La milizia
«Le guerre coi Turchi la tennero in moto », scriveva intorno alla metà del Settecento il patrizio veneziano Giacomo Nani a proposito del secolo precedente in un suggestivo schizzo dei «vari passaggi della nostra Repubblica nei scorsi tempi a diversi fini politici». «Fortunate ancora che fossero state non decideano di molto e valeano piuttosto a conservarla che a farle cangiare fortuna [...]. Fu allora la Repubblica in istato di determinarsi colle direzioni ed impressioni altrui. Poterono per questo i Francesi empirla di idee fantastiche di eroismo, di Senato Romano nella guerra di Candia. A una tal romancesca impressione ella era di già preparata dalla venuta dei Spagnuoli in Italia, i quali aveano empito il paese di idee di bravura. Trovavano queste nutrimento perché era il paese pieno di ricchezze, non dissipate dal lusso e dalla conversazion delle donne. Queste in quella guerra si disperderono. I mercanti divennero nobili. Il commercio fu perduto di vista, i Francesi lo tolsero, e questa si può contare l’ultima gran perdita de’ Veneziani perché perderono le proprie ricchezze e quel resto di commercio che ancora godevano».
Nel 1684 la sacra lega contro gli Ottomani «diede occasione allo spirito di conquista [...] di comparire per l’ultima volta e dimostrarsi. In quella guerra si acquistò la Morea, ma vi si perdette più di quello che vi si abbia guadagnato. E infatti minacciati nuovamente», nel 1714, «di guerra dal Turco, tanto era lungi che ci avesse il paese guadagnato ed anzi tanto era vero che egli ci avea infinitamente perduto delle sue forze intrinseche che appena appena le perdite fatte di tutta la Morea scuoterono il Senato e il determinarono a ripararsi. Con che si finì di logorarsi quel poco di spiriti animali che ancor ne restava e cadde la Repubblica in una situazione di inazione», di «quiete politica» (1).
Le riflessioni di Nani relative al «secolo di ferro» di Venezia (che tale etichetta, che compare anche nella Istorica relazione della pace di Posaroviz redatta da Vendramin Bianchi all’indomani della conclusione di questa fase storica (2), sia affatto pertinente, lo sottolinea il fatto che nei settantasei anni tra il 1643 e il 1718 la Repubblica combatté quattro guerre, intervallate da nemmeno vent’anni di vera pace e da undici di un’onerosa neutralità armata) risultano, in parte, sorprendentemente affini a quelle dello storico contemporaneo Ekkehard Eickhoff, autore della più persuasiva ricostruzione dei rapporti tra Venezia, Vienna e i Turchi nella seconda metà del Seicento. Secondo Eickhoff la guerra di Candia non fu «assolutamente un puro confronto mercantile come le coeve guerre navali del Nord europeo. Difendendo la povera e sottosviluppata isola di Creta essi difendevano un regno, affermavano una rivendicazione protocollare, assiomatica; difendevano un ‚baluardo’ della cristianità fra il già perduto Levante e il mezzo perduto Egeo, una posizione strategica e una incrollabile autoconsapevolezza».
«I grandi slanci, gli sforzi e i sacrifici» dei Veneziani «non erano gesti vuoti, e tuttavia non ottenevano i risultati che li avrebbero elevati alla grandezza storica [...]. Una tragica inutilità attraversa tutti quegli eventi». «Anche la conquista del `Regno di Morea’ per compensare la perdita dei Regni di Cipro e di Candia fu un’impresa donchisciottesca; e il grande entusiasmo che la circondò è velato di sospetto. Non si trattò di un’ingenua voglia di conquiste, fu piuttosto una rincorsa ai nomi classici di città e regioni, fu certamente anche una volontà inebriante di vendicare Candia e di risvegliare il ricordo dell’antica grandezza. Ma fu solo un ricordo. Nessun autentico e vitale interesse nutrì quell’ultimo spiegamento di forza, fu un lasciarsi trascinare dalla grande ondata antiturca di ritorno partita dal continente» (3).
«Idee fantastiche di eroismo», «impresa donchisciottesca»: i giudizi di Nani e di Eickhoff insistono sullo scollamento tra le guerre dei Veneziani e i loro interessi, in primo luogo quelli economici. Anzi proprio una guerra, come quella di Candia, condotta in obbedienza alla vocazione marittima e mercantile di Venezia aveva paradossalmente contribuito a distruggere «quel resto di commercio che ancora godevano». Senza dubbio quando, nel 1645, gli Ottomani avevano invaso l’isola, era già avvenuta, e da alcuni decenni, quella trasformazione dei patrizi veneziani da mercanti in nobili evocata da Nani: da almeno una generazione il commercio era stato soppiantato dalla terra quale fonte primaria delle ricchezze del ceto politico lagunare. Ma a maggior ragione come giustificare l’insistenza in scelte belliche contrarie tanto alla tradizionale razionalità mercantile quanto, almeno apparentemente, agli interessi rurali, dal momento che costringevano ad investire un’enormità di risorse finanziarie e umane nella difesa di uno Stato da mar che, come avrebbe affermato nel 1657, in una renga favorevole alla conclusione della pace con il Turco, il doge Bertucci Valier a proposito del regno di Candia, «era semplicemente uno Stato d’apparenza» (4), un trompe-l’oeil dal punto di vista politico-economico?
Lo Stato di sostanza era altrove, in Terraferma, come aveva insegnato un’altra guerra, quella di Castro: nel 1643 l’esercito pontificio, volendo costringere i Veneziani ad abbandonare «ogni altro luogo, che infestavano della Chiesa le armi loro», aveva a sua volta superato il Po, minacciando le terre «del Polesine e del Padovano (dove la maggior parte de’ Nobili tiene le sue possessioni con superbissimi palagi)» (5). E anche vero che — altro paradosso — combattendo in Levante contro i nemici della Santa Fede ci si assicurava contro il rischio di un’invasione della Terraferma: era questa la tesi sostenuta da Giovanni Pesaro, nel 1657 il capofila del partito della guerra, ma anche colui che quattordici anni prima aveva guidato con scarso successo, in qualità di provveditore generale in Terraferma, le truppe veneziane impegnate nella guerra di Castro. «Se non havessimo avuta la guerra col Turco, bisognava che la Repubblica soccombesse a gravissimi dispendi per gelosia de’ Francesi e degli Spagnuoli»: la lotta contro gli Ottomani aveva «difeso i nostri Stati da’ potentissimi eserciti, che campeggiavano vicini», aveva salvaguardato dalla presenza di truppe estere, fossero pure amiche, le «possessioni» e i «superbissimi palagi» del patriziato.
Va da sé che a favore della guerra o, meglio, della guerra in Levante (l’intervento di Pesaro aveva precisato il carattere bifronte, alla Giano, della bellicosità veneziana: si voleva mantenere in armi lo Stato da mar per poter avere in pace una Terraferma che appariva sempre più difficile presidiare in maniera adeguata) militavano, accanto alla ragione ‚negativa’ accampata dall’autorevole savio del consiglio e futuro doge, anche altre, meno contorte, motivazioni. Tra quelle in ‚positivo’ spiccava il culto potentissimo della tradizione marciana, il mito, celebrato dallo stesso Pesaro, del «nostro Imperio del mare» (6), un mito incentrato, sul fronte militare, sull’armata, sulla marina da guerra della Repubblica alla cui testa vi era un corpo ufficiali composto da patrizi (che erano invece tassativamente esclusi dai ranghi dell’esercito, che comunque tenevano sotto stretto controllo mediante sia le autorità ‚territoriali’ — i provveditori generali, i rettori, ecc. — sia i capitani generali da mar — una carica che aveva alle sue dipendenze un generale da sbarco — sia, ancora, coloro cui spettavano competenze principalmente logistiche provveditore al campo, ecc.).
Riplasmato da quell’etica barocca, neocavalleresca, messa sotto accusa da Nani e da Eickhoff, da una coscienza aristocratica pienamente dispiegata sulla falsariga dei modelli offerti dalle nobiltà di spada delle grandi monarchie, il mito del dominio del mare assicurava alla Repubblica e, prima ancora, al corpo aristocratico un’identità collettiva, restituiva ad una macchina politica veneziana, che stava smarrendo la sua ragion d’essere mercantile, un’anima ad un tempo antica e nuova. Come ha scritto Eickhoff a proposito delle guerre del secolo di ferro, «forse il loro maggiore esito storico è di aver fatto rivivere nel cittadino veneziano, insieme con la volontà di resistere, una consapevolezza e un senso dello Stato che ancora per lungo tempo assicureranno un solido fondamento alla vita politica della Repubblica» (7). «Giova più una guerra che ci conserva che una pace che ci distrugge»: nell’affermazione del savio del consiglio Pietro Valier, nel 1684 uno dei capi dello schieramento favorevole all’adesione di Venezia alla lega antiturca (8), si può anche leggere, in filigrana, la convinzione che soltanto la guerra potesse dare un senso e una compattezza ad un patriziato, che appariva sempre più minato da faglie e da contrapposizioni, tra ricchi e poveri, tra nobili vecchi e nobili nuovi, tra tentazioni oligarchiche e istanze ‚democratiche’.
La guerra stessa poteva inoltre mettere in moto dei meccanismi destinati ad alimentarla, a favorire, in particolare, la costituzione di influenti gruppi di pressione e d’interesse. Nel 1675 l’anonimo autore di un Esame istorico politico di cento soggetti eminenti del patriziato veneziano riuniva nella categoria della «professione del mare» diciassette nobili, un inventario non certo esaustivo dal momento che anche all’interno di altri sottoinsiemi era possibile imbattersi in «soggetti», cui era riconosciuta la qualifica di «huomo maritimo» (Antonio Bernardo) o di cui si segnalavano «i lunghi impieghi di comando in armata» (Giorgio Morosini) o, ancora, si ricordava che «già nelle sciagure della patria, è fatto noto al mondo abbastanza» (Francesco Morosini, il capitano generale da mar che nel 1669 aveva sottoscritto la resa di Candia) (9). Che questi «huomini maritimi» non fossero un manipolo minoritario di reduci, lo avrebbe dimostrato un altro momento chiave, dopo quello del 1657, del discorso veneziano sulla guerra e sulla pace, il già citato dibattito del 1683-1684 a favore o contro l’alleanza con l’Impero, con la Polonia e con le altre potenze minori nemiche dei Turchi. Il savio del consiglio e storico pubblico Michiel Foscarini, un avversario dell’adesione della Repubblica alla lega, sarebbe stato sconfitto da una coalizione guidata da «quelli di spirito fervido e che nella passata guerra haveano sostenuto cariche militari», i quali dichiaravano «esser propitia l’occasione di profittar sopra il comune nemico» (10).
I profili dei patrizi raccolti nell’Esame così come quelli compresi in un catalogo analogo inserito nel Trattato della Repubblica Veneta, uno scritto anonimo redatto undici anni prima, mettono in luce un altro importante fenomeno favorito dalla guerra: l’ascesa politica e quasi sempre anche economica («l’utile», sentenziava l’autore dell’Esame, «per ordinario è l’ombra, che segue il corpo del graduato») di non pochi nobili appartenenti a case più o meno sprovviste di beni grazie alla «professione del mare». Ad esempio, la casa di Giorgio Morosini non aveva «entrate molto coppiose, ma ben sì lui un peculio considerabile» accumulato con gli incarichi militari, mentre Andrea Corner, pur essendo «nato povero e di scarsi parenti», era riuscito ad inerpicarsi fino al grado di provveditore generale da mar: quanto ad Antonio Barbaro, la sua notevole quanto discussa carriera appariva straordinaria dal momento che era «nato non solamente povero, ma derelito de parenti e fortune» (11)).
«La guerra ostinata d’Oriente», era il bilancio che ricavava, da questi e da parecchi altri casi, l’autore del Trattato, «spogliando l’erario di S. Marco, ha vestito una quantità di figli di S. Marco, che coll’industria e fatica nel mestiero del mare più che colle armi si sono notabilmente arricchiti et avanzati ai primi onori, a’ quali né meno havrebbono, fuori di questa guerra, potuto indirizzare un pensiero, che a loro medesimi non fosse parso temerario ». La guerra, quindi, come una sorta di lotteria a beneficio del patriziato minore, un veicolo di mobilità politico-sociale che poteva favorire rapporti meno tesi tra le componenti del corpo aristocratico in una fase in cui, da un lato, il governo veneziano tendeva a consolidare i suoi caratteri di una «meza oligarchia» dominata dai «nobili vecchi, ricchi e regnanti» (12) e dall’altro l’abbandono del commercio a favore delle campagne aveva ulteriormente ingessato il profilo sociale della nobiltà lagunare.
Il maneggio di fondi ingentissimi (il Moloch bellico inghiottiva somme enormi, probabilmente nel lungo periodo una media annua superiore ai cinque milioni di ducati) (13), gli elevati stipendi e rimborsi spese concessi ai comandanti (fu permesso a Francesco Morosini di non restituire sedicimila ducati, che il doge aveva indebitamente intascati), le taglie imposte alle popolazioni dell’Arcipelago, le ricche prede accumulate a spese dei Turchi e dei loro sudditi, tutto ciò concorreva a rimpinguare — non sempre lecitamente come indicano i numerosi processi per malversazione e come induce a credere l’opinione di Nani che proprio nel corso della guerra di Candia la corruzione avesse assunto a Venezia un carattere strutturale — le borse dei militari. D’altra parte la guerra usurava rapidamente reputazioni e vite: di qui un continuo ricambio ai vertici e l’opportunità, inconcepibile in ambito civile, di vertiginose carriere come quella di Lazzaro Mocenigo, a poco più di trent’anni capitano generale da mar e procuratore di S. Marco.
Accanto ai poveri, ai quali spesso l’armata assicurava un impiego certamente pesante, ma anche ricco di soddisfazioni e di prospettive (nel 1693 — ma la valutazione sembra valere anche per epoche anteriori e successive — era «per lo più costituita l’armata di sopracomiti miserabili» tanto che il senato tentava, senza molto successo, di «rimettere qualche soggetto benestante») (14), altre categorie e classi del patriziato potevano infoltire i ranghi del partito della guerra contro il Turco, dai ‚candiotti’ (i nobili che erano stati costretti ad abbandonare l’isola occupata dagli Ottomani e che ovviamente vedevano con favore la possibilità di rimettervi piede) ai nobili nuovi e ai giovani. La guerra aveva costretto il maggior consiglio ad aprire, a pagamento, il Libro d’oro ad alcune decine di case assai ricche, ma talvolta dal passato poco limpido: anche in risposta a questo fenomeno si era manifestata la ‚reazione aristocratica’ di molti nobili vecchi, il consolidamento di quell’albagia neocavalleresca, che doveva corroborare l’animus pugnandi e, sul fronte interno, indurre a bloccare con ogni mezzo l’accesso dei nobili nuovi alle cariche politiche più importanti.
A loro volta i nobili nuovi potevano cercare di riscattare le loro origini, avanzando lungo una delle poche strade rimaste aperte: la milizia. Quando, nel 1647, pochi mesi dopo l’inizio della stagione delle aggregazioni, furono eletti venti sopracomiti, quattro di essi uscirono dalle file della nobiltà recente (15). Nel 1684 Francesco Morosini partì da Venezia alla volta del Levante con un numeroso seguito di ‚venturieri’ patrizi, tra i quali una quota proporzionalmente assai elevata di nobili nuovi (16). Certo, anche nell’armata il nuovo patriziato non trovò affatto rose e fiori: tuttavia è pur vero che, come segnalano le nomine di Fabio Bonvicini e di Lodovico Flangini, dopo una lunga carriera in mare, a capitano estraordinario delle navi (la seconda carica della marina militare in tempo di guerra) rispettivamente nel 1715 e nel 1717, i riconoscimenti in questo campo precedettero di molto quelli di rango analogo ottenuti in ambito civile.
Quanto ai giovani, erano stati tra i beneficiari della guerra poiché a molti di essi era stato concesso di entrare, a pagamento, nel maggior consiglio prima di compiere l’età prevista dalla legge. Appare logico ritenere che fossero in maggioranza a favore di una gestione aggressiva della guerra e si sa che in ogni caso fu il loro voto che permise l’ascesa al vertice dell’armata di un coetaneo o quasi come Lazzaro Mocenigo, che si era distinto per un ardimento che confinava con la temerarietà: nel 1656 «les Anciens» (il senato gli aveva preferito Antonio Bernardo) non lo volevano eleggere capitano generale da mar, ma «la Jeunesse fit un si grand effort, qu’elle l’emporta» (17).
Dopo la guerra di Cambrai i Veneziani avevano adottato, nel quadro di una politica finalizzata a «possedere pacificamente il dominio loro», una formula militare — nei decenni seguenti imitata dagli altri maggiori Stati italiani, dalla Toscana di Cosimo I alla Savoia di Emanuele Filiberto — imperniata sul trittico deterrente armata navale-fortezze-milizie (vale a dire una mobilitazione selettiva degli artigiani — i bombardieri, a Venezia un corpo di seicento uomini, erano presenti in parecchie città e cittadine — e dei contadini — le cernide — destinata a fornire, in caso di necessità, un appoggio e una riserva ai soldati di professione). Le cernide — trenta-trentacinquemila uomini, «ma gente inesperta del mestiero delle armi e da non farne capitale» (18) — erano considerate da tutti la gamba più debole del tripode : rimaneva il binomio, per un certo verso complementare, per un altro antagonistico, armata-fortezze.
«I prencipi piccoli, come pure di mediocre potenza», ammoniva nel 1676 il generale Annibale Porroni in un compendio del sapere militare dell’epoca stampato a Venezia, «più de’ grandi tengono bisogno delle fortezze, imperoche quelli non potendo con facilità e prestezza porre forze considerabili in campagna, col mezzo di queste si possono difendere da’ grandi, come l’esperienza più volte l’ha dimostrato, havendo una piazza tal’hora consumato eserciti intieri» (19). La Repubblica aveva fatto propria assai per tempo la tesi avanzata da Porroni. Soltanto che aveva applicato la massima con uno zelo eccessivo. Stando ad un ‚ristretto delle artiglierie’ del 1683, anteriore quindi alla conquista della Morea, le fortezze erano solamente trentaquattro, di cui cinque nelle isole Ionie, altrettante nel resto della Grecia, dodici in Terraferma, dieci in Dalmazia e Albania e due in Istria (20). Secondo un decreto del senato del 1710, che distingueva tre classi di piazze, il loro totale ammontava invece a quarantasei, compresi due ‚doppioni’ relativi a Brescia e a Verona (nell’elenco figuravano tanto le città quanto due castelli eretti a loro protezione e controllo) (21).
Ma un altro ‚ristretto dell’artiglierie’, datato 1718 per il Levante e 1722 per la Terraferma e la Dalmazia e Albania (non era presa in considerazione l’Istria, mentre, come era ovvio, il catalogo non menzionava la quindicina di piazze perdute nel corso dell’ultima guerra), elencava ben settantotto fortezze d’ogni ordine e grado, tutte però munite di pezzi e, si presume, di soldati: nove di esse erano in Levante, ventiquattro in Terraferma e addirittura quarantacinque in Dalmazia e Albania (22). È vero che in quest’ultima area l’interminabile confine di terra con il Turco e sul mare le incursioni dei corsari barbareschi e dulcignotti impedivano di adottare i criteri razionali utilizzati in Terraferma, dove era stata impostata una difesa territoriale imperniata su Bergamo (centonove pezzi nel 1683), Brescia (centosettanta), Verona-Peschiera-Legnago (rispettivamente novantanove, centosei e centotré) e Palma (centoquarantadue), mentre erano state declassate città-fortezze delle retrovie come Padova e Treviso (trentuno e venti-quattro pezzi). Tuttavia rimane sempre il fatto che era assai difficile conservare in buono stato ed impossibile consolidare secondo i più recenti dettami dell’architettura bastionata una novantina di piazze (questa la cifra più probabile negli anni tra il 1687 e il 1714).
Non è un caso che da La Canea (1645) a Sebenico (1647), da Napoli (Nauplia) di Romània (I715) a Corfù (1716), le principali fortezze veneziane investite dagli Ottomani palesassero sempre notevoli manchevolezze e difetti: quando riuscirono a far fronte ad un assedio (i casi di Sebenico e di Corfù), ciò accadde nonostante l’evidente debolezza delle fortificazioni. Inoltre le piazze della Repubblica erano munite di un numero strabocchevole di pezzi d’artiglieria: duemilaquattrocentosessantuno in base all’inventario del 1683, duemilaottocentosei secondo quelli del 1718-1722, forse tremilacinquecento pezzi tra le due guerre di Morea. Come è ovvio, baluardi e pezzi esigevano, per essere adeguatamente ‚coperti’ e utilizzati, dei presidi ad un tempo globalmente assai numerosi e distribuiti a pioggia sul territorio. Non stupisce quindi che, come scriveva de la Haye, un nobile francese che era stato al servizio dei Veneziani negli anni Cinquanta del Seicento, non solo in tempo di pace, ma anche in quello di guerra «tout leur soldatesque generalement est dans les garnisons de la Dalmatie ou de la Candie, & ils n’entretiennent aucune armée sur pied, que celle de mer».
Non era tanto l’atavica diffidenza dei patrizi nei riguardi dei militari («ils n’osent mettre en des mains étrangeres le maniment d’une epée qui leur pourroit nuire, ils y sont pourtant quelquefois forcez, mais c’est avec de telles précautions, qu’ils semblent plutot lier les bras dont ils se servent que les armer») quanto piuttosto l’appiattimento dell’esercito sulle guarnigioni che spiega il fatto che «les Venitiens n’en assemblent jamais de corps considerables & les distinguent en compagnies franches qu’ils entretiennent separément, [...] divisant ainsi l’authorité en plusieurs mains qu’un seul auroit à la teste d’un regiment». Mentre i maggiori Stati europei dovevano costituire, tra i primi decenni e gli anni Sessanta del Seicento, degli eserciti permanenti basati appunto su unità organiche come i reggimenti e su regolamenti validi per l’insieme degli ufficiali (promozioni, ecc.), Venezia doveva continuare fin quasi sulle soglie del Settecento a privilegiare un sistema arcaico, quello delle compagnie-guarnigioni, che tra l’altro presentava, in tempo di guerra, almeno due limiti macroscopici.
La mobilitazione di un esercito invischiato nella pania dei presidi (de la Haye li avrebbe definiti «de gros corps de garde », «des armes defensives ») (23) non era affatto agevole, né, in ogni caso, produttiva: gli esordi della guerra di Candia e, settant’anni più tardi, quelli della seconda guerra di Morea si sarebbero incaricati di testimoniare la difficoltà di mettere in campo un’adeguata e soprattutto tempestiva «armée sur pied» di soccorso.
Potevano trascorrere parecchi mesi prima che si riuscisse a reclutare le truppe mercenarie necessarie e nel frattempo, se le fortezze cedevano agli assedianti, la situazione poteva essere compromessa in maniera irrimediabile. Inoltre le «compagnies franches» non avevano alle spalle esercitazioni e manovre nel quadro di grandi unità, un handicap non trascurabile negli scontri in campo aperto. Ciò spiega, in parte, la preferenza per la guerra d’assedio, la quale tra l’altro aveva quale esito, in caso di successo, la rapida trasformazione dell’«armée sur pied» in una sommatoria di «gros corps de garde», il ristabilimento, cioè, dell’assetto ‚normale’ veneziano.
La resistenza opposta dalla Repubblica alla modernizzazione dell’esercito era alimentata anche dall’ideologia della città-stato. Per i patrizi veneziani le «mains étrangeres» non erano soltanto quelle degli Oltramontani, ma potevano essere anche quelle dei loro sudditi: ancora nel Settecento Piero Gradenigo avrebbe incluso nelle Memorie storiche de capitani generali et altri soggetti militari di estere nazioni a servaggio della Serenissima Repubblica di Venezia i profili di due nobili attivi nelle file dell’esercito marciano tra Sei e Settecento, uno di Padova e l’altro di Brescia (24).
Mentre altrove era stata imboccata, anche se sempre con una certa moderazione, la strada dell’esercito ‚nazionale’, nella Serenissima Repubblica si continuava a perseguire l’obbiettivo di una disinvolta utilizzazione di un mosaico di popoli e di corpi militari, si tesseva una trama retta da un principio d’equilibrio in primo luogo politico: un tipico esercito veneziano era quello schierato in Dalmazia nel 1647, i cui undici squadroni erano formati da «alemanni», Italiani, Svizzeri, Francesi, «corsi e altri italiani», «todeschi» (una variante di «alemanni»?), Albanesi, Croati, «villici» e «paesani» (le craine, la versione dalmata delle cernide?) (25). Ancora prima dunque che fosse consacrata da Clausewitz, la definizione della guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi riceveva a Venezia una puntuale applicazione, come indica anche la ricorrente propensione ad affidare le più alte cariche militari a personaggi autorevoli, ma molto in là con gli anni, oppure a diplomatici o ad altri patrizi, che di armi ne sapevano certamente ben poco.
Non si potevano certo avanzare riserve sui nobili dediti alla professione del mare. Ma anche la forza armata prediletta dalla Repubblica pagava un prezzo notevole al culto della tradizione. L’armata navale attiva in tempo di pace, la cosiddetta armata ordinaria, era composta unicamente da galere e da galeazze, vale a dire dalle navi a remi e a vela tipiche della navigazione mediterranea.
Era soltanto in tempo di guerra che a questa armata, l’armata ‚sottile’, era affiancata l’armata ‚grossa’, l’armata che comprendeva le navi esclusivamente a vela (galeoni, fregate, ecc.): dal momento che l’Arsenale di Venezia avrebbe continuato a costruire e ad accumulare nei suoi magazzini unicamente navi dell’armata ‚sottile’ fino agli anni 1660 (la prima nave ‚oceanica’ sarebbe stata varata nel 1667), la costituzione dell’armata ‚grossa’ rappresentava — come avrebbe sottolineato il primo anno della guerra di Candia — un momento particolarmente critico della mobilitazione, in quanto implicava sia l’acquisto o l’affitto di un congruo numero di navi sia l’accelerata formazione di un corpo ufficiali patrizio ad hoc.
Lo storico ufficiale veneziano Battista Nani avrebbe scritto che la guerra di Castro (1643-1644), di fatto l’ultima guerra combattuta dalla Repubblica in Terraferma, «servì d’appendice a tante altre, che laceravano la Christianità». Un conflitto di terz’ordine, quindi, «non grande per le cagioni, per gli effetti, per le fattioni», ma anche una cartina al tornasole, che consente di far emergere le contraddizioni di una guerra veneziana ‚da terra’. Una guerra ironica, che le fitte trame diplomatiche avevano reso inevitabile nel tentativo di scongiurarla: non si voleva «venire all’armi, se non per estremo rimedio», ma «caminando per la via degl’impegni, s’inciampò nella guerra» (26). Una guerra, soprattutto, gestita subordinando strettamente il militare al politico e affiancando a quello che doveva essere lo scopo strategico della lega tra la Repubblica, il granduca di Toscana e il duca di Modena (costringere la famiglia del papa, i Barberini, a restituire al duca di Parma Francesco Farnese il Ducato di Castro) altri obbiettivi, dal tentativo di «assicura[re] le frontiere del suo dominio con allargarlo sino agli argini del Po» (27) a quello di approfittare dell’occasione per stringere con i Ducati padani legami di tipo tutorio.
Così non solo non si riuscì a dare all’esercito della lega un capitano generale (in ogni caso il comando sarebbe spettato ad uno dei principi, dal momento che l’esercito della Repubblica era privo di un generale in capo) e un piano di operazioni unitario, ma la stessa Repubblica sparpagliò le sue truppe e le sue galere su più fronti, assegnando trecento cavalli al granduca, che invase con i suoi soldati l’Umbria, e tremila fanti e altri trecento cavalli al duca di Modena, che temeva di essere attaccato dai Pontifici, mentre destinò il grosso delle sue forze all’occupazione del Ferrarese e inviò una squadra di galere a bombardare e a saccheggiare la riviera romagnola. Per di più la direzione dei contingenti fu affidata a patrizi, come il provveditore generale in Terraferma Giovanni Pesaro e il provveditore nel Modenese Angelo Correr, dall’inappuntabile pedigree diplomatico, ma privi di competenze militari e, tra l’altro, in balia di generali, come il cavaliere de la Valette e il principe Camillo Gonzaga, divisi da una profonda rivalità.
Non meraviglia quindi che, nonostante l’evidente superiorità della lega sui Pontifici quanto alle forze schierate in campo, non solo fallissero le offensive, malamente coordinate, in Emilia, ma gli stessi Veneziani fossero costretti da un attacco delle truppe papali a cedere il forte, che si erano affrettati a costruire a Pontelagoscuro e che non si erano affatto preoccupati di munire di artiglieria e di presidiare in maniera adeguata, e a ripiegare in difesa del Polesine, essendo anche obbligati a far affluire alcune cernide e altri contingenti nella provincia minacciata e ad impiegare finalmente, sia pure a scopo difensivo, una parte dell’armata in appoggio all’esercito. La pace fu conclusa dopo che una nuova offensiva delle truppe veneziane era stata bloccata dal forte pontificio di Pontelagoscuro.
Quando, nel 1657, il doge Valier cercò, invano, di convincere il senato a concludere la pace con il Sultano, manifestò tra l’altro la sua perplessità nei riguardi di una guerra confusa e contraddittoria, una guerra che non si sapeva bene se definire offensiva o difensiva. In effetti il conflitto aveva investito tre teatri sottesi da logiche militari di regola divergenti: l’isola di Creta, l’Egeo e la Dalmazia. L’isola era stata invasa nel giugno del 1645 da un corpo di spedizione turco sterminato — forse novantamila uomini, una cifra di non molto inferiore alla metà della popolazione totale di Creta — appoggiato e trasportato da una flotta enorme — più di trecentocinquanta navi. La Canea, dopo la capitale, Candia, la maggiore piazzaforte e il porto più importante dell’isola, era caduta dopo due mesi d’assedio: nell’arco di un paio d’anni gli Ottomani si erano impadroniti, senza che i Veneziani opponessero una grande resistenza, di quasi tutta Creta, salvo le roccaforti marittime di Suda, Spinalonga e Grabusa, e avevano investito la stessa Candia.
Da allora il leitmotiv della guerra nell’isola — e per quasi tutti anche l’emblema del conflitto in generale — fu l’interminabile assedio della fortezza di Candia. «Sono hormai anni 25 che dall’armi ottomane viene di continuo tormentata», scriverà Francesco Marzioli nel 1669, l’anno stesso della caduta della piazza; Candia era «l’unica al mondo in haver sostenuto sin’hora fra tutte l’altre fortezze il più famoso di tutti gl’altri assedii: che se la Fiandra fu nominata teatro della militar disciplina di campeggianti eserciti, questa può chiamarsi la vera scuola d’haver fatto conoscere il proprio modo della difesa ed offesa delle piazze». Candia testimoniava, tra l’altro, la validità della massima che bastasse una fortezza ben difesa per far «perdere l’ardire e le forze agl’iriimici, quantunque fossero gran potentati del mondo et havessero eserciti formidabili» (28).
Certo, l’ostinata difesa del baluardo della cristianità non poteva non colpire l’immaginazione dell’Europa: le decine di migliaia di morti (nel 1668, l’anno più sanguinoso, più di quarantaseimila caduti, quattro quinti dei quali nelle file degli Ottomani) (29), la lotta tra due straordinari parchi d’artiglieria (nel 1667 i Veneziani disponevano di cinquecento pezzi, serviti però soltanto da centosessantatré bombardieri; trecento i pezzi dei Turchi), una guerra sotterranea senza precedenti (nel reticolo di gallerie scavate nel sottosuolo i Veneziani arrivarono ad istituire ottanta posti d’ascolto presidiati da tremila uomini, che sostennero quarantacinque scontri e fecero brillare quasi milleduecento «fra mine, fornelli e fogare») (30), gli ufficiali e i soldati affluiti da molti paesi perché reclutati dalla Repubblica (tra gli altri, il generale sabaudo Ghiron Francesco Villa) (31) oppure per aiutarla nella crociata contro l’Islam (si distinse soprattutto la Francia del cardinale Mazzarino e di Luigi XIV, che nel 1660 e nel 1669 inviò dei veri e propri eserciti, nel secondo caso con l’appoggio di una flotta da guerra, e nel 1668 concesse ad un battaglione, che riuniva il fior fiore della gioventù nobile del Regno, di illustrarsi in una donchisciottesca sortita dagli esiti disastrosi), tutto ciò contribuì a inchiodare la guerra di Candia allo stereotipo del «più famoso di tutti gl’altri assedii», della performance difensiva per eccellenza.
Ma, come abbiamo visto, la guerra interessò anche altri due teatri diversamente connotati sotto il profilo strategico. La Dalmazia rimase «sempre uno scenario secondario»: nei primi anni del conflitto i Turchi lanciarono offensive su offensive con l’intento di costringere i Veneziani a sguarnire gli altri fronti, ma, in ultima analisi, non riuscirono a raggiungere tale obbiettivo ed anzi finirono per lasciare nelle mani del nemico alcune piazze dell’interno. Del resto la regione sembrava «fatta apposta per essere tenuta da una forte potenza marinara che volesse contrastare un potentissimo impero continentale»: «la carta vincente» dei Veneziani «contro qualunque offensiva turca fu la combinazione di una piccola ed esperta armata di mercenari» (alla cui testa fu collocato, negli anni più critici, il generale tedesco Christof Martin von Degenfeld, che era un veterano della guerra dei Trent’anni) «con la quasi indiscussa superiorità [...] in mare» (32).
Ma forse il contributo maggiore al successo di Venezia lo diede il provveditore generale in Dalmazia e Albania Lunardo Foscolo quando, nel 1647, riuscì, grazie ad un prete, a guadagnare «alla divozione della Repubblica Veneta quasi tutti i popoli della Morlachia» (33) e quindi a garantirsi l’appoggio, importante anche perché metteva a disposizione dell’esercito veneziano una preziosa fonte di reclutamento, di `popoli’ che de la Haye definiva «les Iroquois de ce païs-là» (34). Mentre a Candia, dove, come riconosceva Andrea Valier, i Veneziani avevano «ridotto in forma di schiavitù» i Greci (35), questi ultimi, anche perché terrorizzati dalle dimensioni dell’esercito invasore, non avevano quasi contribuito alla difesa dell’isola, in Dalmazia la Serenissima era stata in grado di «combinare esemplarmente arte militare e arte di governo» (36), aveva gestito al meglio nel quadro di un’attiva difesa regionale il trittico armata-fortezze-milizie locali, corroborandolo con un’efficiente «armée sur pied».
Nel caso di Candia non solo le milizie erano risultate inferiori a quelle che figuravano nei ruoli e in più ‚in generale’ era entrato in crisi il sistema di autodifesa, non solo le fortezze avevano palesato carenze vistose (ma questo si era verificato anche in Dalmazia, dove nel 1647 Sebenico era stata soccorsa appena in tempo da Foscolo), non solo non era stata inviata da Venezia con la necessaria rapidità una quantità di truppe tale da consentire al locale provveditore generale di contrastare l’esercito turco, ma anche l’armata navale aveva combinato ben poco. Data la centralità dell’armata nella politica militare della Repubblica, il suo fallimento — sul piano strategico, mentre, come si vedrà, i successi tattici non sarebbero affatto mancati — avrebbe necessariamente comportato la sconfitta di Venezia. Il dossier a carico dell’armata riguarda sia il primo anno di guerra, che fece emergere soprattutto i limiti strutturali della marina militare, sia la strategia adottata a partire dal 1646, una scelta apprezzabile per un certo verso, ma senza dubbio deleteria nel lungo periodo.
Nel 1645 vennero al pettine i nodi a suo tempo messi in evidenza, dalla questione del comando (furono preferiti personaggi anziani e/o poco competenti, sicché a causa di malattie, morti e giubilazioni nei primi due anni di guerra si succedettero al vertice dell’armata, con conseguenze negative facilmente immaginabili, quattro — di fatto cinque, se si aggiunge all’elenco un capitano delle galeazze che assolse per parecchi mesi le funzioni di un suo superiore ammalato — capitani generali da mar) a quella dell’armata ‚grossa’ (fu rapidamente improvvisata per lo più noleggiando navi olandesi, inglesi e francesi, ma, vuoi a causa dell’eccessiva prudenza del suo capitano, Antonio Marin Capello, vuoi perché i patrizi eletti governatori di nave non si rivelarono in un primo tempo all’altezza della situazione, vuoi perché i capitani stranieri non erano disposti a rischiare i loro vascelli in operazioni pericolose, si guardò bene, pur essendo arrivata in tempo utile a Candia, dal soccorrere La Canea). Anche quando l’armata ‚sottile’, che si era trattenuta a lungo nelle Ionie sia per la malattia del capitano generale, sia probabilmente nel timore di un attacco turco contro Corfù, raggiunse, rafforzata da ventun galere di Malta, di Toscana, del papa e della Spagna, l’armata ‚grossa’ nelle acque di Candia, a causa delle avverse condizioni meteorologiche non riuscì né a costringere la flotta turca a battersi, né ad impedire che il corpo di spedizione fosse adeguatamente rifornito.
Sul finire del 1645 Tomaso Morosini, un «gentilhuomo di qualche pratica nella marittima professione», ma dal modesto cursus honorum, presentò al governo un piano, che prevedeva, nel caso in cui l’armata veneziana fosse riuscita a bloccare i Dardanelli, che «i Turchi rimasi nel Regno [di Candia], disperati di soccorso, sarebbero stati necessitati a procurare la loro salvezza con la consegna della piazza, senz’altro spargimento di sangue» (37). Non solo il progetto fu approvato, ma lo stesso Morosini fu eletto capitano delle navi ed incaricato di realizzarlo. Lungo la dozzina di campagne, nel corso delle quali la flotta veneziana cercò di attuare il piano, l’obbiettivo del blocco totale non fu mai raggiunto e il flusso dei rifornimenti turchi, che tra l’altro poteva essere alimentato, oltre che da Costantinopoli, anche da altre basi di partenza, da Çeóme a Malvasia e ad Alessandria, fu tutt’al più rallentato. Nonostante l’evidente fallimento della linea strategica di Morosini (nel corso del 1646, mentre l’armata presidiava con scarsi risultati l’Egeo, i Turchi conquistavano Retimo e si avviavano a controllare quasi tutta Creta), Venezia le rimase testardamente fedele. A favore di un comportamento del genere militavano almeno quattro buoni motivi: 1) in ogni caso un’armata all’offensiva soddisfaceva l’orgoglio patrizio e confermava la sua superiorità sul mare anche quando doveva misurarsi contro flotte assai più numerose; 2) la presenza dell’armata nell’Egeo poteva essere giustificata, sotto il profilo strategico, non tanto dal perseguimento del chimerico obbiettivo del blocco dei rifornimenti quanto da quello della distruzione della flotta del Sultano: ci si riprometteva, una volta che quest’ultima fosse stata fatta a pezzi, di sorprendere un corpo di spedizione ottomano a Candia demoralizzato a causa della sconfitta e impossibilitato a ricevere soccorsi in tempi brevi; 3) l’armata poteva infliggere notevoli danni al commercio del nemico, depredare le città costiere, ecc., indurre, in poche parole, il Divano ad accettare una pace di compromesso: l’impiego dell’armata a fini deterrenti, se non di mera ritorsione, aveva del resto contraddistinto la prima reazione dei Veneziani alla notizia dello sbarco turco a Candia (invece di affrettarsi a soccorrere l’isola, erano andati a bombardare Patrasso); 4) le campagne nell’Egeo garantivano ricche prede e quindi anche per questo incontravano l’approvazione incondizionata degli ausiliari, che erano una via di mezzo tra i corsari e i crociati, e di non pochi patrizi veneziani.
La marina militare marciana, una volta affidata a comandanti per lo più di mezza età, se non giovani, in ogni caso esperti e determinati, una volta rapidamente superata la fase di rodaggio dell’armata ‚grossa’, riuscì ad arrivare alcune volte più o meno vicina alla meta ottimale che si era assegnata, la distruzione della flotta nemica, ma non passò mai all’esecuzione della seconda parte del piano, la riconquista di Creta. Le vittorie più clamorose furono quelle ottenute a Focchies (Focea) nel maggio del 1649 dal capitano delle navi Giacomo da Riva (con sole diciannove navi sconfisse, infliggendole perdite notevoli, una flotta turca di settantadue galere, dieci maone e venti navi), a Nasso nel luglio 1651 dal capitano generale Alvise Lunardo Mocenigo (in questo caso l’armata ottomana — più di centodieci tra galere e vascelli — era il doppio di quella veneziana, che riuscì comunque a catturare o a affondare una trentina di navi nemiche), presso i Dardanelli nel giugno 1655 dal capitano delle navi Lazzaro Mocenigo (praticamente distrutta la flotta a vela ottomana, messi fuori combattimento diecimila Turchi), ancora presso i Dardanelli nel giugno 1656 dal capitano generale Lorenzo Marcello (la vittoria più esaltante: uccisi diecimila Turchi, liberati cinquemila schiavi cristiani, affondate o catturate più di ottanta navi), presso Scio (Chio) nel maggio 1657 dal capitano generale Lazzaro Mocenigo (per la prima volta un’armata ‚sottile’ batté una flotta a vela nemica) e per la terza volta presso i Dardanelli nel luglio 1657 sempre da Mocenigo (i Turchi persero un quarto della flotta impegnata, un migliaio di uomini e novanta cannoni).
La Storia della marina militare veneziana da Lepanto alla caduta della Repubblica di Mario Nani Mocenigo (38), la ricostruzione più diffusa di queste vicende, così come gli studi, più o meno recenti, di Roger C. Anderson (39), di Eickhoff e di Setton sulle guerre navali di Venezia nel secondo Seicento sono ben lontani dall’offrire un’analisi soddisfacente delle cause strutturali della superiorità veneziana sui mari. Certo, siamo convenientemente «istruiti del gran cuore, generosità e fortezza, con cui que’ Nobili Patrizi si segnalarono contra gli Ottomani» (40), ma non sappiamo quale sia stato il contributo dei capitani stranieri e veneti, così come ignoriamo se le caratteristiche tecniche delle navi, il numero e la qualità dei pezzi d’artiglieria a bordo, la capacità di manovrare in linea, ecc. abbiano avuto o meno un peso rilevante. Quel che è certo è che i Veneziani avevano dei cannonieri eccellenti, «les meilleurs [...] du monde» secondo de la Haye: la loro mira era talmente precisa che tiravano «presque aussi juste que nous faisons de nos fusils» (41) e garantivano un fuoco continuo impressionante (nella battaglia dei Dardanelli del 1656 l’artiglieria veneta bersagliò il nemico con più di diecimila palle di ferro per un peso totale equivalente a quasi ottantatré tonnellate e consumò oltre sessantasei tonnellate di polvere da sparo).
La morte in battaglia dei capitani più intraprendenti e capaci (Marcello nel 1656 e Mocenigo nel 1657) e la tentazione di sfruttare i successi per portare un attacco a fondo contro la stessa Costantinopoli (questa la linea approvata dal provveditore d’armata Barbaro Badoer e da Mocenigo dopo la scomparsa di Marcello) fecero sì che Candia non beneficiasse affatto delle vittorie per mare. Chi tentò, senza molto successo, di far ritornare la guerra entro l’alveo abbandonato nel 1646 fu Francesco Morosini (42), provveditore generale in Candia nel 1656-1657 e capitano generale nel 1658-1660 e nel 1667-1669. Morosini pianificò, soprattutto nel 1660 e nel 1669 quando poté avvalersi dei reggimenti francesi, delle operazioni coordinate tra l’armata e le truppe di terra, che cercavano di sfruttare al meglio la superiorità marittima veneziana. Anche se i risultati non corrisposero alle aspettative, il patrizio saprà in ogni caso ricavarne delle importanti lezioni, che metterà brillantemente a frutto nella guerra di Morea.
I primi passi verso un esercito permanente
Nel 1684 Venezia decise di approfittare della favorevole congiuntura internazionale che si era aperta in seguito alla disfatta turca sotto le mura di Vienna: la sua adesione alla sacra lega, se da un lato le permise, per la prima volta nella sua storia, di togliersi la soddisfazione di essere essa a dichiarare guerra al Sultano, dall’altro indirizzò la sua voglia di rivincita non verso Candia, come avrebbe senza dubbio preferito se avesse potuto scegliere in piena autonomia, ma verso la Morea, un fronte più vicino a quello danubiano. Nell’arco di quattro campagne il capitano generale Francesco Morosini portò a termine la conquista di tutta la Morea (salvo Malvasia, che cadde nel 1690), un successo che sarà suggellato dalla sua elezione a doge e che indurrà gli apologeti a celebrarlo — un epiteto che lo colloca sullo stesso piano di Napoleone — quale «Dio de l’armi» (43). Morosini adattò al Peloponneso la strategia politico-militare, che aveva impiegato Lunardo Foscolo in Dalmazia nel 1646-1648, vale a dire una formula basata su: 1) un’armata navale strettamente coordinata all’esercito (mentre l’armata 'sottile' appoggiò gli sbarchi delle truppe e cooperò agli assedi, l’armata ‚grossa’ pattugliò i mari circostanti per impedire che fossero inviati soccorsi agli assediati da Costantinopoli o dall’Africa); 2) un piccolo, ma solido esercito di professionisti (intorno ai diecimila fanti e ai duemila cavalli rafforzati, quando era necessario, dai soldati e dai marinai dell’armata e da milizie; fu inizialmente composto soprattutto da truppe già al servizio della Repubblica, ma negli anni decisivi tra il 1685 e il 1689 fu costituito per lo più da reggimenti tedeschi presi in ‚affitto’ dai principi del Sacro Romano Impero — l’elettore di Sassonia, il duca di Brunswick-Lüneburg, il duca di Württemberg, il margravio del Brandeburgo, ecc. — e dalla Spagna); 3) un comando affidato ad esperti generali (il più bravo di tutti fu lo svedese Otto Wilhelm von Königsmarck, che comandò le truppe dal 1686 al 1688); 4) l’appoggio fattivo dei Greci delle isole Ionie e, soprattutto, della Morea (un ruolo importante lo ebbero gli abitanti della Maina, che insorsero contro il dominio ottomano).
La serie dei «gloriosi segnalati trionfi» (44) s’interruppe nel 1688, quando fallì l’assedio di Negroponte a causa della resistenza opposta dalle fortificazioni turche e di un’epidemia di peste, che decimò il campo veneziano (morì, tra gli altri, anche Königsmarck). Negli undici anni che dovevano separare questo episodio dalla conclusione della pace di Carlowitz, i Veneziani, che avevano speso troppo nella fase iniziale del conflitto, non riuscirono più a mettere in campo eserciti di una certa consistenza («noi siamo decaduti da ogni speranza della corrente campagna per l’intiera privazione d’ogni milizia», si scriveva ad esempio nel 1690) (45) e spesso dovettero far fronte ad ammutinamenti e a disordini provocati dai ritardi nella corresponsione delle paghe, furono comandati da capitani generali e da generali poco abili o sfortunati e persero l’appoggio di una parte dei Greci, mentre l’armata, anche perché il misoneismo del governo le impedì di riconoscere, come avevano fatto invece i Turchi, la primazia dell’armata ‚grossa’ su quella ‚sottile’, non riuscì a conservare la netta superiorità sulla flotta nemica esibita negli anni Cinquanta del Seicento.
Ma ciò che fece difetto in questi anni fu soprattutto la lucidità e la continuità strategica. Nel 1690 il capitano generale Girolamo Corner conquistò Valona in Albania, ma l’anno dopo il suo successore Domenico Mocenigo l’abbandonò. Nel 1692 Mocenigo pose l’assedio a La Canea, salvo toglierlo dopo quaranta giorni. L’anno seguente il doge Morosini fu eletto capitano generale per la quarta volta: tornò d’attualità l’obbiettivo Negroponte, ma prima la carenza di soldati e poi la morte di Morosini impedirono di tentare l’impresa. Nel 1694 il capitano generale Antonio Zen puntò invece, come era stato tentato negli anni Cinquanta del Seicento, al blocco della costa turca e s’impossessò di Scio, da cui tuttavia si ritirò precipitosamente dopo pochi mesi.
Nel bilancio di fine Seicento si deve anche porre l’avvio della trasformazione dell’esercito veneziano in un esercito permanente. Quando, nel luglio 1684, Morosini aveva deciso che «era opportuno di formarsi reggimenti ripartiti conforme le nationi di quelle truppe, ch’erano in compagnie sciolte» (46), non aveva fatto altro che rifarsi alla «politica militare molto utile, che si pratica giornalmente negli eserciti di tutti i principi di Europa», una prassi consigliata a Candia agli inizi della guerra da Camillo Gonzaga (47) e adottata senza dubbio in quegli anni in Dalmazia (48). Tuttavia il primo reggimento permanente dell’esercito veneziano va considerato il Veneto Real, «composto delle compagnie ammassate dalle città della Terra Ferma» e inviate in Morea nel 1687 (49), il reggimento al quale sarà assegnato il numero uno quando, nel tardo Settecento, quelli di fanteria italiana ricevettero una numerazione progressiva.
Non so se la costituzione del Veneto Real attestasse anche una certa inclinazione della Repubblica a favore di un esercito ’nazionale’: in ogni caso tale propensione fu notevolmente accentuata dalla crisi finanziaria degli anni Novanta. Fu sotto il capitanato generale di Alessandro Molin (1695-1697) che furono presi i provvedimenti organici più importanti, dall’irreggimentazione delle compagnie sciolte (ma il decreto del senato trovò un’applicazione soltanto parziale: un piedilista del 1701 relativo alla Terraferma elencava, accanto a tredici reggimenti di fanteria per un totale di cinquemilaseicentotrentasei uomini, ben centotrentacinque compagnie sciolte per un totale di cinquemilanovecentocinquantacinque uomini) (50) al varo di una normativa sulle ‚ottazioni’ (promozioni degli ufficiali). Che, in ogni caso, l’adeguamento delle forze armate veneziane ai parametri europei procedesse a scartamento ridotto, lo indicano i dati relativi alle truppe in Morea all’indomani della pace: venti reggimenti, ciascuno dei quali contava, in media, appena cinquecentotrenta uomini e quindi un rapporto tra gli ufficiali e la bassa forza di uno a diciassette, quando quello standard europeo era di uno a ventiquattro (51). Generale da sbarco di Molin fu il conte padovano Antonio Zacco e altri nobili della Terraferma — tra i quali Tornio Pompei, colonnello del Veneto Real (52) — raggiunsero posizioni di primo piano nello stato generale dell’esercito: quando, nel 1693, il doge Morosini volle che il collegio eleggesse quattro sergenti generali di battaglia (una sorta di generali di divisione), la scelta cadde su due veronesi, un trevigiano e un vicentino (53).
Anche se proprio nei primi anni del Settecento s’infittirono le riforme tendenti a dare alle truppe della Repubblica un assetto in linea con quello dei più solidi eserciti del continente, queste misure non furono affatto sufficienti, in assenza di una direzione politica in grado di far fronte al terremoto europeo provocato dal nuovo asse Parigi-Madrid, ad assicurare la difesa del territorio veneziano dalle «emule potenze concorse a disputarsi in questa provincia una parte preziosa della monarchia spagnola» (54). Il «grande e necessario impegno di preservare dalli pericoli una porzione di Stato così lontana, una recente et importante conquista, un vasto Regno», la Morea(55), immobilizzava in Levante notevoli risorse militari. La coperta era troppo corta: «le pubbliche forze» non erano «robuste [...] a segno» di preservare la Terraferma dall’occupazione delle potenze belligeranti (56).
Come sottolineava nel 1707 il sergente maggiore di battaglia Antonio Giansix, «quindeci o sedici milla huomini che potessimo unire ad uno de partiti non potrebbero per questo far sperare al Stato un pronto intiero sollievo », dal momento che non spostavano di molto i rapporti di forza sul terreno e non erano soprattutto sufficienti ad arrestare il nemico alle frontiere. «Quando si voglia far riflesso ai danni, ai dispendii, a quali incomparabilmente havrebbe dovuto soccombere il Stato in guerra nel necessario mantenimento de nostri, degl’amici e forse anco de’ nemici», la neutralità armata appariva, anche sotto il profilo strettamente militare, «proficua, benché incommoda». Bisognava «tolerar qualche cosa, purché si conservi il Stato, ch’è l’oggetto della sovranità»: ma era anche vero che «una neutralità intieramente tolerante» rischiava di svuotare la sovranità (57), che — come aveva scritto al senato il provveditore generale in Terraferma Alessandro Molin — se non si trovava un limite, «vi sarà il solo nome della neutralità,restando lo Stato soggetto a tutti gl’incommodi» di un’occupazione straniera (58), con tutti i connessi «danni della guerra» («devastati li territori», ecc.), «insulti allo Stato» e alla «pubblica dignità» e «pericoli ai sudditi», di cui si rischiava di «perder l’affetto» (59).
Senza dubbio il senato aveva fatto male i suoi conti, quando aveva concesso ai belligeranti la facoltà di far passare le loro truppe attraverso il territorio della Repubblica, pur non essendo in grado né di mettere in campagna un esercito per «sostenere la neutralità con la forza» (i soldati veneziani di stanza in Terraferma appena bastavano «alla semplice custodia delle piazze»), né di fare assegnamento sulle stesse fortezze (secondo Molin, nessuna di esse era «in istato da sostenere assedi formali»). Così la Terraferma era diventata fin dal 1701 terreno di scontro tra gli Imperiali e i Franco-Spagnoli, un’occupazione protrattasi, con fasi alterne, fino al 1706, non tanto perché in quell’anno finalmente i Veneziani avevano messo in campagna un corpo di truppe per coprire la linea dell’Adige, quanto perché la guerra si era allontanata dalla pianura padana. Fino ad allora «la sola massima» era stata quella di «guardar le piazze» (60): nella stagione paradossale della neutralità armata non erano state le fortezze a garantire la Repubblica, ma era stata la Repubblica che aveva investito le sue scarse risorse nella conservazione delle fortezze, di uno scheletro di sovranità.
Negli anni, dal 1700 al 1705, in cui fu provveditore generale in Terraferma, Molin riprese con maggiore incisività la politica delle riforme, che aveva avviato da capitano generale da mar. Facendo tesoro delle esperienze più innovative emerse nel corso delle campagne in Levante (nel 1686 Königsmarck aveva ad esempio introdotto l’uso dei cavalli di Frisia) (61) e riprendendo alcune proposte avanzate dalla più recente letteratura militare, il patrizio, che merita di essere riconosciuto quale padre dell’esercito permanente veneziano, cercò di introdurre «una buona uniforme disciplina» (62) in materia regolamentare e, quanto alla tattica, quell’«uso moderno» — vale a dire la sostituzione di una fanteria di picchieri e di moschettieri con una formata da granatieri, che armavano i cavalli di Frisia, e da soldati con fucili e baionetta — che a Venezia aveva trovato per tempo dei mallevadori in Doroteo Alimari e Michiel Angelo Mainenti (63).
L’autore che Molin tenne più presente fu comunque il prolifico tenente colonnello Antonio Sala: nel 1701, quando emanò dei Capitoli et ordini militari affinché fossero «con giusto methodo universale pratticate l’incombenze de gl’Uffitiali nelle guarniggioni» (64), il provveditore generale si rifece a Il sargente maggiore di Sala (un’opera del 1697 per un certo verso completata tra il 1701 e il 1705 da Il governatore dell’arme e da Le pontuali incombenze del capitano e subalterni), mentre 1’Esercitio militare d’un battaglione armato di cavalli di Frisia a regola uniforme dell’infanteria della Serenissima Repubblica di Venetia del 1703, un’opera redatta «coll’intervento degl’officiali generali et officiali maggiori de reggimenti», ricavò qualche spunto anche da La pratica in teorica del soldato instruito in terra data alle stampe dal tenente colonnello nel 1697 (65). Molin intervenne anche, questa volta con maggior successo, per reggimentare le compagnie sciolte e quindi «da[re] luogo all’avanzamento de gl’offiziali per li gradi et honori militari» (66).
Il successore di Molin nella carica di provveditore generale, Daniel IV Girolamo Dolfin, seguì le sue orme. Nel 1706 promulgò degli Ordini [...] circa l’ottatione nella vacanza delle cariche militari di qualsivoglia natura (67) e l’anno seguente un Esercitio militare a’ regola universale della cavalleria e dragoni della Serenissima Repubblica di Venetia «proposto» dal generale in capo Adam Heinrich von Steinau (68). Dolfin e Steinau promossero anche due «regolazioni delle milizie» nel 1706 e nel 1710, che diedero un assetto più razionale ad un esercito oramai a tutti gli effetti considerato «come se fosse un corpo solo, salvo le qualità delle nationi» («nationi» che tra l’altro stavano rapidamente riducendosi a due, entrambe composte in prevalenza da sudditi, l’italiana e l’oltremarina, vale a dire, in questo caso, la dalmata). Inoltre fu completata la fusione tra i «condotti e stipendiati» (l’organico dei governatori delle piazze, ecc.) e la gerarchia dell’esercito permanente (69).
Nell’ultimo scorcio del 1714, quando il Sultano dichiarò guerra a Venezia, quest’ultima poteva schierare un esercito, quanto ai numeri, di tutto rispetto, ma anche pericolosamente sbilanciato a danno della Morea e delle vicine isole di Cerigo e di Egina. Quasi la metà degli oltre ventiduemila uomini era concentrata in Terraferma e nell’Istria, mentre la Morea era presidiata da cinquecentomilaseicento soldati (70). Anche l’armata in Levante — undici galere e otto navi — non rappresentava certo un efficace deterrente. Venezia aveva investito molto nelle piazze del Regno, ma, come ammetteva il capitano generale Daniel Dolfin, erano «tutte principiate e niuna terminata», anche se alcune erano «fortificate gagliardamente dalla natura» e altre non erano lontane dalla «perfezione» (71).
La Repubblica non approfittò dell’intervallo tra la dichiarazione di guerra e l’attacco turco (giugno 1715) per consolidare le precarie difese della Morea: «lorsque le grand Visir commenna à se mettre en mouvement, on se trouva surpris et sans etre suffisament armé sur mer et sur terre». A Venezia avevano «l’esprit trop enbaumé encore par les avantages qu’on avoit eu cy devant dans les combats sur mer» (ma, mentre i Turchi avevano notevolmente rafforzato la loro armata ‚grossa’, in quindici anni di pace la Repubblica non aveva varato che quattro navi di primo rango), così come volevano «conserver tout ce qu’on avoit en terre» (72) e quindi, invece di concentrare le truppe in poche fortezze, avevano continuato a tenerle distribuite in una decina di piazze.
Questi errori strategici, amplificati dalle carenze dei vertici politico-militari (dettero pessima prova non pochi rettori veneziani, mentre non brillarono affatto i generali — per lo più troppo anziani — alla testa delle truppe), furono duramente pagati. Nell’arco di pochi mesi le fortezze della Morea caddero tutte, una dopo l’altra, nelle mani dei Turchi — talvolta senza opporre alcuna resistenza (ad esempio Malvasia, che si arrese «vilissimamente e senza ne meno scaricar un fucile») (73), talaltra, e fu soprattutto il caso di Nauplia, perché il presidio non era «bastevole a difendere in un tempo quelle grandi e numerose fortificazioni» (74) — senza che la debole e mal diretta armata veneziana andasse loro in soccorso; da parte sua la flotta ottomana conquistò i superstiti avamposti del Dominio da mar, da Tine (Tino) a Cerigo, da Egina a Suda e a Spinalonga.
«Comme toutes les choses necessaires tant pour l’armée de terre que pour celle de mer, s’étoient perdues en grande partie dans le Royaume de Morée», Venezia reagì alla débdcle con difficoltà e lentezza. Per di più «les places du Levant, à cause du Royaume qui les couvroit, avoient été intièrement negligées»; mancavano «des personnes d’experiences comme aussi des officiers d’artillerie, des ingenieurs et des mineurs», carenze tecnico-professionali, che sottolineavano i limiti strutturali dell’esercito veneziano; l’artiglieria era sì numerosa (Corfù era la piazza dello Stato veneto con il maggior numero di pezzi, più di trecento), ma non era «en bon état de service» (75). In particolare, la fortezza di Corfù, l’obbiettivo principale dell’offensiva turca del 1716, era «nello stato più infelice che possa dirsi», in quanto «sprovvista d’ogni suo bisogno di gente, di viveri, di monizioni, d’attrezzi e di coraggio», «non aveva parapetti di sorte» e «l’opere esteriori ed interne» erano «imperfettissime» (76).
Nonostante che l’armata non riuscisse ad impedire lo sbarco di quarantamila Turchi a Corfù e contribuisse ben poco alla difesa della piazza, nonostante che la guarnigione non superasse i tremila uomini, un terzo dei quali ammalati, la fortezza resistette all’assedio (luglio-agosto 1716) grazie sia ad un concorso di circostanze fortunate (la grande vittoria riportata dagli Austriaci sugli Ottomani a Petervaradino e una tempesta torrenziale, che devastò in un momento critico il campo turco), sia, soprattutto, all’energica e avveduta direzione del generale in capo assunto dalla Repubblica su consiglio di Eugenio di Savoia, il feldmaresciallo tedesco Matthias Johann von der Schulenburg (77). La precipitosa ritirata dei Turchi non fu sfruttata dai Veneziani: l’armata rimase all’àncora un mese ulteriore nelle acque delle Ionie e, quando si mosse, lo fece per cooperare alla riconquista di Santa Maura, una strategia di basso profilo approvata anche da Schulenburg, che non voleva macchiare con un rovescio la gloria della difesa di Corfù.
Nei due anni seguenti un esercito veneziano notevolmente rafforzato dall’immissione di numerosi reggimenti tedeschi, svizzeri e italiani esteri fu all’offensiva in Dalmazia, dove fu conquistata Imoschi, in Grecia, dove Schulenburg s’impadronì di Prevesa e Vonizza, e in Albania, dove l’assedio di Durazzo fu interrotto dalla conclusione della pace di Passarowitz: i risultati non poterono che essere modesti a causa delle poche truppe di campagna messe a disposizione dei generali (il grosso fu destinato all’armata e ai presidi) e della mancanza di un piano di operazioni coordinato. Quanto all’armata, s’impegnò soprattutto nell’Egeo con esiti poco soddisfacenti, anche a causa della fedeltà ad una tattica arcaica, che continuava a privilegiare l’armata ‚sottile’ e tendeva a schierarla in battaglia insieme a quella ‚grossa’ non tenendo conto della difficoltà di un coordinamento tra flotte dotate, tra l’altro, di una potenza di fuoco ormai assai diversa (nel 1718 vi erano a bordo di ventidue navi milleseicentotrentanove pezzi, mentre le diciassette galere e galeazze erano munite di trecentottantadue pezzi, in maggioranza mortai) (78) e della crescente disaffezione del patriziato nei confronti della professione del mare. Il fenomeno era apparso evidente fin dagli anni Novanta del Seicento: nel 1717 l’armata ‚grossa’ combatté con soltanto la metà delle navi comandate da patrizi (79). Il «nostro Imperio del mare» tramontava anche a causa del silenzioso ripudio, da parte di un patriziato sempre più ‚da terra’, della bellicosa ideologia ‚da mar’ professata dalla città-stato.
1. Giacomo Nani, Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia per l’anno 1756, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 914, cc. n.n.
2. Vendramin Bianchi, Istorica relazione della pace di Posaroniz, Padova 1719, p. 4.
3. Ekkehard Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi. Bufera nel Sud-Est europeo 1645-1700, Milano 1991, pp. 154-155 e 454.
4. Andrea Valier, Historia della Guerra di Candia, Venezia 1679, p. 444.
5. Girolamo Brusoni, Delle historie memorabili, contiene le guerre d’Italia de’ nostri tempi, Venetia 1656, p. 266.
6. A. Valier, Historia, pp. 449-450.
7. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, p. 155.
8. Nicola Beregan, Historia delle Guerre d’Europa dalla
comparsa dell’armi Ottomane nell’Hungheria l’anno 1683, I-II, Venetia 1698: I, p. 130.
9. Esame istorico politico di cento soggetti della Serenissima Repubblica di Venezia, in Padova, Biblioteca Cinica, C.M. 84, cc. 19-27 e 71-98.
10. Michiel Foscarini, Istoria della Repubblica Veneta, in Degl’istorici delle cose veneziane, i quali hanno scritto per pubblico decreto, X, Venezia 1722, p. 128.
11. Esame istorico politico, cc. 27, 78, 93 e 96.
12. Trattato della Repubblica Veneta edito quale Relazione dell’anonimo da Pompeo G. Molmenti, Curiosità di storia veneziana, Bologna 1919, pp. 367, 369 e 424.
13. Ad esempio, le spese totali sopportate da Venezia nel corso della guerra di Candia sono state valutate, credo troppo generosamente, in centocinquanta milioni di ducati d’oro (cf. Amy A. Bernardy, Venezia e il Turco nella seconda metà del secolo XVII, Firenze 1902, p. 68 n. 2), mentre quelle sostenute durante la seconda guerra di Morea ammontarono, a quanto pare, a diciotto milioni di ducati d’argento (cf. Girolamo Ferrari, Delle notizie storiche della lega tra l’imperatore Carlo VI, e la repubblica di Venezia contra il Gran Sultano Acmet III e de’ loro fatti d’anni dall’anno 1714 sino alla pace di Passarowitz, Venezia 1723, p. 93).
14. Piero Garzoni, Diario del Senato, in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, cl. IV. 168 (= 424), c. 17v (alle date 21 e 23 settembre 1693).
15. Cf. i nomi riportati da Kenneti- M. Setton, Venice, Austria, and the Turks in the Seventeenth Century, Philadelphia (Penn.) 1991, p. 138 n. 3.
16. Cf. gli elenchi dei ‚venturieri’ in N. Beregan, Historia, I, pp. 134 e 138.
17. M. De La Haye, La politique civile et militaire des Vénitiens, Cologne 1669, p. 80.
18. Trattato della Repubblica Veneta, p. 428. Cf. Amelio Tagliaferri, Struttura delle fortezze e delle milizie venete nel quadro dell’organizzazione militare di terraferma, in Tito Miotti, Castelli del Friuli, V, Storia ed evoluzione dell’arte delle fortificazioni in Friuli, Udine 1981, pp. 239-272, e Luciano Pezzolo, L’archibugio e l’aratro. Considerazioni e problemi per una storia delle milizie rurali venete nei secoli XVI e XVII, «Studi Veneziani», n. ser., 7, 1983, pp. 59-80.
19. Annibale Porroni, Trattato universale militar moderno, Venetia 1676, p. 76.
20. A.S.V., Provveditori alle artiglierie, b. 48, fasc. 2.
21. Copia del decreto del 19 marzo 1710 in Raccolta di cerimoniali e disposizioni militari fatte in Terraferma nella neutralità del 1700, in Venezia, Museo Correr, ms. P.D. 67b, cc. 109v-112.
22. A.S.V., Provveditori alle artiglierie, b. 48, fasc. 4.
23. M. de la Haye, La politique civile et militaire, pp. 72-73, 117, 141 e 148.
24. Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo-Dolfin 71, cc. 667 e 803.
25. Sertonaco Anticano [Antonio Santacroce], Frammenti storici della guerra in Dalmatia, Venetia 1649, p. 237.
26. Battista Nani, Istoria della Repubblica Veneta, in Degl’istorici delle cose veneziane, i quali hanno scritto per pubblico decreto, VIII, Venezia 1720, pp. 677, 695 e 698.
27. G. Brusoni, Delle historie memorabili, p. 256.
28. Francesco Marzioli, Precetti militari, Bologna 16732, p. 125.
29. Cf. Wilhelm Bigge, La guerra di Candia negli anni 1667-69, Torino 1901, pp. 55-56. Cf. AA.VV., Venezia e la difesa del Levante da Lepanto a Candia 1570-1670, Venezia 1986, per una bibliografia più aggiornata.
30. Le azioni di Francesco Morosini Principe di Venezia, parte prima, in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, cl. IV. 97 (5779), c. 79. Queste cifre sono riproposte anche da Giovanni Graziani, Francisci Mauroceni Peloponnesiaci Venetiarum Principis gesta, Patavii 1698, p. 119.
31. Cf. Joseph Ducros, Histoire des voyages de monsieur le marquis Ville en Levant, et du siège de Candie, Lyon 1669.
32. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, pp. 87 e 94.
33. [A. Santacroce], Frammenti storici della guerra in Dalmatia, p. 178.
34. M. de la Haye, La politique civile et militaire, p. 103.
35. A. Valier, Historia, p. 21.
36. E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, p. 94.
37. A. Valier, Historia, pp. 47-48.
38. Mario Nani Mocenigo, Storia della marina militare veneziana da Lepanto alla caduta della Repubblica, Roma 1935, pp. 131-311.
39. Roger C. Anderson, Naval Wars in the Levant (1559-1853), Princeton (N. J.) 1952, pp. 121-236.
40. [Jacopo Sanvitale], Scelta di azioni egregie operate in guerra da generali e da soldati italiani nel secolo ultimamente trascorso decimo settimo [...], Venezia 1742, p. 5.
41. M. de la Haye, La politique civile et militaire, p. 97.
42. Nato nel 1618, aveva percorso tutta la carriera nell’armata ‚sottile’, distinguendosi per determinazione e visione strategica: cf., in mancanza di meglio, Gino Damerini, Morosini, Milano 1929.
43. Giovanni Antonio Carrara Bora, Il Morosini, overo la Morea conquistata dall’anni della Serenissima Repubblica di Venezia condotte dall’Illustrissimo Eccellentissimo Cavalier Procurator etc. Francesco Morosini Capitano Generale e dopo Serenissimo Principe, Trevigi 1713, p. I.
44. Un’espressione tratta da una scrittura di Polo Nani del 1690 riportata da M. Nani Mocenigo, Storia della marina, p. 273 n. I.
45. Intorno a leve di soldati ed oziali della milizia, in Venezia, Museo Correr, ms. Donà dalle Rose 428, fasc. 15, cc. n.n.
46. Alessandro Locatelli, Racconto historico della Veneta guerra in Levante diretta dal valore del Serenissimo Principe Francesco Morosini [...], I-II, Colonia [Venezia] 1691: I, p. 27.
47. Sertonaco Anticano [Antonio Santacroce], Frammenti Historici della guerra di Candia, Bologna 1647, pp. 286-287.
48. Id., Frammenti storici della guerra in Dalmatia, p. 164.
49. A. Locatelli, Racconto historico, I, p. 319, e II, p. 52. Imprecise le notizie circa la nascita del Veneto Real e, più in generale, l’irregimentazione della fanteria veneziana offerte da Ennio Concina, Le trionfanti et invittissime armate venete. Le milizie della Serenissima dal XVI al XVIII secolo, Venezia 1972, pp. 11 e 27-28.
50. Cf. Francesco Paolo Favaloro, L’esercito veneziano del ’700. Ricerche e schizzi, Venezia 1995, p. 129.
51. Cf. Opinioni fondate sù l’esperienza, in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, cl. IV. 313 (=1112), c. 45v.
52. Cf. Francesco Vecchiato, Una signoria rurale nella Repubblica Veneta. I Pompei d’Illasi, Verona 1986, p. 112.
53. P. Garzoni, Diario del Senato, cc. 10v, 11v- 2 (28 marzo, 2 e 20 maggio 1693).
54. V. su ciò il savio alla scrittura Zuan Piero Pasqualigo il 15 gennaio 1702 m.v. [1703], in A.S.V., Savio alla scrittura, b. 3, c. 1v.
55. Scrittura del savio alla scrittura Francesco Gritti del 25 ottobre 1704, ibid., c. 6v.
56. Neutralità della Repubblica di Venezia all’epoca 1701 per la guerra in Italia per la successione al trono della Spagna, in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, cl. IV. 335
(5921), c. 6v.
57. Antonio Giansix, Scrittura circa le misure da prendersi e le disposizioni da farsi per la prossima campagna col riguardo della costituzione presente della Terra Ferma (14 febbraio 1706), ivi, cl. IV. 497 (=318), cc. 12-14v.
58. Dispaccio del 14 dicembre i 704 riassunto in Sommario di tutto ciò concerne l’uso da farsi de sudditi in Terra Ferma e la massima di poner truppe in campagna, in A.S.V., Savio alla scrittura, b. 3, c. 63.
59. Neutralità della Repubblica di Venezia, c. 3.
60. Sommario di tutto ciò concerne l’uso, cc. 41, 49v e 55 (dispacci del g aprile e del 12 dicembre 1701, del 24 luglio 1703 e del 9 agosto 1704).
61. N. Beregan, Historia, II, p. 81.
62. Terminazione del 10 agosto 1702 in Raccolta di cerimoniali, c. 36.
63. Cf. del primo le Instruttioni militari appropriate all’uso moderno di guerreggiare. Opera nuova utile e necessaria a professori dell’onorata disciplina della militia, Norimberga [Venezia] 1692, e del secondo gli Esercizii militari della fanteria secondo l’uso moderno dimostrati, Venetia 1694.
64. Antonio Sala, Capitoli et ordini militari, Verona s.a. [1701], p. 3.
65. Queste opere di Sala furono tutte pubblicate a Venezia da Girolamo Albrizzi; l’Esercitio militare fu stampato a Verona.
66. Cf. la terminazione citata sopra alla n. 62.
67. Carte militari, in A.S.V., Secreta, Archivio proprio G.M. Schulenburg, b. 40, cc. 207-212.
68. Verona 1707.
69. Cf. Raccolta di cerimoniali, cc. 107v-114 e le Carte Stenau 1706, in Venezia, Museo Correr, ms. Donà dalle Rose 426, fasc. 2.
70. Nel bilancio 1714. Foglio che dimostra il numero delle milizie che s’attrovavano nel Levante, Dalmazia e Terraferma, ivi, ms. Donà dalle Rose 425, fasc. 2, piedilista nr. 33. Una cifra ancora inferiore — meno di quattromila uomini per il Regno vero e proprio — in un inventario delle Milizie che esistevano di guarnigione nelli sotto espressi presidi del Regno di Morea et isole del Levante l’anno 1715 nella guerra, ivi, ms. P.D. 189c, cc. 157v-159. Stando, infine, ad un Armo delle Piazze del Regno di Morea, nei presidi non si trovavano che duemilacento uomini (cf. Libro di consulte e di conferenze tenute nel tempo dell’ultima guerra dall’anno 1715 sino al 1718, in A.S.V., Secreta, Archivio proprio G.M. Schulenburg, b. 33, c. 4).
71. Libro di consulte, cc. 16v-18 (consulta del 19 maggio 1715).
72. [Matthias Johann Von Der Schulenburg], Journal
de l’année 1716, pendant la quelle arriva le siège de Corfou et l’heureuse délivrance de cette piace, in A.S.V., Secreta,
Archivio proprio G.M. Schulenburg, b. 2, c. 1v.
73. Libro di consulte, c. 78 (consulta del 7 ottobre 1715).
74. G. Ferrari, Delle notizie storiche, p. 47.
75. [Matthias Johann Von Der Schulenburg], Reflexions sur ce qui concerne l’engagement de Son Eccellente le FeltMarechal au servite de la Serenissime Republique de Venise, in A.S.V., Secreta, Archivio proprio G.M. Schulenburg, b. 2, c. 71.
76. Demetrio Stratico, Relazione dell’assedio di Corfù successo l’anno 1716, in Venezia, Museo Correr, ms. P.D. 176b, cc. 1v-3.
77. Cf. il recente profilo di Hans Schmidt, Il salvatore di Corfù Matthias Johann von der Schulenburg (1661-1747). Una carriera militare europea al tempo dell’assolutismo, «Quaderni del Centro Tedesco di Studi Veneziani», 42, 1991.
78. A.S.V., Provveditori alle artiglierie, b. 48, fasc. 4.
79. Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, cl. IV. 250 (5666), c. 29.