Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Canti, strofette e inni accompagnano il cammino e celebrano gli eroi delle due grandi rivoluzioni del Settecento, quella che porta alla nascita degli Stati Uniti, rivoluzione americana, e la Rivoluzione francese. Tuttavia le diverse condizioni culturali e sociali dei due Paesi determinano conseguenze diverse anche nelle manifestazioni musicali degli eventi rivoluzionari. In Francia sono compositori anche di grandi qualità, come Cherubini, a offrire alla Rivoluzione la sua “rappresentazione sonora”.
La rivoluzione americana
Gli anni della rivoluzione americana trovano la vita musicale delle colonie inglesi d’America dominata dal canto religioso e dai primissimi tentativi di sviluppo di una pratica musicale vocale e strumentale profana. Fra i coloni sono largamente diffuse canzoni popolari portate dall’Europa, oppure rimaneggiate o nuovamente composte a partire dai modelli europei. Ed è proprio sul terreno della canzone popolare che cresce, sotto lo stimolo emotivo della guerra e di interessi propagandistici, il repertorio rivoluzionario.
Già al tempo della guerra degli Inglesi contro i Francesi e gli Indiani per la conquista del Canada (1756-1763) nelle colonie vi è un fiorire di canzoni ispirate agli eventi bellici, create sia da soldati inglesi che da coloniali arruolati nell’esercito britannico.
La battaglia della resa di Québec (1759), nella quale muoiono sia il comandante inglese, James Wolfe, sia quello francese, Louis Montcalm, ispira una ballata – The ballad of montcalm and wolfe, pubblicata in un foglio volante (broadside) – che rimarrà a lungo nella memoria degli abitanti della valle dell’Hudson.
Tra le canzoni popolari che hanno maggior diffusione durante la rivoluzione, Yankee Doodle è sicuramente quella a cui è affidata più che ad ogni altra la memoria di quegli avvenimenti: essa costituisce per noi la “rappresentazione sonora” della rivoluzione americana. La semplice melodia “a ballo” di Yankee Doodle è una di quelle “arie vaganti” la cui origine è impossibile da identificare; sarebbe stata presente in Francia e in Olanda, in Inghilterra fin dal tempo di Oliver Cromwell, in America durante la guerra per il Canada e, cantata dai soldati inglesi, nei primi mesi della rivolta dei coloni. Anche l’autore del testo rivoluzionario americano è sconosciuto.
Se ricca è la produzione di canzoni popolari nel periodo della rivoluzione, non si può dire altrettanto per le composizioni “colte”. Già prima dei fatti di Boston, che scatenano la rivolta dei coloniali e l’inizio della rivoluzione, il rapido deteriorarsi dei rapporti con l’Inghilterra determina una battuta d’arresto nella vita musicale del periodo, peraltro non particolarmente vivace. In America non vi sono praticamente compositori professionisti e la crisi politica determina un’intensissima attività propagandistica, pubblicistica e organizzativa che allontana molti “dilettanti”, in altro occupati, dallo scrivere musica e dal promuovere iniziative musicali, fatta eccezione per quelle religiose.
Con lo scoppio della rivoluzione questa situazione diviene ancor più grave, anche perché nell’ottobre 1774 il Congresso continentale, appena nominato, conscio che la guerra è imminente, vota una raccomandazione per bloccare ogni spesa superflua. Vengono così sospese quasi tutte le manifestazioni teatrali e musicali.
Le poche iniziative musicali del periodo di guerra sono di carattere patriottico. Come contributo allo sforzo bellico e stimolo alla coscienza civica e militare, alcuni compositori offrono canzoni e cantate: perlopiù sono pagine musicalmente modeste, ma interessanti dal punto di vista documentario. Tra queste due composizioni hanno particolare diffusione e successo, tanto da trovare anche una circolazione popolare. Una è Bunker Hill di Andrew Law che, studente all’università di Rhode Island, la scrive subito dopo la vittoria dei coloniali nella battaglia di Bunker Hill (1775), utilizzando il testo di un’“ode saffica”, The American Hero di Nathan Miles. L’altra è Chester di William Billings; l’autore questa volta non è un “dilettante”, ma un musicista che ha lasciato un gran numero di inni religiosi e salmi. Chester sarà assunto come canto di marcia dalla milizia del New England (i Minutemen) nel corso della guerra.
Inoltre, per il suo significato e le sue fortune, questo canto verrà definito “l’equivalente americano del Ça ira e della Marseillaise”.
Ancora legata alla memoria della rivoluzione è una composizione di George K. Jackson del 1799, vale a dire appartenente al periodo postbellico del great awakening che vede anche il rapido fiorire di attività musicali; si tratta di The Funeral Dirge for General Washington, scritta in occasione dei solenni funerali di George Washington, con cui si chiude anche simbolicamente la stagione della rivoluzione americana e della sua musica.
La Rivoluzione francese
Grandi sono la presenza e l’importanza della musica nella Rivoluzione francese. In questi anni, infatti, si assiste in Francia a un’enorme produzione musicale e a un massiccio uso “patriottico” della musica e in questo contesto si formano anche pubbliche istituzioni musicali destinate a divenire un modello per tutta l’Europa. Diversamente da quanto accade nelle colonie americane, in Francia la Rivoluzione esplode in un contesto di grande attività e cultura musicale. Il risultato è una vasta produzione non solo di canzoni popolari o di carattere popolare, ma anche di grandi composizioni capaci di sopravvivere – per la loro qualità – all’occasione “patriottica” e celebrativa per la quale funzionalmente sono nate e in grado, quindi, di portare alla musica un contributo decisivo, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo degli strumenti a fiato.
Le due canzoni popolari che connotano il primo momento rivoluzionario sono Ça ira e La carmagnole, ancor oggi fra i simboli non soltanto della Rivoluzione francese ma di tutti gli empiti rivoluzionari.
Ça ira nasce in occasione della festa della Federazione del 14 luglio 1790, nel primo anniversario della presa della Bastiglia, la prima delle grandi feste celebrative della Rivoluzione. Grazie al lavoro in gran parte volontario dei cittadini, il Campo di Marte di fronte all’Ecole Militaire viene enormemente ingrandito – deve accogliere una folla di 400 mila persone sedute e sono costruiti tre grandi archi trionfali, un padiglione per il re, un tempio centrale e l’altare della Patria, capace di ospitare 200 preti.
In questo impressionante scenario la musica ha una parte di grande rilievo: dopo la messa officiata da Talleyrand, in questi anni vescovo di Autun, e il discorso di La Fayette e di altri rappresentanti, viene eseguito il Te Deum scritto per l’occasione da François-Joseph Gossec.
Tutta la festa è accompagnata dall’esecuzione cantata di Ça ira da parte dell’enorme pubblico. Le strofe del testo sono adattate alla melodia di una contraddanza, Le carillon national, pubblicata all’inizio di quello stesso 1790 e divenuta popolare. Scrive la “Chronique de Paris”, in data 9 luglio 1790: “Non vi è corporazione che non voglia contribuire ad alzare l’altare della Patria. Una musica militare le precede [… ]. Loro cantano in continuazione un refrain che in questi giorni è diventato di moda, Le carillon national e lo cantano con le parole Ça ira! ça ira! ça ira!”.
La carmagnole nasce poco più tardi, nel 1792 – dopo la convocazione della Convenzione nazionale e l’arresto del re – e trova subito larghissima diffusione, fondendosi anche con Ça ira. Sia Ça ira sia La carmagnole avranno infatti un gran numero di testi, a seconda delle occasioni, e si fonderanno spesso.
La carmagnole fa il suo ingresso nell’opera in musica nel 1794; è citata da Grétry nella gavotte retenue dell’opera in un atto La rosière républicaine, rappresentata al Théâtre des Arts. L’opera racconta la trasformazione della tradizionale Fête de la rosière (festa del maggio) da religiosa, qual era diventata, in festa della Virtù e della Ragione. La gavotta vede i preti che danzano avec grâce quando, a un tratto, i contadini gridano “Dansons la carmagnole!”; il parroco del paese allora implora in ginocchio, ma i contadini si mettono a ballare e alla fine anche lui diventa sanculotto.
Il passaggio dalla aristocratica gavotte retenue, simbolo del vecchio regime, alla plebea carmagnole rappresenta, in modo semplice ma efficace, la rottura rivoluzionaria.
L’operina di Grétry è uno dei molti spettacoli teatrali in prosa, versi e musica che animano le scene francesi in questi anni e che sono incentrati su soggetti specificamente rivoluzionari o storici – per lo più greci e romani – adattabili allo spirito del momento. Alcuni titoli possono offrire un saggio di quel teatro “militante”: Le siège de Lille, Le reveil du peuple, Les vrais sans-coulottes, Les loups et les brebis ecc.
Del 1792 è il Chant de guerre pour l’Armée du Rhin, noto in seguito come La Marseillaise. Questo canto, destinato a diventare non soltanto l’inno nazionale della repubblica francese ma il simbolo in tutto il mondo dei valori di libertà e democrazia, è per la prima volta intonato a Strasburgo il 29 aprile 1792. La leggenda vuole che a cantarlo sia il suo stesso autore, il tenente Claude Rouget de Lisle, mentre in realtà a intonarlo sarebbe stato il sindaco di Strasburgo, e padrone di casa, il barone Dietrich, accompagnato al cembalo dalla moglie e da Rouget de Lisle al violino. Scritto con intenzioni patriottiche nel corso della guerra contro la prima coalizione, il Chant de guerre pour l’Armée du Rhin assume ben presto un valore simbolico rivoluzionario che va ben al di là delle intenzioni del suo moderato autore (De Lisle, di famiglia realista, è egli stesso costituzionalista).
Il canto di Rouget de Lisle, diffuso dapprima fra i soldati dell’Armata del Reno, non ha un successo immediato. Ma nel maggio viene cantato a un banchetto a Marsiglia e questa volta ha un grandissimo impatto: viene subito intonato dai reggimenti marsigliesi in marcia verso Parigi che lo canteranno anche il 30 luglio durante l’assalto delle Tuileries. Diviene così, nel dire comune, “il canto dei marsigliesi” e poi La Marsigliese.
Certo la Marsigliese che noi oggi ascoltiamo presenta alcune differenze, nella melodia e nel testo, rispetto all’originale. La prima versione viene armonizzata da Madame Dietrich, la signora con competenze musicali presente alla serata di Strasburgo, e ha un andamento che non si presta facilmente all’esecuzione da parte delle bande e dei cori. Gossec ne stende poi una nuova versione, un po’ semplificata, metricamente e ritmicamente più lineare, “depurata” di alcune dissonanze e priva del colore un po’ cameristico e settecentesco dell’originale. In seguito l’inno subirà poche altre trasformazioni, che riguardano soprattutto i tempi e i modi d’esecuzione, fino alla forma attuale, ufficialmente adottata come inno della repubblica francese.
Anche il testo viene emendato: differenze abbastanza importanti si possono cogliere confrontando le due versioni.
Negli anni rivoluzionari la musica per le feste, i rituali e i funerali repubblicani è fornita dai musicisti dell’Institut National de Musique, organizzativamente e amministrativamente diretto da Bernard Sarrette.
Già alla grandiosa festa della Federazione del 14 luglio 1790 la musica ha una parte di rilievo; a Gossec viene chiesto un Te Deum. Con la cerimonia per la traslazione al Panthéon della salma di Voltaire (11 luglio 1791), scenograficamente predisposta da David, le musiche commissionate non sono più religiose, ma specificamente pensate per il nuovo rituale laico e repubblicano; per questa occasione Gossec scrive un Canto patriottico pieno di impeti eroici.
Alla seconda festa dei Federati non ci sono più né i preti né il Te Deum, ma l’inno del 14 luglio ancora di Gossec. Per le cerimonie, le feste e i funerali che segnano la vita repubblicana decine sono poi le composizioni d’occasione, di Gossec, Cambini, Catel, Cherubini, Lesueur, Méhul.
La necessità di offrire un ambiente sonoro emozionante e coinvolgente alle masse che partecipano a questi riti determina lo sviluppo – talvolta anche abnorme – degli organici e porta inoltre a modificare la compagine strumentale. Sono naturalmente gli strumenti a fiato che partecipano a questa trasformazione che dà origine anche alla banda moderna.
Molte composizioni d’occasione di questo periodo sono certo retoriche e di maniera, ma alcune rivelano le alte qualità musicali dei loro autori e da alcuni anni, dopo un lungo oblio, le pagine più belle o interessanti sono state riscoperte. Tra queste l’Hymne funèbre sur la mort du general Hoche, di Luigi Cherubini, su testo di Marie-Joseph Chénier. Il generale Lazare Hoche, comandante delle armate francesi del Reno e della Mosella, figlio di un accalappiacani, muore a Wetzlar – nella Prussia renana – il 18 settembre 1797, a soli 29 anni. Il Direttorio, che aveva visto in Hoche l’unico in grado di opporsi all’ascesa di Napoleone, ne trasporta la salma a Parigi e organizza una solenne cerimonia funebre al Campo di Marte.
Secondo una diffusa abitudine, nel 1836 Cherubini riutilizzerà una delle due marce funebri di questo omaggio all’eroe repubblicano Hoche per i funerali di Carlo X, cioè quel conte di Artois, fratello di Luigi XVI e capo della nobiltà in esilio, che dopo la Restaurazione diviene re di Francia. L’altra marcia funebre verrà invece suonata, nel 1842, ai funerali dello stesso Cherubini, al cimitero del Père Lachaise.
Mentre Cherubini e i suoi colleghi del conservatorio passano dalle accese vocazioni rivoluzionarie al servizio cerimoniale di Napoleone imperatore, preparandosi a mettere il loro mestiere a disposizione dei sovrani della Restaurazione, un intraprendente francese, del quale non ci è stato tramandato il nome ma del quale conosciamo la divertente immagine, fa fortuna nelle coffee houses di Londra, sulle memorie della rivoluzione spacciandosi per il cocchiere di Robespierre e per il ghigliottinatore di Luigi XVI. Questo francese nel 1803 attrae il pubblico londinese con l’evocazione paurosa del suo preteso passato sanguinario e con un insieme di sette tamburi sui quali esegue, a torso nudo, un suo concerto.
(F. Chailley, La Marseillaise: étude critique sur ses origines, Nancy, 1960).