventerà chiaro.
Se la lira zami è nell’[intonazione] embubu [3 7],
e tu suoni il [bicordo] kitmu [= corde 6 3] e non è chiaro,
rilascia la sesta corda,
e kitmu [6 3] diventerà chiaro.”
Commento: Il sistema si basa sull’intonazione del tritono all’interno di una scala ad un intervallo di quinta o di quarta (cioè da non chiaro a chiaro). Ogni volta che un tritono viene intonato ad un intervallo di quarta o di quinta modificando l’intonazione di una singola corda di circa un semitono, si ottiene una nuova scala.
Testimonianze più tarde dell’esistenza di determinati accorgimenti esecutivi si può osservare anche nelle preghiere liturgiche del periodo tardo babilonese (III-II sec. a.C.). Vocali singole o combinate, sillabe o nomi di strumenti a percussione sono tutti scritti a caratteri piccoli a mo’ di glosse sopra o sotto le parole. Questi segni supplementari indicano sequenze melodiche e strumentali della preghiera secondo le modalità di una rudimentale notazione in forme di melismi o canto a bordone. Il loro esatto significato e la loro precisa lettura non sono ancora stati decifrati.