Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire da alcune allusioni bibliche e soprattutto dalle apocalissi apocrife, tra cui spicca per importanza l’Apocalisse di Paolo, si diffonde nell’alto Medioevo la letteratura delle visioni dell’aldilà. I resoconti delle visioni, viaggi dell’anima compiuti durante un sonno febbrile o in uno stato di morte apparente, inizialmente inseriti all’interno di opere più ampie, acquistano poi una piena autonomia. E la rappresentazione dell’altro mondo diviene non solo mezzo di edificazione religiosa ma anche strumento di lotta politica e tema degno di rielaborazione poetica.
Gregorio Magno
Il ponte del giudizio
Dialoghi, IV, 37
Un soldato ammalatosi nella nostra città giunse agli estremi. Abbandonato il corpo, giacque esanime, ma presto vi ritornò e raccontò quel che gli era accaduto. Diceva – divenne cosa nota a molti allora – che c’era un ponte e sotto vi scorreva un fiume nero e caliginoso che esalava come una nuvola di intollerabile fetore. Attraversato il ponte, c’erano prati ameni e verdeggianti adorni di fiori profumati, su cui si scorgevano gruppi di uomini vestiti di bianco. Aleggiava su quel luogo un profumo di così intensa soavità che la sua fragranza saziava coloro che lì passeggiavano e abitavano. Aveva ciascuno una dimora piena di grande luce. Vi si costruiva una casa di mirabile potenza, che sembrava fabbricata con mattoni d’oro, ma non riuscì a saper di chi fosse.
[…] Sul ponte predetto avveniva questa prova, che chiunque fosse malvagio e volesse oltrepassarlo, cadeva nel fiume oscuro e puzzolente, mentre i giusti, cui la colpa non faceva ostacolo, attraversandolo con passo libero e sicuro giungevano ai luoghi ameni.
in Visioni dell’Aldilà in Occidente. Fonti, modelli, testi, a cura M.P. Ciccarese, Firenze, Nardini, 1987
Walafrido Strabone
Carlo Magno subisce una pena purgatoria
Visione di Wettino
Volge lo sguardo a un tale, in mezzo ai campi
che un tempo deteneva i regni Ausoni e
dei nobili Romani: è fermo, i piedi
al suolo immobili e di fronte a lui
un animale gli straziava il sesso.
Ma le altre membra erano
felicemente esenti dal tormento.
Vide la scena, e sbigottito dice:
“finché ebbe in corpo il suo destino egli
nutrì giustizia e in questi nostri giorni
fu lui a dar forza alla maggior dottrina
di fede e proteggendo il popolo santo
con la tutela di un animo devoto
raggiunse in questo mondo altezze immani
volendo il giusto e volando sui suoi regni
sulle ali di un benevolo consenso.
Qui invece è detenuto crudelmente
sotto un marchio d’infamia così atroce
e così triste pena! Spiegami perché”.
E la guida rispose: “Le torture
deve subire perché le buone azioni
macchiò con la vergogna di libidine,
pensando che le prove di bontà
le tentazioni tutte cancellassero
e volle terminare la sua vita
nelle orge consuete. Anche così
otterrà ugualmente la vita beata,
occuperà felice quell’onore
che Dio per lui dispose”.
in F. Stella, La poesia carolingia, con trad. it. di F. Stella, Firenze, Le Lettere, 1995
Visione di Paolo
Là vide numerosi uomini diversi in un fiume infuocato: erano immersi alcuni fino alle ginocchia, altri fino all’ombelico, altri fino alle labbra, altri fino alle sopracciglia. Allora Paolo si mise a piangere e a sospirare, e chiese all’angelo chi erano quelli immersi fino alle ginocchia. Gli disse l’angelo: “Sono quelli che hanno commesso peccato di furto, rapina e lussuria, non ne hanno fatto penitenza e non sono venuti alla chiesa”. “Signore, chi sono quelli immersi fino all’ombelico?”. L’angelo rispose: “Sono quelli che continuano a fornicare anche dopo aver ricevuto il corpo e sangue di nostro signore Gesù Cristo e non sono tornati a pentirsi fino alla morte”. “Signore, e quelli fino alle labbra?”. “Quelli sono i denigratori, i falsi testimoni, quelli che contestano nella chiesa e non ascoltano la parola del Signore”. “E quelli fino alle sopracciglia?”. “Quelli che nel loro cuore hanno falsi sentimenti e tramano il male per il loro prossimo, mentre a lui manifestano fedeltà. Chiunque commette questo peccato, se non si pente, precipita nell’inferno, come hanno fatto quelli”.
in M. P. Ciccarese, Visioni dell’Aldilà in Occidente: fonti modelli testi, Firenze, Nardini, 1987
I riferimenti alla condizione delle anime dopo la morte sono abbastanza generici nei testi biblici, ma il Nuovo Testamento presenta due luoghi canonici che saranno alla base della letteratura dell’aldilà. L’Apocalisse si chiude con la rappresentazione del Giudizio universale e della sorte che attende gli uomini per l’eternità: i peccatori gettati nello “stagno ardente di fuoco e di zolfo” e i buoni innalzati alla Gerusalemme celeste, descritta come risplendente della gloria divina ma anche cinta da un muro di diaspro, con edifici d’oro ornati di pietre preziose. Un altro importante testo biblico mostra la possibilità per un vivente di fare esperienza dell’aldilà: san Paolo racconta nella Seconda epistola ai Corinzi di essere stato rapito in paradiso e di avere udito “parole misteriose che l’uomo non può dire”.
La Bibbia offre dunque alcune allusioni sull’aldilà, ma non trattazioni ampie e complete, che si possono trovare invece nelle apocalissi apocrife, testi parzialmente cristianizzati fra il II e il IV secolo, ma risalenti negli strati più antichi ai secoli precedenti: il Quarto Libro di Esdra, l’Apocalisse di Pietro, il Libro di Enoc.
Ma anche della visione di Paolo, taciuta dall’apostolo, non tardano a essere elaborate versioni apocrife, dapprima in greco (Apocalisse di Paolo, III sec.), poi in molte altre lingue. In latino se ne conoscono varie versioni di diversa lunghezza, circolanti con il titolo di Visione di Paolo. La versione lunga, più vicina all’originale greco, presenta un prologo in cui si racconta del ritrovamento del testo in una cassa sepolta sotto la casa di Paolo a Tarso. Inoltre, per superare il divieto di divulgare i segreti divini imposto nella Seconda epistola ai Corinzi, il testo limita questo divieto a poche rivelazioni misteriose che vengono taciute, ma presenta anche l’ordine, impartito a Paolo dall’arcangelo Michele, di divulgare tutto il resto della visione. Così si offre una dettagliata descrizione del paradiso dove l’apostolo incontra vari profeti, vede i cieli, gli angeli e la Gerusalemme celeste. Ma Paolo assiste inoltre al giudizio dell’anima di un uomo appena defunto ed è poi condotto a visitare anche l’inferno, dove i peccatori sono puniti secondo le loro colpe, con una delle prime versioni di quello che diventerà il contrappasso dantesco. Per lo più la punizione consiste nell’immersione di diverse parti del corpo in un fiume di fuoco, ma non manca anche un drago mostruoso che inghiotte i peccatori, serpenti e vermi che li tormentano e un pozzo fetido in cui alcuni tra loro vengono gettati. Le versioni brevi del testo, più diffuse, tralasciano la parte paradisiaca e mantengono solo la sezione infernale.
Nella letteratura cristiana dei primi secoli il tema della visione dell’aldilà, per lo più limitato al paradiso, si intreccia con il genere agiografico. In particolare si racconta spesso di martiri che ricevono, mentre sono in attesa dell’esecuzione, la visione consolante del paradiso che li attende: esemplari sono in proposito la Passione di Perpetua e Felicita (III sec.) e la Passione di Mariano e Giacomo (IV sec.).
Girolamo racconta in una lettera (Epistola 22, A Eustochio) di una visione avuta durante una forte febbre che lo aveva ridotto in punto di morte: egli si vede condotto davanti al tribunale divino dove viene condannato per i propri peccati ma, promettendo di non peccare più, ottiene di tornare alla vita per espiare le colpe. Ripreso in ambito agiografico anche da Sulpicio Severo nella Vita di san Martino, questo motivo sarà poi frequentemente utilizzato nelle visioni.
Lo schema narrativo che si impone è quello secondo cui il protagonista cade in uno stato di morte apparente, ma dopo qualche ora riprende vita e racconta a chi gli sta intorno di essere stato condotto a visitare l’aldilà. Questo schema è fissato nei Dialoghi di Gregorio Magno, attraverso cui si diffondono anche alcuni particolari descrittivi: i beati dimorano in un giardino verdeggiante, fiorito e profumato, e possono godere di splendidi palazzi d’oro, mentre i dannati sono immersi nel fuoco dell’inferno, dove scorre anche un fiume puzzolente. Inoltre il giudizio dell’anima si compie attraverso il passaggio di un ponte strettissimo: i peccatori cadono nel fuoco ma i buoni lo superano per recarsi in paradiso. E il ponte è anche teatro della lotta fra gli angeli e i diavoli per il possesso dell’anima.
Alcuni di questi motivi sono già accolti nelle visioni inserite nell’opera storiografica di Gregorio di Tours, la Storia dei Franchi, fra cui spiccano la Visione di Sunniulfo e la Visione di Salvio. Quest’ultima, pur riproponendo elementi noti, assume una lunghezza e un’autonomia nuove.
E il modello di Gregorio agisce ben presto anche in ambiente irlandese, nella Vita di san Fursa (metà del VII sec.). Al protagonista appaiono due visioni nel giro di tre giorni, durante il sonno febbrile di una malattia che sembra mortale: nella prima è condotto a vedere il paradiso, nella seconda assiste invece alla disputa tra gli angeli e i diavoli per il possesso della sua anima. Inoltre Fursa incontra in paradiso alcuni sacerdoti defunti che gli danno indicazioni sui temi che dovrà sviluppare nella sua predicazione. In tal modo la visione dell’aldilà offre l’occasione per rappresentare l’attribuzione di una missione al protagonista, dando il sigillo di un’investitura divina alla sua opera terrena.
Verso la fine del VII secolo il genere appare ormai maturo. Mentre sino a questo momento i racconti delle visioni sono sempre inseriti in opere più vaste, l’anonima Visione di Baronto, proveniente dalla Gallia, si presenta come un testo indipendente, con una ricchezza descrittiva e una drammaticità del tutto nuovi. La cornice narrativa è quella consueta della malattia durante la quale l’anima del monaco è condotta a visitare l’aldilà. Baronto può visitare i quattro livelli del paradiso e poi l’inferno, e nei vari luoghi oltremondani incontra numerosi personaggi storici, indicati per nome e sempre rappresentati con un carattere preciso.
La diffusione europea delle visioni è testimoniata da un altro testo della seconda metà del VII secolo, i Dicta (Detti) di Valerio, abate del monastero di Bierzo in Spagna e fine letterato. Nella sua opera egli inserisce tre visioni dell’aldilà, che assicura di aver udito raccontare dai protagonisti. Gli elementi delle visioni sono tradizionali, ma la novità è nella ricercatezza della scrittura e nel tono intenso della narrazione.
Anche un’altra fra le opere più influenti della cultura altomedievale, la Storia ecclesiastica degli Angli di Beda il Venerabile, offre al suo interno un certo numero di visioni dell’aldilà. Le visioni di Beda presentano i caratteri già noti, ma in una fra queste (la Visione di Drycthelmo), appare per la prima volta il tema del purgatorio. Già i Padri della Chiesa, in particolare Girolamo, Agostino e Gregorio Magno, avevano alluso all’esistenza di una pena temporanea, di un fuoco purgatorio riservato a coloro non del tutto buoni né del tutto cattivi, o ai peccatori pentiti prima della morte ma ancora bisognosi di penitenza. Ma ora per la prima volta questi temi entrano in una visione dell’aldilà. Tuttavia non si ha ancora la tripartizione inferno-purgatorio-paradiso: qui inferno e paradiso appaiono come sdoppiati. Così l’inferno, oltre alle pene eterne, presenta anche una zona di punizione temporanea e penitenziale, consistente nell’alternanza di un freddo e di un caldo intollerabili, che durerà fino al giorno del Giudizio. E a sua volta il paradiso è preceduto da una zona di attesa in cui le anime buone, ma non perfette, devono attendere il giorno del Giudizio per essere ammesse in paradiso. L’interesse per le forme di punizione temporanea domina anche nelle visioni presenti nell’epistolario di Bonifacio, l’ecclesiastico anglosassone protagonista dell’evangelizzazione della Germania.
In epoca carolingia la visione dell’aldilà conosce un nuovo campo di applicazione.
Appartengono al IX secolo una serie di visioni che possono essere definite “politiche” in quanto l’interesse non verte tanto sulla struttura dell’aldilà quanto sui personaggi di rilievo politico che sono ospitati nelle diverse zone: inferno, “purgatorio” (ancora non perfettamente definito) e paradiso. Il giudizio così emesso da una prospettiva oltremondana e “divina” sui personaggi politici defunti, per lo più rappresentanti dei vari rami e fazioni della dinastia carolingia, diventa una mossa nella lotta politica attuale. Appartengono a questo filone la Visione di una povera donna, la Visione di Wettino di Heito, la Visione di Rotchar, la Visione di Bernoldo, attribuita a Incmaro di Reims, e la Visione di Carlo il Grosso.
Di particolare interesse è la Visione di Wettino, in quanto presenta per la prima volta un aldilà tripartito, con la suddivisione in inferno, purgatorio e paradiso destinata a diventare canonica. In realtà il purgatorio non è collocato in un punto preciso, ma nel mondo ultraterreno si indicano una serie di luoghi di pena temporanea e purgatoria, destinata a cessare dopo il giorno del Giudizio. Lo stesso Carlo Magno è fra le anime sottoposte a queste pene transitorie. Degna di nota è poi la cura con cui si indica la corrispondenza fra le colpe e le punizioni oltremondane. Della Visione di Wettino esiste anche una fortunata versione poetica, opera giovanile di Walafrido Strabone: per la prima volta nel Medioevo la visione dell’aldilà incontra la poesia.
Si distacca dalle tipologie sinora esaminate la Navigazione di san Brandano: non si tratta di una visione o di un viaggio dell’anima, ma di un vero e proprio viaggio per mare compiuto dall’abate irlandese Brandano con un gruppo di monaci del suo monastero alla ricerca della dimora dei beati. L’opera appartiene al genere celtico degli imrama (“navigazioni”), racconti di viaggi marini verso occidente, e si basa sulla credenza celtica di un aldilà posto non verticalmente sotto o sopra la terra, ma orizzontalmente sulla superficie terrestre, al di là del mare, su isole lontane e irraggiungibili.
La versione in prosa latina risale al IX secolo; successivamente l’opera viene volgarizzata in molte lingue europee (XI-XIV sec.), mentre il poeta anglonormanno Benedeit ne offre nel XII secolo una rielaborazione poetica.