Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella meccanica del Cinquecento confluiscono differenti tradizioni e metodi, la riscoperta dei classici e le competenze pratiche degli ingegneri si combinano per dar luogo a un processo di matematizzazione dei problemi del moto. La fisica di Aristotele domina la trattazione dei problemi del moto, ma progressivamente si afferma l’influenza di Archimede che contribuisce a dare una nuova fondazione teorica alle meccaniche. Da Leonardo fino alla fine del secolo si assiste a un reciproco scambio tra tradizione dotta della meccanica e competenze pratico-operative dei tecnici, in particolare nel campo della balistica e della costruzione di macchine.
L’eredità antica
Nella meccanica del XVI secolo coesistono differenti tradizioni e metodi di ricerca, è presente un complesso intreccio di aspetti teorici e pratici, di erudizione e di sperimentazione. La costruzione delle macchine, da attività eminentemente empirica, comincia a essere fondata su conoscenze teoriche e su basi matematiche. L’oggetto della disciplina va definendosi progressivamente e il termine “meccanica”, che tradizionalmente indica le Arti meccaniche, pratiche, quali tessitura, costruzione di armi, navigazione ecc., comincia solo a metà del secolo a esser riferito a una scienza dimostrativa che tratta matematicamente di oggetti materiali, che consente di comprendere il funzionamento delle macchine. Il quadro di riferimento teorico per gli studi di meccanica è in gran parte dato dalla filosofia aristotelica, sebbene si verifichino integrazioni non marginali.
Nella filosofia aristotelica sussiste una netta distinzione tra moti dei corpi celesti e moti dei corpi terrestri. I primi, costituiti di etere (sostanza incorruttibile), si muovono di moto circolare, mentre i corpi del mondo sublunare (terrestre), formati dai quattro elementi, tendono a raggiungere il loro luogo naturale con un moto naturale rettilineo. I corpi in cui prevalgono gli elementi pesanti (Terra e Acqua), una volta allontanati dal loro luogo naturale, si muovono verso il basso, ovvero verso centro della Terra; i corpi nei quali prevalgono gli elementi leggeri (Aria e Fuoco) si muovono naturalmente verso l’alto.
Tutti i moti avvengono, secondo Aristotele, in un mezzo resistente (l’aria) e la loro velocità è inversamente proporzionale alla densità del mezzo; di conseguenza, nel vuoto la velocità dovrebbe essere infinita, considerazione che porta Aristotele ad affermare l’impossibilità del vuoto. I moti violenti – quelli di corpi pesanti che si muovono verso l’alto, come per esempio i proiettili – costituiscono un problema di non facile risoluzione nella fisica aristotelica. L’impossibilità dell’azione a distanza, infatti, era uno dei suoi presupposti, ed essendo estraneo ad Aristotele il concetto d’inerzia, occorreva individuare una causa per spiegare il proseguimento del moto di un proiettile (come per esempio di una freccia), dopo che si è allontanato dal motore (l’arco). Aristotele giunge a individuare tale causa nell’aria che, messa in moto dal motore e muovendosi di moto vorticoso, avrebbe avuto la funzione di trasmettere il moto all’oggetto scagliato verso l’alto. La contraddizione insita nella fisica di Aristotele – già individuata dai commentatori tardo-antichi – risiede proprio nel ruolo dell’aria: in quanto mezzo resistente, era considerata la causa del rallentamento del moto, mentre nel caso dei proiettili diventava la causa della sua continuazione. Questa contraddizione aprì la strada, già nella tarda antichità e nel Medioevo, a nuove soluzioni al problema del moto dei proiettili.
Le Questioni Meccaniche e la statica di Archimede, riscoperte nel Rinascimento, contribuiscono a dare un fondamento matematico agli studi di meccanica e a formulare nuove teorie intorno ai problemi del moto. Le Questioni Meccaniche, opera a lungo attribuita ad Aristotele, ma che oggi si ritiene sia di scuola aristotelica e che risalga al III secolo a.C., trattano delle macchine semplici in modo originale rispetto ad altri trattati tecnici dell’antichità. L’opera, che coniuga dinamica e statica, pone a fondamento dei fenomeni meccanici il cerchio, e riconduce il funzionamento della bilancia e della leva ad alcune proprietà del moto circolare. Le operazioni della bilancia possono essere spiegate sulla base dell’assunto che l’efficacia di un peso su un braccio (vale a dire la sua velocità) aumenta in funzione della distanza del peso stesso dal fulcro. Il commentario alle Questioni Meccaniche di Alessandro Piccolomini, professore di filosofia morale a Padova e Siena, definisce la meccanica una disciplina teorica, non operativa, che, al pari dell’ottica e dell’astronomia, fa uso della matematica nelle sue dimostrazioni. Subordinata alla geometria, fornisce le cause e principi necessari alle Arti meccaniche, che hanno come fine la costruzione di macchine. Francesco Maurolico esalta anch’egli le componenti teoriche della meccanica e critica coloro che cercano di dare una spiegazione dei problemi contenuti nelle Questioni Meccaniche per mezzo di esperimenti. A suo avviso, occorre coniugare le teorie presenti nelle Questioni Meccaniche alla statica archimedea. Nel trattato di statica Sull’equilibrio dei piani Archimede aveva infatti trattato i problemi di statica basandosi sulla geometria e seguendo un metodo rigorosamente deduttivo.
Giovan Battista Benedetti critico di Aristotele
Tra i primi a mettere in discussione la concezione aristotelica del moto vi è il veneziano Giovan Battista Benedetti, matematico di corte del duca di Parma e poi del duca di Savoia. Nel 1567 Benedetti è chiamato a Torino da Emanuele Filiberto per il quale produce strumenti matematici, orologi e una meridiana. Benedetti, che è sostenitore del sistema copernicano, confuta la teoria aristotelica dei luoghi e moti naturali: i moti non sono diretti verso alcuna meta e il moto nel vuoto è possibile. Per Benedetti, che applica allo studio del moto dei corpi principi archimedei: il fattore da cui far dipendere la velocità di caduta non è il peso, ma il peso specifico. Egli afferma che la velocità di caduta libera deve ritenersi proporzionale alla differenza tra il peso specifico del corpo (forza motrice) e quello del mezzo (resistenza). A differenza di Aristotele, che prendeva in considerazione il peso assoluto dei corpi, Benedetti, in analogia con i principi dell’idrostatica archimedea, si basa invece sul loro peso specifico. Conclude così che corpi di diseguali dimensioni, ma della stessa densità (cioè dello stesso peso specifico), mossi nel medesimo mezzo, si muovono con eguale velocità.
La meccanica fra teoria e pratica
Tra Quattro e Cinquecento, problemi relativi alle macchine, all’artiglieria e alle fortificazioni, trattati tradizionalmente in maniera empirica, sono affrontati con l’ausilio di conoscenze teoriche e per mezzo della matematica. La costruzione e il perfezionamento di una macchina cominciano ad essere oggetto non più solo di competenze pratiche, ma sono trattate in termini teorici, matematici. Luca Pacioli, Leonardo da Vinci e poi Guidobaldo del Monte insistono sull’importanza della matematica per la meccanica pratica. Leonardo persegue la riqualificazione professionale dell’ingegnere, che, a suo avviso, avviene essenzialmente attraverso una valorizzazione della geometria. Leonardo affronta una serie di problemi di meccanica, per lo più relativi alla costruzione di macchine, ma non giunge alla formulazione di un insieme coerente di teorie relative al moto. Non solo manca di un lessico adeguato e poco si cura di dare una struttura logica alle proprie osservazioni, ma non si propone di dare nuovi fondamenti alla scienza del moto, essendo il suo principale scopo quello di risolvere problemi pratici. Le indagini di Leonardo in meccanica (come in altre aree) non hanno carattere sistematico, sono disegni di macchine, spesso solo schizzi, appunti e note di lettura, che non sono stati pubblicati se non in epoca recente. L’uso delle armi da fuoco contribuisce allo sviluppo della meccanica in quanto pone i problemi della traiettoria della palla di cannone, del rapporto tra la carica, il peso del proiettile, l’elevazione della bocca e la gittata – tutti problemi che inevitabilmente implicano un approccio matematico allo studio del moto. Il bresciano Niccolò Tartaglia è tra coloro che coniugano le conoscenze pratiche alla matematizzazione dei problemi del moto. Autore di trattati di balistica e fortificazioni, Tartaglia sostiene che la statica deriva in parte dalla geometria e in parte dalla filosofia naturale, in quanto alcune delle sue conclusioni si dimostrano in maniera geometrica, e altre sono verificate empiricamente. Nella Nova Scientia (1537), opera in cui per la prima volta sono trattati in termini teorici problemi di balistica, Tartaglia calcola la gittata massima di un cannone, che si ha con un’elevazione di 45°. L’opera di Tartaglia non mette in discussione i fondamenti dalla fisica di Aristotele: seguendo la concezione aristotelica del moto, che non riteneva possibile la coesistenza di moti naturali e violenti nello stesso corpo, Tartaglia afferma che il moto dei proiettili ha tre fasi: prima è rettilineo, poi curvo, infine rettilineo verso il basso. Benché riconosca che anche il moto rettilineo è impercettibilmente curvato, in un primo tempo Tartaglia accetta il principio dell’incompatibilità dei moti naturali e violenti. Successivamente, nei Quesiti del 1546 (opera che ebbe meno diffusione della precedente), Tartaglia abbandona la concezione aristotelica e afferma che la gravità agisce continuamente e che la traiettoria del proiettile è curva – il che implica la composizione dei moti. È al matematico Guidobaldo del Monte, matematico e umanista, che si deve la scoperta della traiettoria parabolica dei proiettili. Per Guidobaldo, la meccanica non può essere separata dallo studio delle macchine, che a loro volta devono essere studiate per mezzo della matematica. Il suo sforzo non è solo quello di dare fondamenti matematici alla meccanica pratica, ma anche di dare prestigio culturale e sociale al mechanicus, a chi, come gli ingegneri, opera nelle arti meccaniche.
Giambattista Benedetti
Inerzia
Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber
Ogni corpo grave, che si muova naturalmente o con violenza, riceve in sé un impetus, un’impressione del moto, tale che, separato dalla virtù motrice, continua a muoversi da sé durante un certo lasso di tempo. Dal momento che il corpo si muove con un moto naturale, la sua velocità aumenterà senza posa; infatti, l’impetus e l’impressio che sono nel corpo crescono incessantemente, perché il corpo è costantemente unito alla virtù motrice. Da ciò deriva il fatto che se, dopo aver messo in movimento la ruota con la mano, si toglie la mano, la ruota non si arresta immediatamente, ma continua a girare per un certo tempo.
A. Koyré, Studi galileiani, trad. it. di M. Torrini, Torino, Einaudi, 197