Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra il IV e l’VIII secolo la Chiesa occidentale amplia il repertorio di canti liturgici con nuovi generi quali l’inno, il salmo responsoriale e l’antifona. La teoria musicale ecclesiastica muove i suoi primi passi riprendendo la teoria dell’antichità greco-romana. Nel IX secolo il progetto di unificazione imperiale della dinastia carolingia pone fine al principio dell’autonomia dei repertori liturgico-musicali dando vita a un nuovo repertorio unificato, il canto gregoriano. Si sviluppano anche le prime trattazioni teoriche della polifonia.
Nel IV secolo si inaugura una fase di svolta nella storia della musica liturgica, che consiste in una vasta riorganizzazione dei repertori regionali ed è caratterizzata dall’introduzione di nuovi generi di canto, nonché dalla proliferazione di uffici liturgici per la celebrazione delle feste, che sempre più numerose si aggiungono al calendario. La premessa di questa stagione di creatività liturgica è costituita dalla libertà di culto sancita dall’editto di Milano (313) e dal coinvolgimento della Chiesa nella politica civile di Costantino, primo imperatore convertitosi al cristianesimo. I contorni dell’adesione di Costantino alla fede cristiana ci appaiono dettati dal tradizionale sentimento religioso romano, che concepisce la religione essenzialmente come istanza civile, piuttosto che dalla coscienza ecclesiale che aveva animato i cristiani fino a quel momento, fondata sull’annuncio evangelico e sull’assemblea eucaristica. Tant’è vero che l’imperatore, che aveva combattuto nel segno della croce, apparsagli in sogno la notte prima della decisiva battaglia di Ponte Milvio – mentre una voce gli diceva “in questo simbolo vincerai” –, si battezza solo in punto di morte. Tuttavia è innegabile che la scelta religiosa di Costantino costituisce una svolta epocale.
L’ingresso della Chiesa nella vita civile dell’impero comporta un profondo ripensamento del dovere dei cristiani nel mondo, fino a quel momento rimasti fuori dalla politica e portatori di una coscienza del proprio ruolo ancorata all’annuncio della “buona novella” e all’attesa escatologica della fine dei tempi – prospettiva che era stata confermata dalle ricorrenti ondate di persecuzione –. Dopo Costantino i cristiani ripensano il loro compito di annuncio del Vangelo in alleanza con le istituzioni secolari, dando impulso a un confronto con la cultura pagana, motivo per cui, a fianco delle finalità apologetiche immediate, si fa strada anche una sintesi con la mentalità e la pietà religiosa pagane, dovuta anche alla massiccia adesione alla fede cristiana tanto delle masse dei cittadini dell’impero quanto di un numero sempre più elevato di membri delle classi più colte e influenti della società.
I segni più rilevanti di questa sintesi possono essere riconosciuti nella sovrapposizione delle feste cristiane alle festività pagane, come accade con la festa del Natale, spostata dal 6 gennaio al 25 dicembre al fine di favorire la trasformazione della pietà cosmica pagana – che si esprimeva nel culto del Sole rinascente nel giorno del solstizio – in sentimento di devozione cristiana, che saluta la nascita di Cristo come “sole di giustizia” (come afferma il tropario greco-bizantino di Natale). Il numero delle feste inizia a moltiplicarsi, sia dietro a una spontanea organizzazione liturgica del culto dei martiri e dei confessori della fede vissuti nei primi secoli, sia dietro all’esigenza di dare uno sbocco cristiano al culto pagano di figure intermedie, vicine al mondo degli dèi ma partecipi anche al mondo degli uomini, quali erano gli eroi dell’antichità. Infine una grande novità per la liturgia riguarda la collocazione della sua celebrazione in edifici riadattati dagli usi civili e religiosi che avevano nel contesto della vita pubblica greco-romana: basiliche e templi diventano così i luoghi del culto pubblico cristiano.
Queste trasformazioni hanno un impatto decisivo sulla vita della Chiesa e sulla celebrazione dei suoi riti, coinvolgendo di conseguenza l’organizzazione della musica liturgica. La strutturazione del calendario liturgico porta infatti alla graduale costituzione di un ciclo di feste esteso lungo tutto l’arco dell’anno, per le quali si rende necessario comporre un repertorio di testi e musiche da utilizzare per la loro celebrazione. La salmodia, che ha costituito sin dagli esordi la base della preghiera liturgica della Chiesa, ereditando le consuetudini liturgiche ebraiche, non può esaurire in tutto e per tutto i contenuti particolari di una festa relativa a un episodio della vita di Cristo o di un santo: si determina allora l’urgenza di comporre nuovi canti liturgici adatti a esporre i motivi devozionali e teologici delle nuove celebrazioni particolari.
In reazione alla ricontestualizzazione della missione della Chiesa nel mondo, il IV secolo vede la nascita e la diffusione di un fenomeno nuovo, il monachesimo, che sorge spontaneamente all’interno della cristianità, a fianco della Chiesa ma non suscitato direttamente da essa. I monaci inaugurano così una nuova stagione di testimonianza cristiana, che si avvicenda storicamente alla stagione ormai conclusa del martirio di massa. Se le persecuzioni dei cristiani erano vissute come prova dell’inconciliabilità tra la fede e il mondo, a fronte della riconciliazione della Chiesa con le istituzioni secolari il monachesimo riafferma la tradizionale visione dell’esperienza cristiana come anticipazione della vita nel Regno “che non è di questo mondo”. L’organizzazione totalizzante della vita monastica ha a sua volta una considerevole influenza sulla liturgia, favorendo l’arricchimento e l’allungamento dell’ufficiatura liturgica quotidiana.
La lettura e il canto dei salmi costituisce nei primi secoli la base della preghiera liturgica, affondando nelle radici ebraiche del culto cristiano. Già i Vangeli infatti testimoniano l’autorevolezza della salmodia cantata, e attestano il legame tra questa prassi e la fondazione del culto eucaristico nel racconto dell’Ultima cena (Matteo 26, 30 e Marco 14, 26). Con il IV secolo la salmodia si sviluppa in accordo con le nuove esigenze del culto, per cui, a fianco della forma più antica di salmodia, in cui un solista canta l’intero salmo, si affermano una forma responsoriale e una forma antifonale. La prima prevede l’esecuzione del salmo da parte di un solista e la ripetizione da parte dell’assemblea di un ritornello composto da alcuni versetti, la seconda, che si sviluppa in seno alla liturgia monastica, il canto dei versetti salmici suddiviso tra due cori. Entrambe queste forme lasciano intravedere l’esigenza di favorire la partecipazione dell’intera assemblea alla lode cantata: nel caso della vita ecclesiastica ordinaria tale esigenza è dettata dall’espansione del culto nelle città dell’impero, mentre, sul versante monastico, l’antifona può essere vista come l’espressione liturgica dell’affermazione del cenobitismo.
A fianco della tradizionale salmodia, un altro importante genere liturgico si afferma con il IV secolo, l’innodia. L’inno è un canto di lode a Dio consistente in un testo di otto strofe, dove ogni strofa si compone di quattro versi comprensivi di otto sillabe ciascuno. Ciò che è importante sottolineare riguardo all’inno è la preminenza che in esso assume la melodia cantata sulle parole del testo, mentre nella salmodia è la parola a mantenere la preminenza sulla parte musicale, limitata a una cantillazione del testo biblico. L’innodia tiene dunque un ruolo primario nello sviluppo della componente musicale della liturgia cristiana, offrendo nondimeno alla creatività poetico-liturgica l’occasione di esprimersi nell’ampliamento del repertorio.
Uno dei motivi che porta all’inserimento di inni nella liturgia è la necessità di impartire l’insegnamento della dottrina ortodossa attraverso le celebrazioni, quando cioè la comunità dei fedeli si raduna per assistere ai misteri. È proprio a questa finalità che si riportano gli esordi dell’innodia in Occidente. Come testimonia Agostino d’Ippona nelle Confessioni, Ambrogio di Milano introduce il canto degli inni, già diffuso in Oriente, come strumento di contrasto all’arianesimo, che a sua volta si avvale di testi liturgico-musicali per diffondere la sua particolare interpretazione del dogma dell’Incarnazione. Ambrogio stesso è autore di alcuni inni, anche se la tradizione gliene attribuisce un numero più ampio.
L’innografia viene adottata a Roma dopo la sua introduzione a Milano da parte di Ambrogio, anche se non si sa bene per quali vie ed entro quali tempi. È noto che papa Gelasio I – un secolo esatto dopo la morte del vescovo milanese –, compone inni “alla maniera di Ambrogio”. La Regoladi san Benedetto mostra poi come il suo autore abbia una certa familiarità con gli inni, segno che questo genere musicale si è stabilmente affermato, a metà del VI secolo, nella liturgia romana e nell’uso monastico.
L’origine extrabiblica dei testi degli inni pone tuttavia non pochi ostacoli alla loro diffusione in Occidente. Nel 563 un concilio convocato a Braga sancisce l’esclusione dalla liturgia di tutti i testi extrabiblici. A questa risoluzione estrema si oppone il concilio di Tours del 567, anche se in questa sede viene sancito che i testi da adottarsi nella liturgia devono essere riconducibili a un autore ecclesiastico pienamente ortodosso. Dato questo atteggiamento, possiamo ben capire i motivi della proliferazione di false attribuzioni di inni a personaggi ecclesiastici illustri, tra cui lo stesso Ambrogio. L’atteggiamento restrittivo emerso a Braga è lo stesso che anima la riforma promossa da papa Gregorio Magno, il quale elimina dal repertorio liturgico ogni testo che non vanti origini bibliche o patristiche. Gli inni scompaiono così dal repertorio romano per ricomparirvi non prima dei secoli XI-XII.
Sin dalle origini, la liturgia cristiana e i relativi repertori musicali non costituiscono una tradizione unitaria, rispecchiando l’organizzazione primitiva della Chiesa, che prevede una relativa indipendenza amministrativa delle cosiddette chiese locali, ossia delle suddivisioni ecclesiastiche che si estendono su una specifica regione, facendo capo all’episcopato della principale città del territorio. Senza nulla togliere all’unità della Chiesa, che è sancita dall’unica confessione di fede, le diverse chiese locali sviluppano una propria liturgia e conseguentemente differenti repertori musicali, sebbene tutti basati su testi in latino. In seno alla Chiesa occidentale i principali repertori sono l’antico romano, il gallicano, l’ispanico o mozarabico, l’ambrosiano, il patriarchino o aquileiese e il beneventano.
Il principio dell’indipendenza dei riti non è mai messo in discussione durante tutto l’alto Medioevo, tant’è vero che l’esclusione degli inni dal repertorio romano, contemplata dalla riforma voluta da un personaggio autorevole come papa Gregorio Magno, non viene recepita da altre tradizioni locali, come quella mozarabica, gallicana o ambrosiana, oppure in ambito monastico.
Il problema dell’uniformazione dei repertori viene posto dalla riforma politico-religiosa carolingia, che nell’adozione di un unico rito per le chiese d’Occidente vede un mezzo liturgico per supportare l’ideologia unanimitaria sottesa al progetto di fondazione del Sacro Romano Impero. La scelta del rito da porsi alla base di questa opera di uniformazione ricade sulla liturgia della sede primaziale dell’ecumene occidentale, la liturgia di Roma. Il Capitolare del 789 noto come Admonitio generalis impone così ai chierici che imparino alla perfezione il canto romano. Il richiamo all’origine romana del canto liturgico occidentale non corrisponde tuttavia alla realtà dei fatti: il nuovo repertorio, che si vuole affermare come culto condiviso in tutto l’impero, nasce infatti da un’ibridazione tra canto gallicano e canto romano. Per conferire maggiore autorevolezza al nuovo repertorio, che di fatto è estraneo alla tradizione delle chiese locali occidentali, i musicografi carolingi escogitano la sua attribuzione a Gregorio Magno, sicché il pontefice riformatore si trova ritratto in molte miniature – a partire da quelle del celebre Antifonario Hartker conservato all’abbazia di San Gallo – nell’atto di comporre dei canti ispirati direttamente dallo Spirito Santo, che vengono contemporaneamente trascritti in notazione musicale da un amanuense.
La nascita del “canto gregoriano” sancisce la fine di un periodo di storia della musica sacra in Occidente, i cui primordi possono esser fatti risalire alla liberalizzazione del culto voluta da Costantino. Alla fine dell’VIII secolo la nascita del nuovo impero, sotto l’egida dei re franchi, segna la fine del principio del localismo liturgico, anche se nel concreto l’affermazione del nuovo repertorio è lenta e trova non poca resistenza da parte di prelati e chierici, che non intendono rinunciare di colpo alla propria tradizione liturgica locale. È così che la liturgia ambrosiana, forse per l’importanza della sede episcopale, può mantenere le proprie peculiarità e preservare il suo repertorio di canti.
La necessità di diffondere il nuovo repertorio “gregoriano” in tempi rapidi e in modo capillare in tutto l’Occidente non può certo affidarsi alle tradizionali modalità di trasmissione del canto fino a quel momento invalse, basate essenzialmente sull’insegnamento orale nelle scholae cantorum, cioè nelle cantorie collegate a un’istituzione ecclesiastica. Sebbene sia plausibile che una primitiva forma di notazione fosse in uso anche in queste scuole, come sembrerebbero suggerire le testimonianze più arcaiche, è solo con la riforma carolingia che viene sviluppato un metodo di scrittura musicale maggiormente funzionale alla diffusione del repertorio. I segni utilizzati per indicare il movimento melodico sono chiamati “neumi” (in greco “segni”), nome che ne tradisce l’origine orientale. Il neuma musicale ha probabilmente origine dai segni grafici utilizzati per l’accentazione delle parole ma, secondo alcuni, è stato sviluppato in modo da costituire una trascrizione del movimento della mano del direttore di coro.
I primi manoscritti con notazione neumatica risalgono al IX secolo (o al tardo VIII secolo) e sono testimoni della primitiva diffusione del canto gregoriano in area franco-germanica. I sistemi notazionali testimoniati da questi codici sono a loro volta originari dell’area in cui il repertorio gregoriano si è sviluppato, a riprova della loro reciproca interconnessione: le notazioni più antiche sono infatti quelle di San Gallo e di Metz (o notazione lorena). In esse i neumi figurano in campo aperto, ovvero trascritti direttamente sopra il testo, senza l’ausilio delle linee orizzontali, la cui aggiunta dà vita più tardi, nell’XI secolo in Italia, al tetragramma, che diviene in seguito il pentagramma in uso ancora oggi. Chiaramente, questo sistema di notazione non consente una lettura della musica senza una preliminare conoscenza della melodia, ma costituisce nondimeno uno straordinario progresso in quanto a supporto mnemonico. I teorici, sia in quest’epoca sia nei secoli successivi, come Ubaldo di Saint-Amand, Ermanno Contratto o Giovanni di Afflighem, hanno lasciato diverse annotazioni circa l’insufficienza di questo metodo notazionale. Parallelamente si sperimentano dei sistemi alternativi, come la notazione dasiana o delle rielaborazioni della notazione alfabetica – già in uso nella musica greca e descritta da Boezio –, tentativi che non riescono nell’intento di chi le sviluppa, ma danno nondimeno un contributo all’affermazione del principio della diastemazia, per il quale tutti gli intervalli melodici devono risultare univocamente distinguibili in base al segno grafico.
Dal punto di vista ritmico la prima notazione neumatica non offre indicazioni per l’esecuzione: se ne può inferire che la melodia segue il ritmo della scansione sillabica del testo a cui è associata. Si distinguono così tre generi di rapporto tra testo e suono, ovvero sillabico, in cui a una sillaba corrisponde un suono, semiornato o neumatico, in cui a ogni sillaba corrispondono più suoni, conservando tuttavia l’unità ritmica in associazione alla singola parola, e ornato o melismatico, quando si produce una fioritura melodica in corrispondenza di una sola sillaba e la parola lascia il posto alla melodia.
In epoca carolingia, dietro l’impulso della riforma dei repertori liturgici, si registra una crescita esponenziale dei trattati di teoria musicale, che interrompono il lungo silenzio instauratosi successivamente alla grande fioritura della trattatistica musicale di età patristica ed enciclopedistica (IV-VII sec.). Se quella produzione serve a consegnare al Medioevo i fondamenti della riflessione musicale antica e tardoantica greco-romana ed è di natura essenzialmente matematico-filosofica, la trattatistica carolingia è maggiormente volta alla prassi, essendo chiamata a fornire un inquadramento teorico al nuovo repertorio gregoriano, la cui organizzazione coinvolge elementi nuovi per la tradizione latina, quali il sistema modale bizantino (oktoechos), che raggruppa le melodie in otto generi, definiti “modi”, e il sistema dei toni della teoria greca antica.
La prima menzione di questo nuovo sistema si legge in uno scritto attribuito ad Alcuino di York. Successivamente, Aureliano di Réomé tenta di includere il nuovo sistema modale nel sistema della musica speculativa ereditato dall’antichità, offrendo una peculiare interpretazione modale delle formule melodiche. L’approccio di Aureliano può essere visto come paradigmatico dell’orientamento intellettuale carolingio, teso da una parte al recupero e al reimpiego delle istanze della cultura greco-romana, dall’altra lanciato nel progetto di creare la nuova cultura del Sacro Romano Impero, concepita come sintesi universale del sapere antico e del sapere cristiano.
Quest’opera di sintesi teorica prosegue con Ubaldo di Saint-Amand, il quale mette in corrispondenza il sistema di divisione dei suoni proprio della teoria ellenica antica (systema téleion) con le formule di intonazione dell’ottoeco. Da qui a stabilire una corrispondenza tra le scale della teoria greca con i modi ecclesiastici il passo è breve e viene compiuto dall’anonimo trattato noto come Alia musica, della metà del IX secolo. In realtà questo testo si compone di due parti dovute a due diversi autori: il primo, attraverso un’esegesi impropria delle strutture scalari descritte nel IV libro del De musica di Boezio, ricava la successione dei toni in modo inverso rispetto a quelli della teoria greca, attribuendo quindi i loro nomi tradizionali (dorico, frigio, misolidio ecc.) a un tono diverso, il secondo assimila questi toni, che si contano nel numero di otto, agli otto modi ecclesiastici, derivati dall’ottoeco bizantino (il sistema bizantino in sé è del tutto indipendente dalla teoria greca e deriva da un sistema tonale, associato al calendario, di origini caldaiche).
I successivi sviluppi della teoria degli otto modi ecclesiastici si hanno con Reginone di Prüm, al quale si devono i primi tonari, compilazioni di canti del repertorio gregoriano classificati in base al modo, e con Oddone di Cluny, che definisce il modo attraverso la successione scalare, principio che segna il tramonto dell’antica concezione della modalità come raggruppamento di formule melodiche. La teoria scalare, che guadagna alla musica occidentale il principio su cui si costruirà la futura teoria dell’organizzazione dei suoni, viene consolidata da Aribone Scolastico e Giovanni di Afflighem.
Il repertorio del canto gregoriano è quindi organizzato in base al sistema degli otto modi, di cui abbiamo visto l’origine attraverso la sintesi tra il modello degli otto modi della musica ecclesiastica bizantina (ottoeco) e la teoria ellenica tardoantica. L’ottoeco latino riprende dalla teoria greca il principio della scala modale, come serie di otto suoni racchiusi nell’ambito di un intervallo di ottava, nonché i nomi attribuiti ai modi (che tuttavia non corrispondono più ai modi greci); dal sistema bizantino riprende invece la classificazione in quattro gradi melodici (protus, deuterus, tritus, tetrardus) che si dividono a loro volta in autentici e plagali; infine dall’antica modalità del canto liturgico occidentale riprende il principio del tono salmodico (ovvero il timbro melodico) e quello delle note caratterizzanti il modo, denominate finalis e repercussa. Ogni brano gregoriano si trova così associato a uno degli otto modi, a seconda della nota finale (finalis) e dell’ambitus (cioè all’estensione della melodia). I modi autentici sono caratterizzati da una distanza di un intervallo di quinta tra finalis e repercussa, i plagali da una distanza di terza per il II e il VI modo e di quarta per il IV e l’VIII.
L’applicazione sistematica di questa classificazione alle melodie gregoriane lascia peraltro aperti molti problemi, a causa del fatto che la teoria viene applicata a un repertorio già formato, sicché i criteri classificatori rimangono in molteplici casi soltanto teorici.
Riprendendo dalla teoria greca l’idea che ciascun modo è associato a un particolare stato d’animo, diversi teorici propongono inoltre delle corrispondenze tra i modi gregoriani e gli effetti psicologici che le melodie avrebbero indotto nell’ascoltatore. Non è tuttavia noto se queste associazioni sono prese in considerazione ai fini della composizione.
Abbiamo visto come le origini del canto gregoriano risalgano all’esigenza di unificare i repertori locali occidentali al fine di conferire uniformità alle espressioni liturgico-musicali dell’impero franco-carolingio, che nasce la notte di Natale dell’800 con l’incoronazione di Carlo Magno a Roma. Il processo di formazione del repertorio gregoriano prende avvio nell’VIII secolo in Gallia con la sostituzione del canto liturgico romano alla liturgia gallicana. Il risultato è la creazione di un nuovo repertorio, che conserva i tratti dei due repertori da cui trae origine. Successivamente, verso la metà del X secolo, questo repertorio franco-romano, attribuito a papa Gregorio Magno attraverso una sapiente operazione di riscrittura agiografica, viene introdotto a Roma e da qui inizia la sua progressiva affermazione in altre regioni dell’Occidente cristiano, a scapito degli antichi repertori locali.
Uno dei fattori più notevoli connessi all’affermazione del canto gregoriano è l’impulso dato alla produzione di libri liturgici con notazione. I codici liturgici più antichi, risalenti alla fine dell’VIII secolo, non riportano traccia di notazione musicale, a riprova che le melodie sono ancora prevalentemente trasmesse per via orale. Uno dei più antichi graduali noti, quello di Rheinau, della fine dell’VIII secolo, riporta l’ordine dei testi della messa giunto allo stadio pressoché definitivo della sua formazione. I primi riferimenti alla musica presenti in manoscritti liturgici sono delle semplici indicazioni del tono salmodico, che servivano a ricordare al cantore la modalità in cui cantare. Il fatto che questi primi riferimenti utilizzino la nomenclatura importata da Bisanzio nell’VIII secolo, come il Graduale di Corbie (successivo all’853), è già indice della novità connessa a questa evoluzione e quindi dell’evoluzione intervenuta rispetto alla precedente tradizione musicale.
Con la riforma carolingia si viene così definendo la biblioteca dei libri liturgico-musicali utilizzati nella celebrazione dei riti cristiani, che ricalca nel suo repertorio sia le divisioni tra le due principali forme del culto, ovvero la liturgia delle Ore (ufficio) e la liturgia eucaristica (messa), sia l’elenco dei generi liturgico-musicali. I principali libri per la celebrazione dell’Ufficio sono l’antifonario (con i canti delle antifone e dei responsori), il breviario (con i testi dei canti dell’antifonario e le letture bibliche), l’Innario (raccolta di inni) e il salterio liturgico. Il principale libro da messa, che riporta il repertorio completo, è il graduale (o antiphonale missarum), con i canti del proprio (cioè i canti specifici per ogni giorno dell’anno), a cui possono aggiungersi talvolta i canti dell’ordinario (cioè i canti invariabili della messa). Libri che riportano il repertorio incompleto della messa sono poi il cantatorio (canti del responsorio, tratto e alleluia, in origine destinati a un solista), il tonario (riporta gli incipit dei canti della messa ordinati per tono; libro destinato alla didattica piuttosto che alla liturgia), il kyriale (canti dell’ordinario).
L’ufficio o liturgia delle Ore, costituita da letture dei salmi (con relative antifone), testi biblici, preghiere, litanie, orazioni, inni e cantici (Magnificat, Benedictus, Nunc dimittis), prevede otto celebrazioni quotidiane legate a un particolare momento della giornata: mattutino (cantato alle due di notte, e composto da uno o tre notturni), lodi (alle 5), ora prima (alle 6), terza (alle 9), sesta (alle 12), nona (alle 15), vespri (alle 17) e compieta (alle 20).
La liturgia della messa, all’interno della quale si consuma la comunione eucaristica, prevede una parte fissa o ordinario, composta da cinque canti invariabili: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei, con omissione del Credo nei giorni feriali e del Gloria nei giorni feriali e nei periodi di Avvento e Quaresima. I canti variabili del Proprio sono invece i seguenti: introito, graduale, alleluia/tractus, offertorio, communio. Oltre a questi canti la messa prevede anche preghiere fisse, come il Padre Nostro, e letture dal Nuovo Testamento (Epistola e Vangelo) specifiche per ogni giorno dell’anno.
Nel contesto della riforma del canto da cui ha origine il gregoriano, ovvero in seno alle comunità monastiche situate in territorio franco durante il IX secolo, vengono sviluppati due nuovi generi di canto, destinati ad arricchire notevolmente l’aspetto musicale della liturgia: i tropi e le sequenze.
I tropi costituiscono un’estensione per interpolazione melodica e testuale dei canti liturgici del repertorio tradizionale (riguardando più quelli della messa che dell’ufficio), effettuata mediante la sillabazione dei melismi preesistenti oppure con l’aggiunta di nuovi melismi.
La sequenza nasce invece come aggiunta di un testo (prosa) al vocalizzo previsto sull’ultima sillaba dell’alleluia; talvolta a questo vocalizzo segue una melodia composta ex novo, detta appunto sequentia. Celebri rimangono le quaranta sequenze composte da Notkero Balbulo, monaco dell’abbazia di San Gallo, che ne avrebbe scritto i testi per aiutarsi nella memorizzazione di melismi particolarmente lunghi. Proprio San Gallo è uno dei primi e più importanti centri di composizione delle sequenze, seguito poi da San Marziale di Limoges e dalla fioritura nella Parigi del XII secolo.
Con il concilio di Trento (dal 1545 al 1563) il genere della sequenza viene escluso dal canone liturgico, fatta sola eccezione per un piccolo gruppo di composizioni, rimaste tra i brani del gregoriano più noti e associate a molte gloriose pagine della musica sacra europea: il Victimae Paschali laudes (per la Pasqua), il Veni Sancte Spiritus (per la Pentecoste), il Lauda Sion Salvatorem (per il Corpus Domini), il Dies Irae (per i defunti) e lo Stabat Mater (per il Venerdì Santo, reintrodotto nel 1727).
Lo sviluppo della polifonia costituisce uno dei più ragguardevoli frutti della cultura musicale altomedievale. Gli inizi di questo percorso non hanno tuttavia lasciato traccia scritta fino alla seconda metà del IX secolo, quando due trattati redatti nella Francia del Nord, intitolati Musica enchiriadis e Scholica enchiriadis, nei quali si dà una descrizione delle prime forme di canto a voci sovrapposte, ci offrono notizia dell’esistenza di una prassi già consolidata. Sui primi passi della polifonia liturgica c’è chi ipotizza un’origine bizantina, dal momento che anche altre novità musicali comparse in Occidente provengono dalle rive del Bosforo, come ad esempio il sistema dell’ottoeco e l’organo. Recenti interpretazioni hanno anche sollevato il dubbio che il repertorio occidentale non sia mai stato puramente monodico, prevedendo invece dei raddoppi di voce durante l’esecuzione, prassi da cui avrebbe preso poi sviluppo la polifonia vera e propria.
I brani polifonici riportati nella Musica enchiriadis non valgono a fare luce sull’enigma: l’anonimo autore li denomina organa, termine che farebbe pensare a un’imitazione della musica suonata su uno strumento. Essi si presentano come una sorta di tropatura verticale, in cui a una voce desunta dal repertorio liturgico (vox principalis) ne viene aggiunta un’altra (vox organalis) che la raddoppia, nota per nota, a una distanza di ottava, di quinta o di quarta. La proibizione di intonare l’intervallo dissonante di quarta eccedente porta l’autore a suggerire il ricorso all’unisono o agli intervalli imperfetti di seconda o terza, oppure di ricorrere al moto contrario delle parti, accorgimenti compositivi che pongono le basi per i futuri sviluppi del contrappunto e dell’arte polifonica.
Altra caratteristica innovativa dei primi due trattati di polifonia è l’utilizzo di un sistema di notazione, detta “dasiana” (dal greco daseia), assommante 18 simboli volti a indicare con precisione, in associazione a un sistema di righi orizzontali (in cui si preannunciano il tetragramma e il pentagramma), i diciotto suoni della scala di riferimento e dunque gli esatti movimenti ascendenti o discendenti della melodia.