Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fin dall’inizio del secolo lo sviluppo delle invenzioni legate alla conoscenza dei fenomeni elettromagnetici ha suggerito applicazioni musicali: numerosi sono gli strumenti elettronici inventati nel primo trentennio. Contemporaneamente a questo lavoro di ricerca, lo sviluppo della radio e di altre applicazioni su larga scala delle tecnologie ha reso familiari al grande pubblico le sonorità della musica elettrificata. Dopo la seconda guerra mondiale il processo diventa dominante e inarrestabile: dalla chitarra elettrica ai sintetizzatori, dal campionatore al computer, gli strumenti elettroacustici o elettronici occupano il centro della scena musicale.
Il suono elettrico
I primi tentativi di applicare i principi dell’elettromagnetismo alla generazione del suono risalgono agli anni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Dopo il Singing Arc (1899) di William Duddell, che sfrutta il sibilo delle lampade ad arco utilizzate nell’illuminazione urbana trasformando un fastidioso inconveniente progettuale in risorsa musicale, il primo strumento che utilizzi in modo sistematico l’elettricità è il telharmonium (1902) di Thaddeus Cahill. Si basa su ruote dentate in movimento in un campo magnetico, secondo lo stesso principio costruttivo che avrebbe fatto funzionare – poco meno di trent’anni dopo – l’organo Hammond. Ma poiché non sono stati ancora inventati dispositivi per amplificare la corrente, per generare le tensioni necessarie a pilotare trasduttori ancora primitivi è stato necessario costruire ruote dentate gigantesche, che fanno del telharmonium uno strumento grande come un vagone ferroviario, del peso di 200 tonnellate. Al di fuori di poche occasioni dimostrative, e di un tentativo di diffondere una filodiffusione rudimentale (l’unico trasduttore disponibile all’epoca era il ricevitore del telefono), il telharmonium fallisce, sia pure eccitando la fantasia di un musicista come Ferruccio Busoni, interessato dalla grande precisione con cui lo strumento di Cahill può generare intervalli microtonali.
Nello stesso anno (1906) in cui viene inaugurata l’ultima sala dedicata all’ascolto del telharmonium, l’inventore statunitense Lee De Forest aggiunge un terzo elettrodo al diodo, la “valvola” termoionica già nota da qualche tempo, e ne ottiene il triodo, componente fondamentale per realizzare amplificatori. Nessuno, compreso lo stesso De Forest, si rende conto subito della grande varietà di applicazioni anche musicali di questa invenzione, che sarebbe stata di lì a qualche anno fondamentale per lo sviluppo della radio. Nel 1916, comunque, De Forest deposita un brevetto per uno strumento musicale basato sulla valvola termoionica, che avrebbe presto ispirato numerosi progetti.
Strumenti sperimentali
Il primo a ottenere una certa notorietà internazionale è il theremin, presentato dal fisico sovietico Leon Termen nel 1920. Basato su due generatori di frequenza costituiti ciascuno da un triodo, una bobina e un condensatore, il theremin affascina musicisti e pubblico sia per la qualità eterea del suono sia per la gestualità che richiede, dato che i parametri del suono generato sono controllati dal movimento delle mani dell’esecutore nel campo elettrostatico di due antenne. Utilizzato nella musica da concerto (Schillinger, Varèse, Martinu) e in quella da film (Rozsa, Herrmann), avrebbe avuto successo fino agli anni Cinquanta, per poi riapparire (sia pure in forma modificata, e con un altro nome) in un classico del rock degli anni Sessanta, Good Vibrations dei Beach Boys. Altri strumenti basati su sistemi per la generazione elettronica del suono hanno una certa fortuna negli anni Venti e Trenta: lo sferofono del tedesco Joerg Mager (1926), il partiturofono dello stesso inventore (che viene usato nel 1931 a Bayreuth per simulare le campane del Parsifal); le ondes Martenot del francese Maurice Martenot (1928), che hanno una fortuna simile al theremin sia nella musica colta (Darius Milhaud, Honegger, Messiaen, Jolivet, Varèse) sia in quella da film (Jarre); il trautonium di Friedrich Trautwein (1928), basato su un sistema di sintesi sottrattiva a partire da un generatore di frequenza costituito da un tubo al neon, che attrae compositori dell’area germanica (Hindemith, Strauss, Dessau) ed è anche prodotto industrialmente dalla Telefunken.
Mezzi di diffusione
L’elettricità, comunque, manifesta la propria presenza nella musica non solo attraverso strumenti sperimentali noti ai compositori e al pubblico della musica da concerto più avanzata, ma anche e soprattutto nella diffusione di massa: nella radio (dal 1920), nella registrazione elettrica dei dischi, che ne aumenta enormemente la qualità (dal 1924), nei giradischi elettrificati (dal 1926), nei sistemi di amplificazione per la voce, sperimentati fin dal 1915, che si diffondono subito dopo la prima guerra mondiale, inizialmente per discorsi e comizi, e poi (dagli anni Trenta) per sostenere la voce dei cantanti. La tecnica del crooning (sussurrare al microfono), della quale è pioniere Bing Crosby, avrebbe trasformato nell’arco di una ventina di anni la sensibilità e i gusti del pubblico, separando in modo sempre più netto la vocalità tradizionale, di derivazione operistica, da quella bisognosa del microfono, ma molto più “naturale” e quotidiana, dei cantanti popular. Già a metà del Novecento, nei Paesi industrialmente avanzati, le occasioni di ascoltare musica a partire da sistemi di generazione e/o di diffusione elettroacustica sono più numerose rispetto a quelle della musica non amplificata o mediatizzata: gli anni Cinquanta e Sessanta segnano il trionfo della musica “per altoparlanti”, concepita per il giradischi, il juke-box, la radio, la televisione, l’autoradio, il riproduttore di cassette, cantata al microfono e suonata sempre più spesso con strumenti elettrificati.
Strumenti musicali elettrici
Tra gli strumenti elettrici che hanno avuto una larga diffusione di massa, il primo ad apparire è stato l’organo Hammond, lanciato nel 1935, basato su un sistema di ruote dentate rotanti ciascuna delle quali – provocando una variazione nel flusso del campo magnetico – induce una corrente oscillante in una bobina rilevatrice. Curiosamente, il successo dell’organo Hammond è causato dalla buona intonazione, ottenuta grazie alla regolarità dei motori elettrici che mettono in rotazione le ruote dentate: Laurens Hammond, l’inventore, ha deciso di riciclare in questo modo i suoi motori per orologi elettrici di precisione che la crisi del 1929 ha spazzato via dal mercato. Proprio grazie alla crisi l’organo elettrico si afferma nelle chiese americane (costa molto meno di un organo a canne), e come strumento di intrattenimento nei night club: la produzione di massa ne fa in seguito anche uno strumento accessibile al mercato domestico, e diffuso negli organici ristretti che nel dopoguerra sostituirono le big band.
Indubbiamente, lo strumento elettrificato più popolare è la chitarra elettrica. I primi modelli prodotti in serie risalgono al 1931, il primo disco che contenga il suono di una chitarra elettrica è del 1935, e il primo riconoscimento della sua autonomia musicale coincide con la brevissima carriera del jazzista Charlie Christian, dal 1939 al 1941. Il principio tecnologico della chitarra elettrica è affine a quello dell’organo Hammond: in questo caso è la corda metallica in vibrazione a creare quelle variazioni nel flusso magnetico che una bobina – all’interno del pickup – rileva e converte in correnti oscillanti, che poi vengono amplificate. Questo fa sì che sia possibile costruire chitarre prive di cassa di risonanza, le cosiddette chitarre solid body. I primi modelli di questo tipo vengono progettati negli anni Quaranta, e lanciati sul mercato alla fine del decennio (Fender Broadcaster, poi Telecaster, 1948). Nel 1951 nasce anche il primo basso elettrico solid body: una chitarra con quattro corde, accordata come un contrabbasso, relativamente leggera e portatile, e facile da amplificare. Grazie a questo strumento, oltre che agli altoparlanti di grandi dimensioni del juke box, i musicisti popular avrebbero iniziato a esplorare l’universo percettivo delle basse frequenze, avviandosi verso quella musica fisicamente coinvolgente, che si ascolta con tutto il corpo, che costituisce l’aspetto musicalmente più appariscente della rivoluzione tecnologica del Novecento, e che va dal rock‘n’roll degli anni Cinquanta alla techno degli anni Novanta.
Tra il 1967 e il 1968, proprio mentre la chitarra elettrica raggiunge la sua maturità tecnica e timbrica con musicisti come Jimi Hendrix ed Eric Clapton, nelle formazioni-tipo dei gruppi rock iniziano ad aggiungersi i sintetizzatori (Moog, Buchla, Ketoff), strumenti integralmente elettronici (privi di una componente meccanica nella generazione del suono) come lo sono stati il theremin e le ondes Martenot, ma più sofisticati grazie alla miniaturizzazione dei circuiti, ottenuta in una prima fase grazie al transistor, e poi con circuiti integrati sempre più complessi. Il terreno iniziale della sperimentazione dei sintetizzatori è il progressive rock (1969-1975 circa: viene usato dagli Emerson, Lake and Palmer e Yes), ma dalla seconda metà degli anni Settanta e soprattutto nel decennio successivo i sintetizzatori (ormai denominati in modo generico “tastiere elettroniche”) vengono adottati in ogni genere, con l’unica deliberata esclusione di quelli che rifiutano l’impiego troppo esplicito della tecnologia. A partire dai primi anni Ottanta le tecniche di sintesi digitali diventano sempre più diffuse, e appaiono strumenti capaci di digitalizzare e riprodurre suoni di ogni tipo, anche naturali: sono i campionatori (Fairlight, Emulator; primi utilizzatori: Peter Gabriel, Stevie Wonder). Dalla seconda metà degli anni Novanta tutte le funzioni dei diversi tipi di strumenti elettronici sono state incorporate in software disponibili (e a volte preinstallati) su personal computer, rendendo sempre meno evidente l’origine strumentale dei materiali sonori che si ascoltano nelle produzioni discografiche, e anche dal vivo.