La matematica del tardo ellenismo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Diofanto, generalmente considerato il massimo algebrista greco, e Pappo, tardo erede della gloriosa tradizione geometrica di età classica e ultima figura di rilievo della matematica ellenistica, sono i due principali artefici di quel periodo di rinascita degli studi matematici, compreso tra la metà del III secolo d.C. e la metà del IV, che va sotto il nome di “età argentea” della matematica greca.
I quasi 400 anni che intercorrono tra Tolomeo e la fine, nel VI secolo, del cosiddetto ellenismo romano sono caratterizzati da quel generale declino degli studi matematici che segue all’opera di Apollonio, considerata il culmine della geometria antica. Tra la metà del III secolo e la metà del successivo, si registra però una certa rinascita della disciplina, che giustifica la denominazione di “età argentea” della matematica greca, talvolta attribuita a questo periodo. Questa inversione di tendenza è dovuta essenzialmente all’opera di due autori, Diofanto e Pappo, che operano ad Alessandria, la città che, all’epoca, è ancora il centro cosmopolita degli studi matematici.
Fiorito probabilmente attorno al 250, o poco dopo, Diofanto di Alessandria è autore, fra le altre, di un’opera intitolata l’Aritmetica. Dei 13 libri che componevano il trattato solo sei erano giunti sino a noi, ma nel 1972, in Iran, è stata ritrovata la traduzione araba di altri quattro libri (che, in origine, si collocavano probabilmente tra il terzo e il quarto dei sei precedentemente noti). Il titolo dell’opera non deve trarre in inganno: nel mondo greco, infatti, il termine aritmetica non aveva lo stesso significato che gli viene attribuito oggi e stava ad indicare non già il calcolo numerico, quanto piuttosto ciò che modernamente va sotto il nome di teoria dei numeri. L’aritmetica, come la si intendeva nell’antichità greca, aveva quindi poco o nulla a che vedere con le tecniche di calcolo (considerate la parte applicativa, utilitaristica e, per questo, di gran lunga meno nobile della matematica), che costituivano una disciplina a sé stante, la “logistica”. Una distinzione netta, del tutto analoga a quella che intercorreva tra episteme (“scienza/conoscenza” e techne “tecnica”, che spiega, almeno in parte, l’arretratezza dei sistemi di numerazione utilizzati nell’antica Grecia, dove non si giungerà mai a elaborare la notazione posizionale, che i Babilonesi avevano introdotto già attorno al 2000 a.C.
Diofanto è spesso ricordato nelle storie della matematica come il più grande algebrista greco o, addirittura, come il padre dell’algebra. In realtà già da molti secoli i Greci avevano elaborato un’algebra, cioè un qualcosa di simile al moderno calcolo letterale, ante litteram (il termine algebra deriva, infatti, da Al-jabr wa’l muqabalah, titolo, dal significato incerto, della più importante opera del matematico arabo Mohammed ibn-Musa al-Khuwarizmi, vissuto nel IX sec.). L’algebra greca, tuttavia, si differenzia in maniera sostanziale da quella moderna per il fatto di concepire le grandezze come entità geometriche, assoggettate, in quanto tali, ai principi e ai teoremi della geometria. In quest’algebra “geometrica”, infatti, i singoli termini sono interpretati come segmenti, i prodotti di due termini come aree e quelli di tre termini come volumi. L’identità (a + b)2 = a2 + 2ab + b2, per esempio, oggi nota come quadrato del binomio e familiare a qualunque studente delle scuole superiori, rappresentava un’uguaglianza tra aree. Costruito il quadrato del segmento a + b, rappresentato dal quadrato più esterno, è facile individuare il termine a2 nell’area del maggiore dei due quadrati interni, il termine b2 nell’area del quadrato minore e il termine 2ab nella somma delle aree dei due rettangoli di lati a e b, e verificare così la validità dell’uguaglianza.
Il maggior limite di questo approccio – di cui oggi rimane traccia nelle espressioni quadrato e cubo, per indicare rispettivamente la seconda e la terza potenza di un numero – risiedeva nell’impossibilità di sommare, sottrarre o confrontare tra loro termini dimensionalmente non omogenei e, soprattutto, di utilizzare termini di grado complessivo superiore al terzo. Per un matematico greco, ad esempio, l’uguaglianza (modernamente espressa) a2 + c = 4 sarebbe stata priva di senso, poiché avrebbe implicato la somma di un’area, quella del quadrato di lato a, e di un segmento, quello di lunghezza c; così come priva di senso sarebbe stata l’espressione a2bc, che, rappresentando l’area del quadrato di lato a moltiplicata per l’area del rettangolo di lati b e c (o, se si preferisce, il volume del prisma a base quadrata di lato a e altezza b, moltiplicato per il segmento di lunghezza c), non ha, nello spazio geometrico tridimensionale, alcun corrispettivo.
Sotto questo aspetto, l’algebra di Diofanto rappresenta un precedente inedito nella storia della matematica greca (anche se la scarsità dei testi sopravvissuti non consente di stabilirne con certezza il grado di originalità) poiché, in essa, viene meno ogni riferimento a enti geometrici. Ciò costituisce una sorta di ritorno alla ben più antica e, per l’epoca, assai sofisticata algebra babilonese. È vero infatti che, per indicare le quantità, note o incognite, i Babilonesi facevano spesso uso di espressioni come lunghezza, larghezza, area o volume, ma il fatto che, al contrario dei Greci, essi le sommassero e le sottraessero tra loro senza alcun vincolo di omogeneità, induce a ritenere che queste espressioni fossero utilizzate in maniera assolutamente astratta, in sostituzione di notazioni più sintetiche, impedite principalmente dalla mancanza di un alfabeto. Con Diofanto l’algebra greca, finalmente emancipata dalle pastoie della geometria, trova nuove e importanti identità numeriche, di grado superiore al terzo, che molti secoli dopo saranno utilizzate dall’algebra medievale.
Vi è poi un ulteriore motivo che sembra avvicinare l’opera di Diofanto alla concezione babilonese della matematica e allontanarla dalla grande tradizione greca di epoca classica. L’Aritmetica, infatti, non è un’esposizione organica, in forma rigorosamente deduttiva, degli argomenti trattati, bensì una raccolta di problemi svolti, una sorta di manuale di algebra applicata. “Insomma” – per dirla con J. D. Swift – “in Diofanto l’approccio all’algebra è fondamentalmente babilonese. La capacità di generalizzazione e di astrazione è greca. L’opera può essere vista come un episodio del declino della matematica greca o come il più raffinato sviluppo dell’algebra babilonese”.
Tuttavia questa chiave di lettura non mette in luce il diverso approccio metodologico di Diofanto rispetto ai suoi predecessori babilonesi, che si cimentavano nella ricerca di soluzioni approssimate di equazioni determinate (che ammettono, cioè, un numero finito di soluzioni). A questo scopo, essi non esitavano, in alcuni casi, a utilizzare valori precedentemente tabulati di particolari forme canoniche, cui ricondurre le varie tipologie di una certa classe di equazioni. Per quelle di terzo grado, ad esempio, i Babilonesi avevano elaborato tecniche che consentivano loro di ridurre molte di esse alla forma x3 + x2 = c, per risolvere la quale avevano poi tabulato, per i valori interi di x di un certo intervallo, i valori assunti da x3 + x2 (per i valori di c non presenti nella tavola, si ricorreva all’interpolazione lineare). Diofanto, al contrario, è prevalentemente interessato alla ricerca di soluzioni esatte, nel dominio dei numeri razionali, di equazioni indeterminate (che ammettono cioè un numero infinito di soluzioni). È in omaggio a Diofanto che, al giorno d’oggi, sono dette equazioni diofantee (o diofantine) quelle equazioni a coefficienti interi di cui si cercano soluzioni intere, e analisi diofantea la branca dell’algebra che se ne occupa. Né va dimenticato che, nel XVII secolo, Pierre de Fermat giunse a formulare il suo più celebre teorema – secondo cui, se n è un numero intero maggiore di 2, non esiste nessuna terna di numeri interi positivi a, b e c tale che an + bn = cn – cercando di generalizzare il problema, contenuto nel secondo libro dell’Aritmetica di Diofanto, sulla suddivisione in due quadrati di un quadrato dato.
L’altra figura di rilievo di questo periodo è Pappo di Alessandria, autore di un’opera matematica intitolata Synagoge (“Collezione”), scritta attorno al 320 e pervenutaci quasi integralmente (degli otto libri che componevano il trattato solo il primo e parte del secondo sono andati perduti). La Collezione è un’opera importante sotto molti aspetti, non ultimo quello storiografico, per le numerose notizie su matematici precedenti che vi sono riportate (è attraverso di essa, per esempio, che siamo a conoscenza degli studi condotti da Archimede sui 13 solidi semiregolari). Il trattato contiene inoltre interessanti dimostrazioni alternative di teoremi già noti e nuove soluzioni a problemi già posti, nonché numerosi altri contributi originali, alcuni dei quali troveranno pieno sviluppo solo in epoca moderna.
Nel quarto libro, per esempio, vi sono alcune generalizzazioni, non tutte attribuibili con certezza a Pappo, di teoremi precedenti e, nel libro successivo, dedicato a problemi di isoperimetria, si dimostra che l’area di un dato cerchio è maggiore di quella di qualunque poligono regolare di perimetro uguale alla circonferenza del cerchio e che, tra due poligoni regolari di uguale perimetro, quello con il maggior numero di lati ha l’area maggiore. Per questo motivo, secondo Pappo, le api, edificando le celle dei loro alveari a forma di prismi a sezione esagonale, anziché quadrata o triangolare, mostrerebbero un certo intuito matematico. Nel settimo libro troviamo poi importanti teoremi di analisi infinitesimale applicata alla geometria, tra cui la prima formulazione del teorema oggi noto come teorema di Guldino (così detto dal matematico del XVII secolo Paolo Guldino).
Il nome di Pappo resta tuttavia indissolubilmente legato ad un celebre problema che impegnerà molti autorevoli matematici fino a Cartesio. Esso consiste nel trovare, date tre (o quattro) rette complanari, il luogo geometrico dei punti tali che il quadrato della loro distanza da una di queste (o, nel caso di quattro rette, il prodotto delle distanze da due di esse) sia proporzionale al prodotto delle distanze dalle altre due, misurando le distanze dei punti dalle rette secondo angoli dati. Dal terzo libro delle Coniche di Apollonio apprendiamo che il problema era già noto a Euclide, che ne avrebbe dato solo una soluzione parziale. Nello stesso passo, Apollonio si attribuisce poi il merito di aver reso possibile, grazie ai nuovi teoremi sulle sezioni coniche, molti dei quali da lui stesso introdotti, la soluzione generale del problema (che non ci è giunta perché forse contenuta in una sua opera andata perduta). Pappo sembra tuttavia lasciare intendere che nessuno dei suoi predecessori, neanche Apollonio, abbia raggiunto tale traguardo e di essere stato quindi il primo a dimostrare che, nella generalità dei casi, il luogo cercato è una conica.
Al di là della questione della paternità della soluzione, il fatto degno di nota è che Pappo si spinge ad analizzare il problema per un numero di rette superiore a quattro, trovando però un limite concettuale, assolutamente invalicabile, nel caso di sei rette. In questo caso, infatti, la condizione posta è che il prodotto delle distanze dei punti da tre di esse sia proporzionale al prodotto delle distanze dalle altre tre. Per Pappo – che, nel solco della tradizione algebrica greca, concepisce ancora le espressioni numeriche come entità geometriche – questa condizione equivale al rapporto costante tra i volumi di due solidi. Ma il caso immediatamente successivo, quello con sette rette, implica il rapporto tra il prodotto di tre distanze, ancora assimilabili a un volume, e il prodotto di quattro distanze, un’entità totalmente astratta che Pappo considera inammissibile perché, come egli stesso ci ricorda, “non esiste alcuna cosa che sia contenuta da più di tre dimensioni”. È inoltre assai interessante notare che, poco oltre, Pappo fa riferimento ad “alcuni matematici”, che avrebbero avuto l’ardire di concepire “cose di tal genere, le quali non hanno alcun significato comprensibile”. Pappo sembra qui alludere a Diofanto che, come si è visto, solo un paio di generazioni prima, aveva affrancato l’algebra dalla geometria. Il fatto però di non fare esplicito riferimento al suo predecessore, ma ad “alcuni matematici”, non meglio identificati, autorizza a ritenere che la nuova algebra sia stata accolta con favore da più di un suo contemporaneo e che abbia avuto una diffusione assai maggiore di quella che le poche opere sopravvissute possono testimoniare.
Pappo, il geometra epigono della gloriosa tradizione ellenica, guarda dunque con perplessità, quasi con sospetto, alle ricerche algebriche di Diofanto. La sua ortodossia geometrica gli rende impossibile accettare l’idea di descrivere curve per mezzo di espressioni algebriche di grado superiore al terzo, precludendogli la possibilità di compiere quel passo cruciale che nessun matematico greco, neppure il grande Apollonio, era riuscito a compiere: l’elaborazione di una geometria analitica nel senso moderno del termine. E dopo Pappo, la cultura ellenistica, ormai al tramonto, non riuscirà ad esprimere nessuna figura di levatura sufficiente per poter giungere a questa sintesi, che sarà operata da Cartesio, prendendo l’avvio proprio dal problema di Pappo, ben 13 secoli più tardi.
Pappo è dunque l’ultimo matematico di rilievo del mondo greco. Dopo di lui, se si eccettuano alcuni autori minori tra i quali Sporo da Nicea, un suo contemporaneo di cui è stato forse maestro o discepolo, e Sereno d’Antinopoli, di poco posteriore, del quale sono sopravvissuti due trattati (Sulla sezione del cilindro e Sulla sezione del cono), l’immensa eredità matematica del mondo greco sopravviverà solo attraverso commentatori, le cui opere, sebbene spesso preziosissime sotto l’aspetto storiografico, sono pressoché prive di contributi originali. Lo stesso Pappo, del resto, contribuisce alla diffusione del genere, scrivendo un commento agli Elementi di Euclide e uno all’Almagesto di Tolomeo, dei quali sono sopravvissuti solo alcuni frammenti.
E proprio gli Elementi (talvolta limitatamente al primo libro, che contiene i principali teoremi della geometria elementare, tra cui il teorema di Pitagora e il suo inverso) e l’Almagesto, saranno le opere verso cui sarà prevalentemente rivolta l’attenzione dei commentatori. I due trattati, infatti, rappresentano la summa, rispettivamente, della geometria e dell’astronomia greche, e godranno entrambi di una straordinariastraor-dinaria longevità.
Tra i commentatori del tardo ellenismo ricordiamo qui Teone di Alessandria (seconda metà del IV sec.), che scrive un commentario all’Almagesto e due commentari, uno in cinque libri, sopravvissuto solo parzialmente, e l’altro, in un solo libro, alle Tavole astronomiche manuali, anch’esse di Tolomeo. Egli redige inoltre un’edizione degli Elementi, sulla quale si baseranno tutte quelle successive fino alla celebre edizione di Johan Ludvig Heiberg, del 1880 (a tutt’oggi, è nota una sola versione greca degli Elementi, rinvenuta verso la fine del XIX secolo nella Biblioteca Vaticana, anteriore alla stesura di Teone). La figlia di Teone, Ipazia, la dotta fanciulla, cultrice di matematica e di astronomia, trucidata nel 415 dai fanatici cristiani, è autrice, a sua volta, di alcuni commentari. Le sono infatti attribuiti un commento a un’opera di Diofanto (probabilmente l’Aritmetica) e uno alle Coniche di Apollonio.
Anche Proclo, il filosofo neoplatonico che vive prima ad Alessandria e poi ad Atene, dove dirige l’Accademia, è autore di un commento al primo libro degli Elementi, che costituisce una fonte preziosissima di informazioni storiche. Lo scritto, infatti, attinge al commento di Pappo agli Elementi, del quale, come si è detto, sopravvivono solo dei frammenti, e alla Storia della geometria, interamente perduta, scritta dal discepolo di Aristotele Eudemo di Rodi, della quale riporta un ampio estratto. Su questo compendio, in seguito noto come Epitome eudomiana, si fonda gran parte della nostra attuale conoscenza della geometria greca prima di Euclide. A Proclo è inoltre attribuito il teorema secondo cui un punto qualsiasi di un segmento, i cui estremi si muovono su due rette intersecantesi, descrive un arco di ellisse.
Simplicio, un altro neoplatonico, attivo ad Atene nella prima metà del VI secolo, è autore di un commento al primo libro degli Elementi e di altri relativi a varie opere di Aristotele. Uno di questi, il commento alla Fisica, contiene la citazione di un lungo passo della Storia della geometria di Eudemo, riguardante la quadratura delle lunule (figure delimitate da archi di cerchio) ad opera di Ippocrate di Chio. L’arcaicità di alcune espressioni adoperate da Eudemo sembra indicare che questi, almeno in alcuni casi, abbia a sua volta riportato le dimostrazioni in una maniera assai fedele all’originaria esposizione di Ippocrate. Il passo – a conferma della straordinaria importanza storiografica che alcuni di questi commentari di epoca tardo-alessandrina rivestono – costituisce, probabilmente, quanto di più vicino alla matematica del V secolo a.C. sia giunto fino a noi.
Il 529, anno in cui l’imperatore Giustiniano chiude l’Accademia platonica di Atene, che rappresenta una minaccia all’ormai dominante ortodossia cristiana (ma anche, emblematicamente, anno di fondazione del monastero di Montecassino), segna convenzionalmente la fine dell’ellenismo romano. La Biblioteca di Alessandria, dal II secolo, ha ormai cominciato un lento declino e sarà definitivamente distrutta nel 642 dal generale Amr ibn al-As, su ordine del califfo Omar.