La medicina medioevale e la scuola salernitana
La medicina medioevale eredita la tradizione dei testi ippocratici e galenici, che viene integrata dalla circolazione di ricettari redatti prevalentemente nell’ambito dei monasteri. L’incontro tra pensiero greco-islamico e religione cristiana fa sì che la malattia venga connotata con valori simbolici, in quanto l’infermità appare segno della giustizia divina e il farmaco rappresenta uno strumento che restituisce non solo l’integrità del corpo ma anche la sanità dell’anima.
In questa prospettiva, nell’alternarsi di epidemie – di peste, di vaiolo, di lebbra, di febbri malariche – vengono organizzati gli ospizi e le infermerie dei monasteri. Qui sono somministrati farmaci estratti dalle erbe coltivate negli orti monastici, seguendo gli insegnamenti tramandati dagli erbari.
Il sistema fisiopatologico prevalente è quello galenico, fondato sui quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), che in alcune fonti appaiono controllati dalle gerarchie angeliche, e sulla teoria dei quattro umori: sangue (caldo e umido), flegma (freddo e umido), bile (calda e secca), melancolia (fredda e secca). Dagli umori derivano i sistemi di armonie e disarmonie (le complessioni) che mantengono o alterano lo stato di salute. Le complessioni possono essere influenzate dai moti degli astri, secondo il sistema di pensiero che lega gli elementi ai moti celesti e il microcosmo (corpo umano) al macrocosmo: un sistema più volte raffigurato nella letteratura medica, ma anche in programmi iconografici come quello degli affreschi presenti nella cripta del Duomo di Anagni (secondo quarto del 13° sec.).
Pertanto, la terapia medica e farmacologica consisteva nell’intervenire per ripristinare, mediante l’alimentazione e le diete (nonché, eventualmente, i salassi), l’equilibrio di elementi, umori e complessioni alterato dalla malattia. Questa è l’impostazione di Cassiodoro (lat. Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator; 477/490 ca.-570/580 ca.) che, come ministro dell’imperatore Teodorico, nelle sue Variae (537) esalta la funzione dei medici di corte:
Certamente al medico esperto il pulsare delle vene segnala ciò di cui soffre la natura interna: anche le urine si offrono agli occhi, di modo che è più facile non ascoltare la voce di uno che grida, che cogliere affatto i sintomi di questo tipo (ed. a cura di M. Accurius, 1533, IX, 8).
Occorre rilevare che, di solito, le azioni diagnostiche e terapeutiche derivavano da un’attività di chiosa ai testi dei maestri del passato, e assai di rado presentavano riscontri con casi clinici.
Per lo stesso periodo, sembra che si possa attestare l’esistenza a Ravenna di una scuola di medicina, anch’essa imperniata soprattutto sul commento dei testi di autori antichi, in particolare il De sectis ad eos qui introdocuntur del medico greco Galeno (129/130 ca.-200/201 ca.), chiosato verso la fine del 6° sec. da Agnello Iatrosofista e dai suoi allievi.
Diverso è il caso degli erbari, cui fanno capo opere della scuola salernitana come l’Alphita e il Tractatus de herbis, secondo una tradizione scientifica che risale soprattutto al Πεϱὶ ὕλης ἰατϱικής (La materia medica) del greco Pedanio Dioscoride (o Dioscuride; 1° sec.). Quest’opera, la cui prima traduzione latina (con il titolo De materia medica) risale al 6° sec., è composta da cinque libri, in cui i medicinali sono così suddivisi: spezie, unguenti e oli (I libro), prodotti ricavati dagli animali, ortaggi, cereali e legumi (II), erbe e radici (II, III e IV), vini e minerali (V). Influssi della tradizione dioscoridea si ritrovano nei romanzi del ciclo arturiano (12°-14° sec.), ove, tra l’altro, Galvano dichiara di aver letto gli erbari antichi.
Nell’11° sec. venne effettuata, probabilmente sull’originale greco, una nuova traduzione latina, piena di aggiunte, che fu attribuita a Costantino Africano (o l’Africano; 1010/1015 ca.-1187 ca.). Questa versione sostituì la precedente ed ebbe una diffusione così vasta da diventare uno dei testi scientifici più popolari del Medioevo. La prima traduzione araba è opera di Ḥunain ibn Isḥāq (809-873), e fu poi migliorata dal medico ebreo spagnolo Abū Yūsuf Ḥasdāy ibn Šaprūṭ (905 ca.-975 ca.), con l’aiuto di un monaco greco di nome Nikolaos, sulla base di un manoscritto in greco inviato nel 945 da Costantinopoli a Cordova; in tale traduzione si tentò anche di individuare erbe in grado di surrogare quelle descritte da Dioscoride e non reperibili in Spagna. Questa versione araba non fu a sua volta tradotta in latino, ma venne conosciuta in Occidente per il tramite del medico siriaco Yūḥannā ibn Māsawayh (noto in Italia come Giovanni Mesue il Vecchio; 777 ca.-857 ca.) e del medico persiano Abū ‛Alī ibn Sīnā (noto in Occidente come Avicenna; 980 ca.-1037 ca.).
La circolazione degli erbari e la loro importanza per la medicina sono testimoniate anche nel De arte medendi di Cofone il Vecchio (medico della scuola salernitana, attivo tra il 1085 e il 1120), dove si legge che:
Quando vorrai confezionare un medicamento, dapprima considera se hai scelto le giuste qualità dell’erba, che non sia troppo vecchia, bada anche alle sue radici ed ai semi, che siano raccolti nel tempo giusto, conservati nei luoghi appropriati, essiccati adeguatamente (cit. in Collectio salernitana, 4° vol., 1856, p. 434).
Al testo di Dioscoride si lega il Liber de simplici medicina di Matteo Plateario (attivo intorno alla metà del 12° sec.), generalmente designato con il nome di Circa instans dalle prime parole del prologo, che descrive circa 500 piante; l’autore ne determina varie specie, identificandone alcune fino ad allora sconosciute e definendo per ognuna l’origine geografica, la denominazione greca e latina e, in alcuni casi, anche quella volgare.
In Occidente citano spesso il De materia medica molte delle maggiori enciclopedie della prima metà del 13° sec., come lo Speculum naturale del francese Vincent de Beauvais (parte di una più vasta opera intitolata Speculum quadruplex sive speculum maius o Bibliotheca mundi) e il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico. Lo stesso avviene con le farmacopee scritte tra la metà del 13° sec. e l’inizio del 14°, come il Synonima medicinae (noto anche come Clavis sanationis) di Simone da Genova, il Liber pandectarum medicinae (noto anche come Opus pandectarum medicinae o Pandectae medicinae) di Matteo Selvatico (o Silvatico) e il citato Alphita. A questi testi si accompagna anche il Sēfer ha-Mirqachot (Libro dei rimedi) di Šabbětay ben ’Avrāhām Donnolo (913 ca.-982 ca.), medico ebreo nato e cresciuto nella Puglia bizantina ma associato al mondo scientifico salernitano, che vi enumerò un centinaio di medicamenti di origine greco-romana.
La medicina medioevale italiana è legata alle opere del citato Costantino Africano. Questi, proveniente forse da una comunità cristiana di Cartagine, giunse a Salerno intorno al 1077, dopo aver viaggiato in molti Paesi, almeno secondo quanto afferma Pietro Diacono (monaco e bibliotecario a Montecassino dal 1110 al 1153) in una delle biografie del suo De viris illustribus Cassinensis. In seguito si stabilì nell’abbazia di Montecassino, dove fu, come a Salerno, tramite fondamentale per la diffusione della cultura scientifica greco-islamica. Al contrario, il magister Matteo Ferrarius afferma, in una glossa alle Diaetae universales, che Costantino era un mercante il quale, sbarcato a Salerno, si rese conto delle lacune della medicina italiana e pertanto decise di importare dall’Africa dei libri di medicina, una parte dei quali andò però perduta in un naufragio.
Sia Diacono sia Ferrarius, comunque, attribuiscono a Costantino la traduzione di numerose opere mediche scritte da autori di lingua araba vissuti nel 9° e 10° sec., tra le quali: il Kitāb al-Ḥāwī fī ’l-ṭibb (Libro comprensivo sulla medicina) dell’arabo Abū Bakr Muḥammad ibn Zakariyyā’ al-Rāzī (noto in Occidente come Rhazes; 864/865 ca.-925/935 ca.), pubblicato con il titolo di Continens o di Liber continens; il Kitāb zād al-musāfir wa-qūt al-ḥāḍir (Libro delle provviste del viaggiatore e dell’alimentazione del sedentario) del tunisino Abū Ǧa‛far Aḥmad ibn Ibrāhīm ibn abī Ḥālid al-Ǧazzār (898 ca.-979/980 ca.), pubblicato con il titolo di Viaticum; il Kitāb kāmil al-ṣinā‛a al-ṭibbiyya (Libro completo dell’arte medica, più noto come Kitāb al-malakī, Libro regio) del persiano ‛Alī ibn al-‛Abbās al-Maǧūsī (noto in Occidente come Haly Habbas; m. tra il 982 e il 994 ca.), pubblicato da Costantino a proprio nome con il titolo greco-latino di Pantegni.(Tutta l’arte).
Costantino appare un autore estremamente abile. Benché abbia evitato di tradurre i passi più complessi, il suo lavoro d’interpretazione riuscì a far accettare all’Occidente il pensiero classico rielaborato dalla filosofia islamica, nonché a trasmettere le opere composte nel 10° secolo in Nord Africa, e in particolar modo a Kairouan (arabo al-Qairawān).
Questo tipo di letteratura fu poi sviluppato alla corte dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen dal medico Adamo da Cremona (attivo intorno al 1227): ogni aspetto di quella cura corporis cui i medici medioevali dedicavano estrema attenzione vi venne esaminato minuziosamente. In effetti, nel 13° sec. già esisteva una diffusa consapevolezza del fatto che, per evitare il contagio, si dovesse garantire la purezza dell’acqua; ciò era stato già evidenziato da Avicenna nel suo Kitāb al-Qānūn fī ’l-ṭibb (Libro del canone di medicina, noto in Occidente come Canon medicinae o Liber canonis totius medicinae), in cui aveva invitato a bollire e a filtrare l’acqua attraverso un panno, oltre che a ‘correggerla’ con aceto o vino; consigli ripresi poi da Adamo da Cremona.
Le traduzioni costantiniane che maggiormente incisero sulla medicina europea furono senz’altro quelle delle opere ellenistiche tardo-alessandrine in precedenza tradotte in arabo, di cui l’Occidente aveva ricevuto solo una pallida eco attraverso le versioni dal greco al latino. Innanzitutto la Ysagoge Johannitii, prima traduzione attribuibile a Costantino e testo che servì a iniziare gli studenti in medicina fino alla fine del Medioevo; era una sintesi del Kitāb al-Masā’il fī ’l-ṭibb (Libro delle questioni di medicina) del medico siriano Abū Zayd Ḥunayn ibn Isḥāq al-Ibādī (808/809 ca.-873/877 ca.), che si diceva fosse a sua volta la traduzione di un testo scritto nel 7° sec. in greco da un altro medico siriano noto come Johannitius (Ioannizio).
La Pantegni, dal canto suo, divenne un punto di riferimento fondamentale, che solamente l’introduzione del citato Canon medicinae di Avicenna nella seconda metà del 13° sec. riuscì a eclissare. Essa rappresentò un manuale da cui attingere conoscenze fondamentali in tutti i campi, specialmente nell’anatomia, disciplina piuttosto trascurata nell’alto Medioevo, e insieme all’Ysagoge Johannitii entrò a far parte di quel corpus di testi noto come Articella che fu, a partire dal 12° sec., il fondamento dell’insegnamento della medicina in molte università medioevali. Il nucleo originario dell’Articella è costituito da sette trattati: la citata Ysagoge, tre opere di Ippocrate (Aphorismi, Prognostica, De regimine acutorum), il De urinis di Teofilo Protospatario (medico bizantino la cui vita viene variamente collocata tra il 6° e il 9° sec.), il De pulsibus di Filareto (medico di cui si ignora ogni dato biografico), l’Ars medica di Galeno (nota anche come Ars parva o Microtegni).
Questi testi furono oggetto nel corso del 12° sec. di diversi commenti, prima da parte di tre studiosi della scuola salernitana, Bartolomeo, Mauro e Ursone (noti come maestri salernitani), e in seguito da parte di Pietro Ispano (un autore la cui identità è incerta, e che alcuni identificano con il portoghese Pedro Julião, detto Pietro di Giuliano o Pietro Ispano, poi divenuto papa con il nome di Giovanni XXI; 1220 ca.-1277). In sostanza il canone dell’Articella, creatosi nell’Università di Parigi, a Salerno e nell’abbazia inglese di St. Albans, costituì il nucleo fondante di una formazione del medico prevalentemente orientata alla theoria e non alla practica.
Si è ritenuto in passato che l’opera di Costantino Africano avesse segnato la scuola medica salernitana nel suo periodo aureo e che ne avesse addirittura condizionato gli sviluppi. Certamente le traduzioni di Costantino provocarono un’importante evoluzione del pensiero medico dell’Occidente, anche se sfuggono i dettagli della diffusione iniziale delle sue opere, dato che, alla luce delle conoscenze attuali, un rapporto formale fra Costantino e la scuola salernitana è difficilmente sostenibile.
L’attività di Costantino è collegata a quella di un altro monaco, Alfano (1015/1020 ca.-1085), arcivescovo di Salerno dal 1058, che tradusse dal greco, con il titolo De natura hominis, il Πεϱὶ φύσεος ἀνϑϱώπου (La natura dell’uomo), un’opera del filosofo cristiano Nemesio (4°-5° sec.), vescovo di Emesia (Siria), ritradotta un secolo dopo, con lo stesso titolo, da Burgundione (o Burgundio) da Pisa (1110 ca.-1193). Ad Alfano sono anche attribuiti un De quattuor humoribus corporis humani e un De pulsibus. A lui Costantino dedicò una sua opera, il Liber de stomacho, mentre a Desiderio abate di Montecassino (poi papa Vittore III) fu dedicata la Pantegni.
Tutto questo avveniva in una Salerno connotata da una forte presenza ebraica e aperta ai contatti con il mondo arabo. Questo spiega il mito dei ‘quattro fondatori’ della scuola medica salernitana, un ebreo, un arabo, un greco e un latino: non si tratta di individui, bensì delle tradizioni culturali che concorsero alla formazione all’ars medica salernitana.
Tra il 1035 e il 1056 fu attivo a Salerno anche Garioponto (nome con cui è noto un monaco di origine longobarda che si chiamava forse Warimbod), il quale scrisse un Passionarius, seu practica morborum Galeni, Theodori Prisciani, Alexandri et Pauli, che, come indica il titolo, è un trattato sulle malattie derivato dalle opere di quattro autori (Galeno, il romano Teodoro Prisciano, del 5° sec., i bizantini Alessandro di Tralles, del 6° sec., e Paolo di Egina, del 7°), e un Liber dynamidios (o Dynamodorum libri duo), che deve molto a Galeno, sull’uso terapeutico delle erbe, un settore che rappresentò una delle specializzazioni della medicina salernitana.
Più che una vera schola, a Salerno si realizzò un centro dove la scienza medica costituiva parte rilevante del sistema di studi e di scambi, nonché di esegesi dei testi e di recepimento delle traduzioni, in grado di delineare una tipologia che divenne in seguito comune ai centri di Bologna, Padova e Parigi. In particolare, si può far risalire all’ambito ebraico il metodo di operare per quesiti, così come appare nelle Questiones salernitanae (cfr. The prose Salernitan questions, 1979). Questo metodo fu utilizzato anche da Adelardo (Aethelhard) di Bath (Adelardus Bathoniensis; 1070 ca.-1160 ca.), studioso inglese che visitò Salerno e scrisse Quaestiones naturales, esposizione sistematica della filosofia islamica. Il metodo fu poi ripreso da Federico II nei quesiti inviati nel 1240 a ibn Sab‛īn (nome con cui è noto il filosofo islamico spagnolo al-Makkī al-Mursī Quṭb al-Dīn Abū Muḥammad ‛Abd al-Ḥaqq ibn Ibrāhīm ibn Muḥammad ibn Naṣr; 1216/ 1217 ca.-1270/1271 ca.) e nei dialoghi intrecciati con Ya‛aqōv ’Anaṭôlî (noto in Italia come Jacob Anatoli; 1194 ca.-1256 ca.), un ebreo provenzale che dal 1231 fu a Napoli come medico della corte imperiale.
Sembrerebbe dunque che possa avere una sua validità l’ipotesi di una dipendenza dei maestri salernitani dai centri della rinascita del 12° sec. che si erano formati in Inghilterra e in Francia. In particolare, i citati Bartolomeo, Mauro e Ursone potrebbero essersi ispirati alla scuola parigina di Petit Pont (così chiamata perché situata nei pressi di questo ponte), in cui era presente una sezione dedicata alla medicina. Vari indizi sembrerebbero confermarlo: nel suo commento all’Ars medica di Galeno, Ursone ricorda il magistrum meum Adam, che può essere identificato nel sacerdote e filosofo inglese Adamo di Balsham, più noto come Adamo di Petit Pont (Adamus Parvipontanus; m. nel 1181) perché insegnante in quella scuola. L’ipotesi trova un suo riscontro nel fatto che un altro inglese, Giovanni di Salisbury (Iohannes Saresberiensis; 1110/1120 ca.-1180 ca.), tenace oppositore della dialettica dei ‘parvipontani’, aveva definito i salernitani pessimi filosofi. Un’utile informazione ci è fornita da Alexander Neckam (o Nequam, noto anche come Alexander de Sancto Albano; 1157-1217), che nel suo soggiorno parigino – tra il 1175 e il 1182 – era stato alla scuola dei parvipontani: nel Sacerdos ad altare egli, ricordando il proprio corso di studi in medicina, elenca esattamente quei testi che poi verranno identificati con il nome di Articella. Il fatto diventa ancor più rilevante se si considera che, in assoluto, questa di Neckam è la prima e unica testimonianza di un curriculum analogo a quello usato dai commentatori salernitani.
Per avere altre indicazioni così esplicite bisognerà attendere la scuola bolognese di Taddeo Alderotti della fine del 13° secolo. Inoltre, da questi dati vediamo come nella tradizione dei commentaria che va da Galeno sino ad Alfano e a Costantino Africano sia assente il metodo d’introduzione alle artes: in questo caso, la non utilizzazione della versio Burgundionis del De natura hominis di Nemesio fa pensare che l’adozione degli accessus ad auctores sia avvenuta prima dell’incontro del traduttore pisano con i maestri salernitani.
La medicina medioevale europea, e in particolare quella salernitana, era incentrata sulla lettura del testo medico-scientifico e su una serie di glosse agli enunciati contenuti nell’opera stessa. Inizialmente fu Galeno a sostenere che l’esegesi rendeva certe quelle notizie che nei libri apparivano incerte. Fu nell’ambito alessandrino (6° sec.) che si sviluppò una vera e propria tecnica di analisi del testo filosofico e scientifico volta a chiarire con metodo ciò che non era chiaro nel testo; pertanto il sistema era organizzato da una serie di domande che spiegavano al lettore: quale fosse l’intenzione dell’autore, l’utilità dell’opera, a quale parte della scienza essa appartenesse, il titolo di questa disciplina, l’ordine di lettura da adottarsi, le partizioni del trattato. Poiché i maestri salernitani adottarono con rigore questa tecnica, bisogna pensare che abbiano conosciuto i testi della scuola alessandrina attingendo a una circolazione libraria diversa da quella da cui proveniva il testo tradotto da Burgundione. Non c’è dubbio che questo sia stato possibile: infatti, i medici salernitani potrebbero essere stati legati alla tradizione testimoniata dal manoscritto Ambrosiano G. 108 inf. e dal manoscritto Vaticano greco 300, che contengono il commentario al libro VI delle Epidemie di Ippocrate attribuito al medico bizantino Giovanni di Alessandria (attivo tra il 600 e il 642).
L’origine dell’utilizzazione degli accessus ad auctores risale al commento alla Isagoge del filosofo ellenistico Porfirio (234 ca.-inizio del 4° sec.), scritto dal filosofo latino Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (480 ca.-524/526 ca.), cui si aggiunsero – sin dal 9° sec. – il commento del grammatico latino Servio (4°-5° sec.) alle opere di Virgilio e il De inventione di Cicerone. Già nell’11° sec. Anselmo d’Aosta (1003/1034 ca.-1109), priore del monastero di Bec in Normandia, chiedeva che venisse approntata una glossa alla serie di indicazioni terapeutiche nota come Aforismi (una raccolta di circa 400 brevi sentenze di medicina generale, tradizionalmente attribuita a Ippocrate). In seguito – con la diffusione, a partire dal 12° sec., del corpus di opere chiamato Aristotele latino, ovvero le versioni in latino delle opere del filosofo greco – nelle formule che si fondavano sul quae consideranda sunt, nell’introdurre un libro o un campo di studi furono inserite le quattro cause aristoteliche: formale, efficiente, materiale e finale.
È pertanto evidente la complessità di un’indagine che voglia ricondurre a un unico centro la diffusione del sistema degli accessus; tuttavia, l’ipotesi – avanzata da Richard W. Hunt (1948) – di un’origine ‘francese’ degli accessus, resta la più valida; questa ipotesi si concilia anche con la tesi di una dipendenza parigina dei maestri salernitani. Se vi fu una schola, all’interno di questa non solo dovevano essere comuni i metodi di ricerca e di commento (accessus), ma doveva anche esserci, oltre a un canone di testi da glossare (Articella), una produzione libraria tale da fornire manoscritti in cui si potevano leggere tutte quelle opere che costituivano il fondamento culturale della schola. Per es., un manoscritto che contenesse Marziano Capella (5° sec.), Calcidio (4° sec.), Aristotele, Galeno e il commento di Bartolomeo a Ioannizio, e che si possa far risalire ai secc. 12°-13°, potrebbe costituire un’ottima traccia dell’esistenza di una schola già così affermata da incidere sulla produzione libraria o averne addirittura una propria. E di tali manoscritti esistono almeno tre esempi estremamente significativi.
Il manoscritto di Parigi (Bibliothèque nationale, Par. lat. 14700) del 13° sec., proveniente dall’abbazia parigina di St.-Victor, comprende autori come Adamo di Petit Pont, Aristotele, Algazel (il filosofo e mistico persiano Abū Ḥāmid Muḥammad ibn Muḥammad al-Ṭūsī al-Ghazzālī; 1058 ca.-1111 ca.), Adelardo di Bath, Galeno e il medico inglese Alfredo di Sareshel (Alfredus Anglicus; 12°-13° sec.), ovvero gli autori di testi che circolavano in ambienti vicini alla schola salernitana. Occorre dunque chiedersi se è possibile rintracciare un canone di testi, non limitato alla medicina ippocratico-galenica, ma che possa offrire il quadro del curriculum che veniva intrapreso da chi volesse studiare filosofia naturale.
Il manoscritto di Oxford (Bodleian library, Laud. lat. 67) del 12° sec., proveniente dall’abbazia di St. Albans, sembra offrire una risposta. In questo caso sono presenti il De temperamentis di Galeno (Πεϱὶ κϱάσεον, tradotto anche con il titolo De complexionibus), un commento agli Elenchi sofistici di Aristotele, una Glossa super introductionem Porphyrii del benedettino tedesco Rabano Mauro (784 ca.-856), un frammento del commento a Prisciano scritto dal filosofo francese Guglielmo di Conches (1080 ca.-dopo il 1154). Dunque qui ci sono sia la medicina galenica sia la dialettica fondata sugli accessus, che Hunt ricollega a centri francesi come Chartres.
Il manoscritto di Oxford (Bodleian library, Selden, sup. 24) del 12° sec., anch’esso proveniente da St. Albans, si presenta come uno dei più importanti nella ricerca di un canone di filosofia naturale. Questo codice contiene opere di Aristotele quali la Metaphysica vetus (nome dato tradizionalmente a una delle prime traduzioni dal greco al latino della Metafisica, risalente forse all’inizio del 13° sec.), l’Ethica Nicomachea, il De generatione et corruptione, i Meteorologici, opere che testimoniano l’ingresso dell’Aristotele latino nelle correnti filosofiche del 12° sec. e che cambiarono le metodologie dello studio teorico della medicina. Il manoscritto presenta le glosse di Alfredo di Sareshel, medico in contatto con Salerno, la cui organizzazione sembra essere un antedecente di quello stile che si può riscontrare nelle glossule dei salernitani. Inoltre è proprio da questa translatio vetus del De generatione che Bartolomeo, Mauro e Ursone trassero le loro citazioni.
Esistono elementi sufficienti perché all’idea di Minio Paluello, il quale riteneva che centro di diffusione delle traduzioni dell’Aristotele latino fosse la Normandia o l’Inghilterra (cfr. Iacobus Venticus Graecus, canonist and traslator of Aristotle, «Traditio», 1952, 8, pp. 265-304), si possa affiancare la tesi di Hunt su un’origine francese degli accessus ad auctores, per poi verificare se da questi ambienti siano partiti Bartolomeo, Mauro e Ursone alla ricerca di nuovi testi. I legami con il monastero di Montecassino e i continui riferimenti all’esegesi biblica permettono di dire che a Salerno la lettura della tradizione ippocratico-galenica era accompagnata da un notevole influsso del pensiero cristiano, tanto che Bartolomeo osservò che Ippocrate si comportava come un buon cattolico. Non si può parlare quindi di ‘laicità’ della scuola salernitana. Del resto, anche all’interno della corte di Federico II s’intrecciarono indirizzi culturali diversi, come indica il caso di Michele Scoto (lo scozzese Michael Scot o Scott; 1175 ca.-1236 ca.), che accompagnava le sue interpretazioni e le sue letture di Aristotele con le letture dell’Antico Testamento e con l’idea di un mondo ove la salute dell’uomo è il risultato della lotta tra forze angeliche benigne e spinte diaboliche maligne.
A Salerno, pur prevalendo una spinta fortemente letteraria, non mancarono trattati dedicati all’intervento operativo. Fra questi si possono annoverare: il De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli (attivo nella seconda metà del 12° sec.), sui bagni termali di Pozzuoli (dei quali Federico II poté verificare l’efficacia terapeutica quando vi si recò, dopo l’epidemia successiva alla partenza della crociata del 1227); l’Epistola de conservanda sanitate, opera medica di Teodoro di Antiochia (1155/1158 ca.-1246) in cui si consigliano a Federico II precise regole alimentari; la Summa philosophiae di Guglielmo di Conches; il trattato in lingua d’oil Le régime du corps di Aldobrandino da Siena (m. nel 1287 ca.), al quale si attribuisce anche un De practica oculorum; l’Epistola magistri Petri Hyspani missa ad imperatorem Fridericum super regimen sanitatis, del citato Pietro Ispano; il ricettario di uno dei medici dell’imperatore, Bene da Firenze (dopo la metà del 12° sec.-1238/1242).
Ma fu solo dopo la diffusione del citato Canon medicinae di Avicenna tradotto da Gerardo da Cremona (1114-1187) che il pensiero medico-scientifico iniziò a sviluppare modelli teorici fondati su precise analisi diagnostiche. Di questo nuovo atteggiamento è un esempio la Summa medicinalis del medico francese Walter Agilon (Gualterus Agilon o Agulinus; attivo tra il 1220 e il 1260), nella quale si fornisce una spiegazione dei sintomi delle malattie nell’ambito di una vera e propria fisiologia umana.
Questi studi non si limitarono soltanto al corpo degli esseri umani; infatti, nel 13° sec. la medicina era ormai una scienza applicata anche agli animali. Così, intorno al 1250, Giordano Ruffo di Calabria (1200 ca.-1260 ca.), maniscalco maggiore di Federico II e poi di suo figlio Manfredi, scrisse, rielaborando fonti in lingua araba, un trattato d’ippiatria che nella tradizione manoscritta è stato tramandato con diversi titoli (Mariscalcia equorum; Liber de curis equorum; Cyrurgia equorum) e che fu in seguito commentato da Teodorico Borgognoni (1205-1298), vescovo di Cervia, nel suo trattato di veterinaria Mulomedicina ex dictis medicorum mulomedicorum sapientium. Inoltre, tra il 1258 e il 1266 Bartolomeo da Messina tradusse, su incarico del re di Sicilia Manfredi di Svevia, diversi trattati greci di ippiatria.
Il confronto tra le diverse chiose agli Aforismi basta a dare un’idea di quanto vasto fosse l’interscambio culturale e quanto diffuso l’intreccio disciplinare. Si trattò di un sistema in cui la produzione scientifica evidenziava una vasta quantità di prestiti e di scambi di informazioni. Significativo è il caso di Scoto, che nel De informacione medicorum (capitolo del Liber introductorius) invita a rendere liete le ore dell’infermo quasi con le stesse parole usate in un trattato dello studioso ebreo spagnolo Mōšeh ben Maymôn (noto in Occidente come Maimonide; 1135/1138-1204), l’autore del Dalālat al-ḥā’irīn (Guida dei perplessi):
Non bisogna mai trascurare di rafforzare le condizioni psichiche dell’ammalato avvalendosi di buoni profumi e di aromi quali il muschio, la rosa, il basilico e l’aloe […]. Al tempo stesso le forze vitali andranno sostenute avvalendosi di strumenti musicali, raccontando storie divertenti in modo da rilassare l’anima del paziente e rasserenarne il cuore; si dovranno comunque ricordare notizie che distraggano la sua mente e lo facciano ridere assieme ai suoi amici. Occorrerà scegliere le persone che lo assistono in modo che il malato sia contento e ben trattato. Tutto ciò è obbligatorio in ogni malattia. E se non è possibile l’intervento del medico occorrerà comunque organizzare questo trattamento (cit. in Maimonides medical writings, 4° vol., 1990, p. 47).
Maimonide, come anche Scoto, sottolineò la rilevanza della musica per distendere l’animo; in particolare sostenne che il sovrano prima di andare a dormire avrebbe dovuto ascoltare per un’ora il canto. L’Italia meridionale del 13° sec. risentì profondamente l’influsso della cultura maimonidea, come comprova l’attività dello studioso ebreo Mōšeh ben Šelōmōh (Mosè da Salerno; m. 1279) e del frate domenicano Nicola Paglia (più noto come Nicola da Giovinazzo; 1197-1256), i quali confrontarono le traduzioni in ebraico e in latino della Guida dei perplessi e le discussero con i domenicani di Napoli.
Anche su queste linee avvenne il processo che portò alle fondazioni e rifondazioni dello Studium di Napoli, istituito da Federico II nel 1224. Questa università si confrontò con la scuola salernitana e spesso fu in aperta rivalità con essa. Infatti, nella storia dell’università napoletana affiorano quei contrasti antichi che avevano portato l’inglese Gervasio di Tilbury (1152 ca.-1220 ca.) a osservare nei suoi Otia imperialia (1211) come nei bagni termali di Pozzuoli, costruiti con tanta cura (sì che ogni vasca era contrassegnata dal tipo di malattia che doveva curare) fossero arrivati con intenti distruttivi i rivali da Salerno. In quel tempo si era appunto verificato, scriveva Gervasio, che «apud Salernum studium physicorum vigere coepisset» (Otia imperialia, ed. S.E. Banks, J.W. Binns, 2002, p. 586), il che ci indica come agli inizi del Duecento non ci fosse più traccia o ricordo degli indirizzi di pensiero di Bartolomeo Salernitano o del ‘Magister Salernus’ (attivo tra il 1140 e il 1166). Pertanto, proseguiva Gervasio,
i Salernitani presi dall’invidia distrussero le indicazioni dei bagni termali temendo che la fama dell’efficacia dei bagni potesse diminuire o sottrarre il loro guadagno (p. 586).
Le Constitutiones Regni Siciliae promulgate da Federico II nel 1231 (note come Costituzioni melfitane) rappresentano l’unico atto che attesti l’esistenza di una vera e propria scuola salernitana. In realtà questo intervento legislativo era stato preceduto dall’atto di fondazione (1224) dello Studium di Napoli, nel quale si proibiva agli studenti in medicina di recarsi in altre università a eccezione di Salerno, deroga ribadita nel 1252 dal re di Sicilia Corrado IV.
La regolamentazione del curriculum degli studenti di medicina era basata sul principio della tutela dei cittadini dai danni che potevano essere causati dall’imperizia dei medici; di conseguenza, Federico II stabilì che l’esercizio della professione spettava solo a quanti avessero sostenuto un esame da parte dei maestri di Salerno, in presenza dell’imperatore o di un suo delegato. Il curriculum prescritto dalle Constitutiones (III, 45-47) prevedeva che si studiasse per tre anni la logica (scienza che si riteneva indispensabile premessa allo studio della medicina) e per cinque anni la medicina (comprendente anche la chirurgia), e che infine si effettuasse un anno di tirocinio sotto la guida di un abile medico o chirurgo (Morpurgo 1990, pp. 9-16).
Rimase comunque la distinzione tra medici dello Studium e medici di corte. Tra questi ultimi va ricordato Giovanni da Procida (1210 ca.-1298/1299), che si firmò come domini imperatoris medicus nel testamento di Federico II (1250) e fu forse medico anche di suo figlio Manfredi; tra le altre opere scrisse una Utilissima practica medica.
L’impianto complessivo delle Constitutiones era fortemente caratterizzato dalla necessità di garantire gli equilibri della natura e l’igiene; in particolare, una serie di norme stabiliva che l’aria e l’acqua non dovevano essere contaminate dalle attività produttive dell’uomo. Così nella Costituzione II, 49:
La salubrità dell’ambiente è un dono di Dio e a noi spetta conservarla secondo procedimenti precisi; si eviti di lasciar macerare il lino o la canapa all’aperto […]. E i corpi dei defunti siano sepolti ben profondamente (cit. in Il “Liber Augustalis” di Federico II di Svevia nella storiografia, 1987, p. 78).
Gli orientamenti maturati a Salerno e alla corte di Federico II erano prevalentemente incentrati sulla collezione di testi legata all’Articella. È pur vero che la Practica chirurgiae (1170 ca.) di Ruggero (o Rogerio, o Roggerio) Frugardo (o dei Frugardi, detto anche Ruggero di Salerno o Rogerius Salernitanus; attivo nella seconda metà del 12° sec.), prevalentemente dedicata al trattamento delle ferite, aveva introdotto la necessità di discutere sulla metodologia delle operazioni alla testa.
Questo consiglio fu ripreso nella Chirurgia (1250 ca.) di Rolando da Parma (detto de’ Capezzuti; attivo tra il 1210 e il 1250), in cui si descrivono anche gli strumenti operatori. Ma Gentile da Foligno (Fulgineus o Fulginas de Gentilibus; fine 13º sec.-1348), medico attivo a Perugia, Bologna e Padova (in quest’ultima città effettuò nel 1341 una dissezione anatomica), abbandonò l’indirizzo tracciato dai commentatori salernitani per sostenere un sistema fondato sull’avicennismo, cioè basato non più sulla descrizione delle malattie in quanto alterazione di umori, ma sull’analisi dell’anatomia umana, per poi passare alla fisiologia e quindi alla patologia e al trattamento delle malattie.
Di questo mutamento si trova riscontro nel curriculum del 1405 dell’Università di Bologna, nel quale lo studio della medicina teorica e pratica era incentrato sul Canon medicinae di Avicenna e su un’enciclopedia medica dell’arabo di Spagna Abū ’l-Walīd Muḥammad ibn Rušd (noto in Occidente come Averroè; 1126- 1198), il Kitāb al-Kulliyyāt fī ’l-ṭibb (Libro delle generalità della medicina), tradotto in latino, con il titolo di Colliget, dall’ebreo Jacob Bonacosa (attivo a Padova nella seconda metà del 13° sec.).
A Bologna furono attivi il citato Alderotti (1215/ 1223-1295), che scrisse numerosi Consilia in cui si descrivevano sintomi e cure di diverse infermità; suo allievo fu Mondino (o Raimondino) dei Liucci (o Liuzzi; 1270/1275 ca.-1326), autore di una Anothomia (1316) che serviva da guida alle dissezioni anatomiche. Per la parte relativa alle operazioni occorreva studiare il manuale di medicina del citato Rhazes, il Kitāb al-ṭibb al-Manṣūrī (Libro di medicina dedicato ad al-Manṣūr – il riferimento è a Manṣūr ibn Isḥāq, governatore della città natale di Rhazes, Rayy nell’odierno Oman), tradotto in latino, con il titolo Liber Almansoris, da Gherardo da Cremona, e soprattutto la Chirurgia magna (1252) di Bruno da Longoburgo (o Bruno di Calabria, attivo a Padova), testo che invitava ad apprendere la medicina praticandola e non solo studiando i testi della tradizione scolastica. A Padova operarono anche Iacopo (o Giacomo; 1293 ca.-1359) e Giovanni (1318/1330 ca.-1388/1389) Dondi dall’Orologio (o dell’Orologio), padre e figlio, entrambi medici, astronomi e matematici. Iacopo scrisse un dizionario delle sostanze naturali usate in medicina, l’Aggregator medicamentorum, seu de medicinis simplicibus, mentre Giovanni si occupò delle acque termali del Padovano e ne scrisse nel De fontibus calidis agri patavini.
Collectio salernitana, ossia documenti inediti e trattati di medicina appartenenti alla scuola medica salernitana, raccolti e illustrati da G.E.T. Henschel, C. Daremberg, S. De Renzi, a cura di S. De Renzi, 5 voll., Napoli 1852-1859 (rist. anast. Napoli 2001).
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