La lotta per le investiture
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La Chiesa e l’impero si pongono come poteri virtualmente estesi sull’intero mondo cristiano medievale. I loro ruoli sono apparentemente chiari: alla prima spetta la guida spirituale, al secondo quella politica. Gli equilibri reali fra i poteri, tuttavia, si delineano soprattutto in relazione alle esigenze del luogo e del momento e in rapporto alle personalità che, con mano più o meno ferma, si pongono alla testa della Chiesa e dell’impero: ne è buona prova la questione delle investiture vescovili, con la quale si interseca, fra XI e XII secolo, quella del primato romano sulla cristianità.
All’alba del IX secolo l’imperatore si trova in una posizione di forza rispetto al papa: a lui sono affidati il governo e la difesa della Christianitas, cui il pontefice ha soprattutto il compito di assicurare la protezione divina.
L’alto clero, però, esercitava funzioni di governo locale già molto prima della fondazione imperiale, sicché gli stessi imperatori, a partire da Carlo Magno, si avvalgono della collaborazione di vescovi e abati, conferendo loro compiti di comando e favorendone l’autonomia mediante l’istituto dell’immunità. In questo modo i sovrani mirano anche a bilanciare la forza dei potenti laici mediante un’aristocrazia diversa, munita di migliori strumenti culturali, dotata del prestigio derivante dalle funzioni pastorali e meno incline a scivolare verso la patrimonializzazione delle cariche (stante l’obbligo, pur spesso disatteso, del celibato).
Gli imperatori non solo affidano funzioni di governo ai vescovi, ma conferiscono loro anche l’investitura religiosa. La prassi è a lungo esente da contestazioni: la commistione tra regnum e sacerdotium riflette una concezione del potere da cui la dimensione religiosa è ineliminabile. In condizioni mutate, tuttavia, proprio questa diventa la premessa della lotta per le investiture, la cui fase più calda si sviluppa fra il 1075 e il 1122.
Lo scontro si interseca con un clima di denuncia diffusa dei mali della Chiesa, in particolar modo della simonia (compravendita di beni sacri) e del nicolaismo (concubinato del clero).
La propaganda pontificia del tempo connette il problema della corruzione a quello delle investiture, descrivendo campi di forze dai contorni netti: da un lato ci sarebbe l’imperatore, sostenuto da un clero corrotto e compromesso con il potere; dall’altro, l’autorità pontificia, tesa a recuperare le sue prerogative e a promuovere la riforma interna.
In realtà i sostenitori della moralizzazione sono dentro ciascuno schieramento, e gli stessi interventi imperiali sono spesso volti a esigere dai vescovi una condotta religiosa appropriata, ad arginare la corsa al papato dell’aristocrazia romana, ad assicurarsi la collaborazione di ecclesiastici impegnati nella riforma.
Quello che si profila, dunque, è soprattutto uno scontro per la preminenza nella guida politica della Christianitas, al quale è inestricabilmente connessa anche la lotta per un’altra supremazia: quella del papa romano su tutti i cattolici, che trasformerà un antico primato d’onore in un governo di tipo monarchico, mai teorizzato (e tanto meno esercitato) prima dell’XI secolo.
I moralizzatori trovano argomenti nella crisi del papato, testimoniata dalla compresenza, a metà dell’XI secolo, di tre pontefici. È un imperatore, Enrico III di Franconia, ad avviare la ripresa, facendoli deporre e innalzando al soglio pontificio il tedesco Clemente II, nel concilio di Sutri del 1046.
La protezione imperiale consente poi a Leone IX di muovere i primi passi per l’affermazione del primato romano: si assicura il titolo esclusivo di apostolicus (successore degli apostoli); si circonda di riformisti, rilancia la condanna della simonia e del nicolaismo e si batte per la giurisdizione sulle chiese bizantine dell’Italia meridionale, radicalizzando la spaccatura con Costantinopoli.
Di lì a poco per l’impero si apre una stagione di fragilità, dovuta alla lunga minorità di Enrico IV, succeduto al padre nel 1056. Il papato ne approfitta per accentuare la propria autonomia: l’elezione, nel 1058, di Niccolò II avviene al di fuori dell’influenza imperiale, con una procedura subito ratificata nel Decretum in electione papae (l’elezione spetta esclusivamente ai cardinali, titolari delle chiese di Roma e delle sue immediate vicinanze, ed è seguita dall’acclamazione del clero e del popolo romano). Significativo è anche l’accordo di Melfi (1059), con cui il papa si erge ad arbitro di controversie politiche e legittima autorità temporali, conferendo a Roberto il Guiscardo il titolo di duca di Puglia e di Calabria.
Anche dopo la morte di Niccolò, il papato esprime indipendenza e forza politica: Alessandro II non è riconosciuto dalla corte imperiale, che gli contrappone Onorio II, ma riesce a mantenersi in carica fino alla morte. Il successore Ildebrando di Soana, Gregorio VII, è il protagonista dello scontro aperto con l’impero.
Gregorio VII
27 enunciati
Dictatus Papae
Con questi 27 enunciati lapidari e perentori nella forma, il papa si attribuisce in modo esclusivo il carattere universale del potere e il diritto di usare le insegne imperiali, di deporre l’imperatore e di sciogliere i sudditi dall’obbedienza.
I. La Chiesa romana è stata fondata soltanto da Dio.
II. Solo il pontefice romano si dica di diritto universale.
III. Egli solo abbia il potere di deporre e reintegrare i vescovi.
IV. Durante un concilio il suo legato, anche se di grado inferiore, presieda a tutti i vescovi e possa pronunciare sentenza di deposizione contro di loro.
V. Il papa abbia il potere di deporre anche gli assenti.
VI. Con chi è stato scomunicato da lui tra l’altro non dobbiamo nemmeno rimanere nella stessa casa.
VII. Solo a lui sia lecito, secondo le necessità del momento, istituire nuove leggi, fondare nuove pievi, trasformare in abbazia una chiesa canonicale e viceversa, smembrare un episcopato ricco ed aggregare quelli poveri.
VIII. Solo il papa possa far uso delle insegne imperiali.
IX. Al papa e solo a lui spetta che tutti i principi bacino i piedi.
X. Solo il suo nome venga proferito nelle Chiese.
XI. Il suo nome è unico in tutto il mondo.
XII. Gli sia lecito deporre gli imperatori.
XIII. Gli sia lecito, qualora la necessità lo imponga, trasferire i vescovi da una sede all’altra.
XIV. Egli abbia il potere di ordinare chierici in ogni Chiesa in qualsiasi momento lo voglia.
XV. Chi è stato ordinato dal papa può essere preposto ad altra Chiesa, ma non prestarvi servizio; costui non deve ricevere da un altro vescovo un grado superiore.
XVI. Nessuna sinodo senza indicazione del papa deve essere chiamata generale.
XVII. Nessun canone e nessun libro siano da considerarsi canonici senza la sua autorità.
XVIII A nessuno sia lecito ritrattare le sue sentenze; lui solo possa ritrattare quelle di tutti.
XIX. Nessuno lo possa sottoporre a giudizio.
XX. Nessuno osi condannare chi si appella alla sede apostolica.
XXI. Le cause di maggior importanza, di qualsiasi Chiesa, siano rimesse alla sede apostolica.
XXII La Chiesa romana non ha mai errato né potrà mai errare, come testimonia la Sacra Scrittura.
XXIII. Il pontefice romano, se è stato ordinato secondo i canoni, è indubitabilmente reso santo per i meriti del beato Pietro, come testimonia il vescovo di Pavia Ennodio, seguito in ciò dal parere di molti santi Padri e come è scritto nei decreti del beato papa Simmaco.
XXIV. Per suo ordine o con il suo consenso sia lecito ai gradi inferiori presentare accuse [contro i superiori].
XXV. Egli abbia il potere di deporre e reintegrare i vescovi anche senza riunire la sinodo.
XXVI. Non sia considerato cattolico chi non è d’accordo con la Chiesa romana.
XXVII. Il pontefice può sciogliere i sudditi dal vincolo di lealtà verso gli iniqui.
Testo originale:
I. Quod romana Ecclesia a solo Domino sit fundata.
II. Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis.
III. Quod ille solus possit deponere episcopos vel reconciliare.
IV. Quod legatus eius omnibus episcopis presit in concilio etiam inferioris gradus et adversus eos sententiam depositionis possit dare.
V. Quod absentes papa possit deponere.
VI. Quod cum excommunicatis ab illo inter cetera nec in eadem domo debemus manere.
VII. Quod illi soli licet pro temporis necessitate novas leges condere, novas plebes congregare, de canonica abbatiam facere et e contra, divitem episcopatum dividere et inopes congregare.
VIII. Quod solus possit uti imperialibus insigniis.
IX. Quod solius papae pedes omnes principes deosculentur.
X. Quod illius solius nomen in ecclesiis recitetur.
XI. Quod hoc unicum est nomen in mundo.
XII. Quod illi liceat imperatores deponere.
XIII. Quod illi liceat de sede ad sedem necessitate cogente episcopos trasmutare.
XIV. Quod de omni ecclesia quocunque voluerit clericum valeat ordinare.
XV. Quod ab illo ordinatus alii ecclesiae presse potest, sed non militare; et quod ab aliquo episcopo non debet superiorem gradum accipere.
XVI. Quod nulla synodus absque precepto eius debet generalis vocari.
XVII. Quod nullum capitulum nullusque liber canonicus habeatur absque illius auctoritate.
XVIII. Quod sententia illius a nullo debeat retractari et ipse omnium solus retractare possit.
XIX. Quod a nemine ipse iudicari debeat.
XX. Quod nullus audeat condemnare apostolicam sedem appellantem.
XXI. Quod maiores causae cuiuscunque ecclesiae ad eam referri debeant.
XXII. Quod Romana ecclesia nunquam erravit nec in perpetuum scriptura testante errabit.
XXIII. Quod Romanus pontifex, si canonice fuerit ordinatus, meritis beati Petri indubitanter efficitur sanctus testante sancto Ennodio Papiensi episcopo ei multis sanctis patribus faventibus, sicut in decretis beati Symachi pape continetur.
XXIV. Quod illius precepto et licentia subiectis liceat accusare.
XXV. Quod absque synodali conventu possit episcopos deponere et reconciliare.
XXVI. Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romanae ecclesiae.
XXVII. Quod a fidelitate iniquorum subiectos potest absolvere.
Appena uscito di minorità (1066), Enrico IV si mostra deciso a ripristinare le sue prerogative, impegnandosi nella repressione di una rivolta interna e quindi volgendosi alla situazione italiana. Gregorio VII viene eletto per acclamazione, in violazione del decreto di Niccolò II: Enrico pone la questione della legittimità, sollecitato dall’arcivescovo di Ravenna, Wiberto, e sostenuto da buona parte del clero tedesco, ostile al centralismo pontificio.
Ma Gregorio contrattacca con forza: nel 1075 dichiara nulle le investiture imperiali ed emana il Dictatus Papae, un insieme di proposizioni lapidarie nella forma e perentorie nel contenuto, con le quali si attribuisce in modo esclusivo il carattere universale del potere e il diritto di usare le insegne imperiali, di deporre l’imperatore e di sciogliere i sudditi dall’obbedienza.
È scontro aperto: Enrico IV tenta di far deporre il papa dalla dieta di Worms, e Gregorio risponde con la scomunica (1076). L’aristocrazia tedesca riprende vigore, e induce Enrico ad accettare di sottoporsi a giudizio, convocando una dieta che in realtà non si terrà mai: nell’inverno 1076-1077 Enrico IV raggiunge il papa a Canossa, dove è ospite della contessa Matilde, e – dopo tre giorni di penitenza – ottiene il perdono.
Aver riacquistato legittimità consente a Enrico di volgersi contro i ribelli tedeschi, che riconduce all’obbedienza, per poi riprendere la prova di forza con Gregorio: lo depone nuovamente, facendo eleggere Wiberto con il nome di Clemente III, sconfigge le truppe di Matilde di Canossa, prende Roma con un lungo assedio (1081-1084) e si fa consacrare imperatore.
Gregorio VII, rifugiatosi a Castel Sant’Angelo, viene liberato dagli alleati normanni e muore poco dopo, a Salerno (1085). Ma il disorientamento da parte pontificia è breve: mentre Clemente III è ancora in carica, gli si contrappongono Vittore III e Urbano II, con cui già si profila la ripresa.
Urbano II consolida l’alleanza con i Normanni, migliora i rapporti con i vescovi tedeschi ed estende alla Francia e all’Inghilterra la questione delle investiture, mostrando però una pragmatica disponibilità a derogare dalla normativa per non inasprire i sovrani. Sullo sfondo del suo attivismo si colloca anche l’invito a fermare gli scontri fra cristiani, per volgere le armi contro gli infedeli di Terrasanta: non è certo che questo sia sufficiente per attribuirgli l’iniziativa della prima crociata, ma l’eco trovata dalle sue parole costituisce una prova di prestigio, a fronte dell’isolamento di Clemente III.
Il pontefice successivo, Pasquale II, prosegue l’affermazione della centralità romana, mostrandosi però incline al compromesso politico, in nome di una libertà ecclesiastica che – come si riteneva negli ambienti dei riformatori rigoristi – avrebbe potuto affermarsi solo se la Chiesa si fosse svincolata dalle vischiosità del potere. Proprio perché, dal punto di vista politico, è disposto a concedere molto, Pasquale II riesce a chiudere la questione delle investiture in Inghilterra e in Francia, e giunge a un’intesa anche con Enrico V, che ha intanto costretto il padre ad abdicare (1105): in base all’accordo di Sutri del 1111, il sovrano avrebbe rinunciato alle investiture, ma sarebbe rientrato in possesso dei beni e dei diritti di cui godevano i prelati già investiti.
La disponibilità del papa non è condivisa, però, da gran parte del clero e del seguito imperiale, decisa a non rinunciare al rapporto con il potere politico, che aveva arrecato vantaggi a molti, benché andasse certamente ridefinito: un concilio sconfessa l’accordo di Sutri, e il conflitto torna a divampare.
Enrico V e Callisto II
Ciò che era della Chiesa ritorna alla Chiesa
Concordato di Worms
In nome della Santa e Unica Trinità, io Enrico, augusto Imperatore dei Romani per grazia di Dio, con la forza dell’amore che ho nutrito verso Dio, la chiesa romana santa ed il papa Callisto, per la salvezza della mia anima concedo a Dio, ai Suoi apostoli Pietro e Paolo e alla Chiesa cattolica santa tutte le nomine ecclesiastiche per mezzo dell’anello e del bastone pastorale. Concedo inoltre che in tutte le chiese, che sono sotto il mio impero o il mio regno, possano avvenire delle scelte ecclesiastiche canoniche e una libera consacrazione. I possedimenti ed i diritti del beato Pietro, che fin dal sorgere di questa discordia ad oggi, vale a dire dal tempo di mio padre al mio, gli furono sottratti, e che ancora oggi posseggo, li restituisco alla Santa Romana Chiesa; quelli che al contrario non sono in mio possesso, farò comunque in modo che gli vengano restituiti. Restituirò inoltre su consiglio dei miei principi o per senso di giustizia i possedimenti di tutte le altre chiese, dei principi e di quanti altri, chierici e laici, che in questo scontro (lotta per le investiture) furono perduti e che ancor oggi sono in mio possesso; quelli che invece non sono in mio possesso farò comunque in modo che Gli vengano restituiti. Concedo inoltre una vera pace a Papa Callisto, alla Santa Romana Chiesa e a tutti colori che militano o hanno militato dalla loro parte; servirò inoltre fedelmente la Santa Romana Chiesa nelle circostanze per le quali richiederà il mio aiuto ed in quelle per le quali mi rivolgerà richiesta, le renderò debita giustizia.
Testo originale:
In nomine sanctae et individuae Trinitatis. Ego Heinricus, Dei gratia Romanorum imperator augustus, pro amore Dei et Sanctae Romanae Ecclesiae et domini papae Calixti et pro remedio animae meae dimitto Deo et sanctis Dei apostolis Petro et Paulo Sanctaeque Catholicae Ecclesiae omnem investituram per anulum et baculum et concedo in omnibus ecclesiis, quae in regno vel imperio meo sunt, canonicam fieri electionem ac liberam consecrationem. Possessiones et regalia beati Petri, quae a principio huius discordiae usque ad hodiernam diem, sive tempore patris mei sive etiam meo, ablata sunt, quae habeo, eidem Sanctae Romanae Ecclesiae restituo; quae autem non habeo, ut restituantur fideliter iuvabo. Possessiones etiam aliarum omnium ecclesiarum et principum et aliorum tam clericorum quam laicorum, quae in werra ista amissae sunt, consilio principum vel iusticia quae habeo reddam; quae non habeo, ut reddantur fideliter iuvabo. Et do veram pacem domino papae Calixto Sanctaeque Romanae Ecclesiae et omnibus, qui in parte ipsius sunt vel fuerunt; et in quibus Sancta Romana Ecclesia auxilium postulaverit, fideliter iuvabo et, de quibus mihi fecerit querimoniam, debitam sibi faciam iusticiam.
Agli scontri armati si accompagna, fin da principio, una riflessione teorica nell’ambito della quale si profila con chiarezza crescente l’esigenza di giungere alla pacificazione con l’imperatore, mediante soluzioni di compromesso simili a quelle raggiunte con altri sovrani europei.
È Callisto II a sottoscrivere, con Enrico V, il concordato di Worms del 1122: esso prevede che l’imperatore rinunci all’investitura con i simboli religiosi (anello e pastorale), ma abbia il diritto di presenziare all’elezione dei vescovi tedeschi da parte del clero locale e di investirli di beni e funzioni pubbliche; in Germania l’investitura pubblica avrebbe preceduto la consacrazione, mentre in Italia sarebbe avvenuto il contrario.
Il concordato si limita in fondo a regolarizzare lo stato di fatto, garantendo all’imperatore possibilità di intervento maggiori in Germania, ma non inesistenti in Italia, dove avrebbe avuto pur sempre diritto di rifiutare l’investitura pubblica a candidati non graditi. Eppure anche la Chiesa consegue un obiettivo decisivo: riesce a far passare il principio in base al quale l’investitura religiosa è questione in cui il potere politico non ha alcuna competenza.
Di lì a poco, la competenza “religiosa” diventerà esplicitamente competenza “papale” e, nella seconda metà del secolo, la dottrina del primato romano e la prassi di centralizzazione monarchica della Chiesa non si configureranno più come risposte della cultura religiosa ai problemi del momento, suscettibili di ripensamenti e di applicazioni diverse, ma si trasformeranno in compiuto progetto teocratico.