Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo un inizio segnato dalla dipendenza dalla produzione drammaturgica straniera, il teatro tedesco del Seicento elabora un proprio linguaggio autonomo. Di estremo rilievo il contributo dato dai gesuiti al successo delle forme e delle attività teatrali. Tra i drammaturghi tedeschi più celebri di questo secolo vanno ricordati Andreas Gryphius e Daniel Casper von Lohenstein.
Gli esordi
Sul finire del Cinquecento, alcune compagnie teatrali inglesi rappresentano in Germania numerosi drammi elisabettiani (fra l’altro testi di Christopher Marlowe, William Shakespeare, Thomas Kyd); tali novità conquistano ed entusiasmano ben presto i tedeschi, colpiti non tanto dalle parole quanto dai violenti, meravigliosi e orrifici effetti scenici. Solo pochi anni dopo, peraltro, essi cominciano a recitare tali pièce “d’importazione” in prima persona, dopo averle tradotte e arricchite con grossolane scene burlesche e giocose, spesso interpretate da attori-acrobati. Dal 1620 in poi, comunque, anche gli interpreti inglesi recitano soltanto in lingua tedesca.
Fra i molti creatori di testi nuovi che traggono ispirazione dai drammaturghi inglesi, si deve ricordare Jakob Ayrer di Norimberga, autore di ben 100 pièce fra tragedie e farse, in cui la spettacolarità, il fasto delle scene e la musica prevalgono di gran lunga sulle finalità pedagogico-morali.
Heinrich Julius duca di Braunschweig compone poi 11 commedie per gli attori inglesi che per suo comando dal 1592 si trasferiscono definitivamente alla sua corte, dove egli fonda un teatro stabile. Nelle sue commedie, il principe sa passare abilmente dai toni alti ed enfatici delle scene serie ai bassi e popolari di quelle buffonesche.
Il teatro dei Gesuiti
Celebre e rilevante fenomeno culturale del Seicento controriformistico tedesco è il teatro dei gesuiti che, nato dal dramma religioso latino rinascimentale, si sviluppa soprattutto nella Germania meridionale e nell’Austria (che, come è noto, sono aree cattoliche). Esso si caratterizza, fra l’altro, per l’uso della lingua latina, per gli imprescindibili fini morali ed edificanti, per le scenografie grandiose ed estreme (che richiedono necessariamente l’impiego delle celebri macchine barocche, indispensabili per i numerosi e rapidi cambiamenti di scena) e infine, per le molte musiche e danze di accompagnamento.
Questi drammi vengono di solito interpretati dagli studenti dei collegi gestiti dalla Compagnia di Gesù (si rammenti che l’attività teatrale è considerata dai gesuiti un vero e proprio esercizio retorico ed è parte integrante del loro piano di studi) e hanno come scopo principale quello di edificare tanto gli attori quanto il pubblico: in virtù delle numerose scene forti, suggestive e in rapida successione, i fedeli vengono infatti vigorosamente stimolati a diventare cristiani più zelanti ed entusiasti.
La prima composizione teatrale originale del barocco tedesco della Controriforma è l’Udo (1598) del gesuita JakobGretser . In quest’opera, emblematica del suo genere, viene narrata la dolorosa vicenda di un arcivescovo eccessivamente bramoso di gloria e di potere, che soltanto dinanzi alla morte si rende conto di essere dannato.
Fra i non pochi scrittori che si cimentano nel teatro gesuita, Nikolaus Avancini viene ricordato soprattutto per la pomposa spettacolarità dei suoi lavori; in essi ha importanza nodale l’elemento politico e, più precisamente, il principio del trionfo sicuro del sovrano che combatte nel nome di Dio. Il suo dramma più celebre è Pietas Victrix (La vittoria della religione) che, recitata a Vienna nel 1659, ha per soggetto la decisiva conversione al cristianesimo dell’imperatore Costantino e il suo successivo trionfo, dopo numerose battaglie, in cui intervengono (secondo la consuetudine del tempo) anche schiere di diavoli, sull’esercito di Massenzio.
Jakob Bidermann
Figura di ben maggior rilievo è, comunque, Jakob Bidermann, autore di circa dieci pièce in latino, una sola delle quali è divenuta un classico: il Cenodosso (1602). Nel 1635 ne viene pubblicata una traduzione in versi tedeschi, compiuta da un altro dotto gesuita, Joachim Meichel: soltanto grazie a questa felice versione, in verità, il dramma viene ancor oggi letto e apprezzato dai cultori della letteratura tedesca. Tale traduzione conferisce all’originale latino un aspetto assai più teutonico e popolaresco.
Bidermann è un coscienzioso professore di retorica e di teologia a Monaco di Baviera e a Dillingen e, dal 1622, assistente del generale della Compagnia di Gesù a Roma, città dove si spegne all’età di 61 anni.
Scritto in un latino nitido ed elegante, il Cenodosso è imperniato sulle vicende di un dotto ipocrita che, sebbene assai stimato dalla maggior parte dei suoi simili, è condannato da Dio alle pene eterne nel più orrido degli inferni controriformistici. Il motivo di questo giusto verdetto risulta chiaro: Cenodosso ha rifiutato di rischiarare, di scandagliare la sua interiorità, pur sapendo di non essere in armonia col volere divino. Ha vissuto così un’esistenza vuota, perché fondata esclusivamente sulle apparenze.
Questo dramma è certamente uno dei testi più pregnanti del teatro secentesco. Esso è la triste storia, ambientata in un cupo Medioevo, di Cenodosso (che in greco significa “vana gloria”), giusperito parigino abile, accorto e di gran fama, che tutti reputano in odore di santità per la carità, la misericordia e la magnanimità che manifesta nelle sue nobilissime azioni. Ma il volto autentico del giurista è alquanto diverso dalla maschera che lo copre: egli compie il bene non già per ottemperare ai comandi divini, ma soltanto per dimorare in eterno nel ricordo di quanti lo elogiano; egli non desidera altro che l’autosoddisfazione e le lodi degli uomini, e pertanto cerca smodatamente e senza posa di farsi ammirare dagli altri, che di sovente, colpiti dalle apparenze, lo coprono di gratificazioni.
Egli crede, erroneamente, che per essere giusti basti conformare la propria condotta ai precetti dell’etica stoica, non comprendendo che la fedeltà a essi non può essere sufficiente per un cristiano. Fino alla morte, Cenodosso continua imperterrito a vestire i panni del santo ascetico e virtuoso. Contro tal sorta di ipocrita, comunque, il giudizio di Dio non può che essere di inappellabile condanna alle più aspre pene dell’inferno. Nel corso del dramma intervengono, oltre a uomini, angeli e demoni, anche figure allegoriche (Ipocrisia, Amor proprio) che, retaggio del teatro sacro medievale e rinascimentale, appaiono interessanti almeno quanto i vizi, le virtù e i numerosi altri personaggi simbolici degli autos di Calderón de la Barca.
Andreas Gryphius
Tutti concordano nel ritenere che Andreas Gryphius sia il maggiore drammaturgo tedesco del Seicento. Uomo geniale, curioso ed eclettico, ma colpito fin dall’infanzia da lutti strazianti (padre, madre, fratello, sorella, amico prediletto) e da gravi malattie, mostra una cultura e un’apertura mentale davvero straordinarie: padroneggia ben 11 lingue tra vive e morte, scrive magistrali versi in latino e si cimenta in studi di medicina, diritto, filosofia, astronomia e astrologia. Fervente protestante, moralista stoico-cristiano (ma disingannato e amaramente pessimista) e poeta lirico di grande profondità, Gryphius raggiunge i suoi risultati più convincenti nelle pièce teatrali, di sovente ispirate a Pierre Corneille (che conosce in Francia), agli spettacoli dei gesuiti (che può vedere in Italia) e anche ai lavori di alcuni autori olandesi (in special modo Joost van den Vondel). Sensibile ai gravi eventi storici della sua epoca, egli ritrae mirabilmente nelle sue tragedie grandi e nobili personaggi che, flagellati da un destino crudele e impietoso o dall’implacabile malvagità altrui, sanno essere eroicamente superiori a ogni contingenza mondana, manifestando virtù inflessibile, abnegazione stoico-cristiana, virile rassegnazione e, soprattutto, lucida consapevolezza della vacua vanità di ogni cosa terrena.
Fra le sue tragedie ancor oggi ben note, vogliamo qui menzionare il Leone armeno, dove predomina l’elemento politico e la riflessione su di esso; Caterina di Georgia, esotica tragedia del martirio religioso tratta dalla storia contemporanea; Carlo Stuart, in cui il monarca inglese viene dipinto come un eroe stoico-cristiano; Papiniano, ove la virtù, il coraggio e la costanza del sommo giurista-filosofo sono felicemente esaltate. Cardenio e Celinda è invece un dramma fantasmagorico borghese ambientato nella Bologna studentesca, in cui vengono descritte le drammatiche conseguenze (un’orrida morte) di una sensualità incontrollata e irrazionale.
Gryphius compone anche sapide e divertenti commedie, che dimostrano come questo scrittore solitamente cupo e profondo sappia anche ridere e far divertire, compiacendosi di soggetti comici che, in certi casi, non sono alieni da sconcertanti stravaganze e grossolane trivialità.
Fra di esse, menzioniamo Peter Squentz, in cui l’autore si fa beffe di poveri artigiani ateniesi che, come nel sogno di una notte di mezza estate shakespeariano, mettono in scena un grottesco spettacolo (una versione piuttosto oscena della favola di Piramo e Tisbe). Graziosa e garbata appare invece l’Amata Rosaspina, farsa villereccia spassosa e genuina scritta in dialetto slesiano. Essa è incentrata sugli amori di due simpatici contadini (Gregorio Fioraliso e Lisa Rosaspina), a cui si oppongono tenacemente diversi personaggi assai buffi (il cugino di Gregorio, il padre di Rosaspina, un ex soldato rude, prepotente e voluttuoso, e una vecchia strega). I due giovani, infine, riusciranno a sposarsi grazie alla sentenza di Guglielmo d’Altosenno, giudice quanto mai orgoglioso e pieno di sé, ma equo e umano.
Andreas Gryphius
Gugliemo decanta le sue lodi
L’amata Rosaspina
Sono in scena GUGLIELMO D’ALTOSENNO, amministratore del podere di Spocchieto, preceduto da CORRADO e LORENZO i quali portano ciascuno una forca da fieno.
GUGLIELMO: Peccato, peccato davvero che la gente non mi conosca. Io sono un uomo di corte, sono un politico. Se fossi stato segretario di Cromwell, non l’avrebbero mai deposto. Credete a me, se fossi l’imperatore dei turchi, mi lascerei forse strangolare come il Suldato Ibrahim? Uno su cento capisce che cosa c’è in questa testa. Ma veniamo ad rebus. Devo riconoscere che dove non c’è autorità, non c’è paura, e dove non c’è paura il suddito non bedisce un filo.
Il padrone di questo villaggio di Spocchieto è un onesto cavaliere, ma per quei bricconi di contadini è troppo buono. Perciò commettono ogni sorta di surdità. Ma da quando io, attenti bene! io sono stato sindaco prima di lui e ho ministrato il villaggio, le cose vanno un po’ meglio, io non permetto che le terre e la gente vadano in rovina.sono nato nobiluomo è vero, ma ho più capacità nel mignolo di quanto altri non abbiano cervello in zucca. Non ho mai frequentato neanche l’universalità e non sono un letturato, ma ciò nonostante sono maledettamente infezionato ai letturati. Per conservare la mia deputazione, ho nominato voi due miei alaguardieri, proprio come fossi un piccolo principe che si fa sempre proteggere dalle guardie, e benché non portiate le alaguarde, col tempo ci si arriverà. Mi promettete di essere miei fedeli servitori?
CORRADO: Sì, signore.
GUGLIELMO: Dimmi lustrissimo, villano che sei, e fai la deferenza. Credi di aver a che fare con uno scalzacane o con un tuo pari? Spero di vedere il giorno in cui mi si darà il titolo di Signoria o magari di Eccedenza. Adesso qui sono il padrone. Ripeto dunque: mi promettete di essere miei fedeli servitori?
CORRADO e LORENZO: Sì, lustrissimo.
GUGLIELMO: E di fare o non fare ciò che vi ordino o vi proibisco?
CORRADO e LORENZO: Sì, lustrissimo.
GUGLIELMO: Bravi, così va bene. Adesso terrò le audienze. Prima ci voleva qui un’intera tavolata di sessori anche per le più piccole liti. Adesso invece darò io tutte le proporzioni e vincerò tutte le cause senza sindaci, procuratori, avvocati o chi altro diavolo sia. Vai a vedere chi c’è di fuori e avvertili che possono entrare modestamente, facendo la deferenza e dandomi il titolo che mi aspetta.
[Entra il segretario comunale CIGLIO]
CIGLIO: Signor sindaco!
GUGLIELMO: Signor imbecille!
CIGLIO: Signor sindaco!
GUGLIELMO: Signor imbecille!
CORRADO: Dovete dire lustrissimo.
CIGLIO: Lustrissimo signor sindaco.
GUGLIELMO: Lustrissimo signor poltrone!
CIGLIO: Infine, come si deve dire?
GUGLIELMO: Non si sa forse che sono il ministratore di questo villaggio?
CIGLIO: Va bene, lustrissimo ministro e attore.
GUGLIELMO: Così va bene. A ognuno bisogna mostrare il dovuto dispetto e tutto fila a dovere. Che cosa volete, Ciglio?
CIGLIO: Lustrissimo signor esattore, i vicini e i cittadini di Refeto, mi hanno nominato loro rappresentante e mi mandano qui ad augurarvi il buon giorno e a mettersi a vostra esposizione e vi pregano di lasciar libero il bestiame che i vostri contadini hanno esportato e rinchiuso. Dixi.
GUGLIELMO: Niente dixi. Ascoltate, segretario e ambasciatore di Refeto. Dite ai vostri principali da parte mia che se vogliono tenere le mucche, devono tenerle sul loro terreno e non danneggiare i miei ministrati o aspettarsi che sia fatto loro ciò che ora è accaduto. Avete un’autorizzazione scritta?
CIGLIO: Lustrissimo signor sindaco... amministratore, volevo dire, mi sono sbagliato. Non porto nessuna cauterizzazione, ma voi mi conoscete anche senza. Da noi nessuno sa scrivere tranne me, voi lo sapete benissimo, e se avessi dovuto procurarmi quella cosa, avrei perso tempo e mi sarebbe costato un foglio di carta. Per questo avrei dovuto andare in città, e intanto le vacche sarebbero crepate di fame. Perciò mi dovete pur credere. Ma veniamo al fatto: le vacche non hanno pascolato sul vostro, ma sul nostro. Il prato dal quale le avete fatte cacciare è nostro.
GUGLIELMO: Non dico di no. Ma credete voialtri di poter impadronirvi di tutto questo villaggio? Il prato appartiene alla baronia.
CIGLIO: Vi dimostreremo con molti testimoni che è nostro. Il barone non lo ha mai negato e deve essere scritto anche nel libro dello scabino.
GUGLIELMO: Certo, il barone è un buon uomo e quando ha un libro e un bicchier di vino, se ne impipa di tutto il resto. Adesso però sono qua io. I vostri testimoni sono cospetti e il libro dello scabino è in mano vostra e vi avete scarabocchiato a vostro piacimento. Adesso cambieremo musica.
CIGLIO: Oh, lustrissimo, ripensateci! Anche noi abbiamo un’autorità e se non troviamo aiuto, dobbiamo cercare chi possiede forza e potenza.
GUGLIELMO: Se avete l’autorità laggiù, qui l’autorità sono io. Se il vostro padrone è gentiluomo, io sono ministratore. Se voi sapete un trucco, io ne so un altro, capito?
CIGLIO: Via, via, non riscaldatevi subito! Non vorrete mangiarmi se dico il vero.
GUGLIELMO: Silenzio! Siete un chiacchierone e se non avessi riguardo del vostro principale, ve la farei vedere io! Per questa volta restituirò le vacche ai miei cari vicini, ma se mi ritornate con queste ciance, invece che alle vacche, metterò a voi la corda al collo. Regolatevi, perché questa è la mia generosa volontà. C’è qualcuno altro di fuori?
CIGLIO: Molte grazie, lustrissimo. Dio ve lo rimeriti! Poi, lustrissimo, avrei un’altra cosa da dirvi a proposito dell’offerta al campanaro per la campana a stormo durante i temporali.
GUGLIELMO: Levatevi da torno, dico, o vi faccio filare a rompicollo. Non ho tempo per gli sciocchi come voi e i vostri pari. Fai entrare gli altri!
CORRADO: Sì, lustrissimo. Ce n’è fuori quanto un intero villaggio e non avranno posto qua dentro.
GUGLIELMO: Chi sono? Falli pure entrare tutti insieme!
Entrano GIACOMINO TRÌGONO, BORTOLO CIOCCO, GREGORIO FIORALISO, MATTEO VÈNTOLA, LISA ROSASPINA e SALOMÉ
GREGORIO: Buongiorno, signore.
LORENZO: Devi dire lustrissimo.
GIACOMINO: Buongiorno, lustrissimo.
GUGLIELMO: Vi ringrazio. Che cosa portate di buono?insieme: Lustrissimo signor ministratore!
GUGLIELMO: Fermi, fermi, non gridate tutti come bifolchi ubriachi. Uno per volta!
BORTOLO: Lustrissimo signor ministratore!
GIACOMINO: Taci tu! Devo parlare prima io.
BORTOLO: Bugiardo della malora, prima devo parlare io.
SALOMÉ: Niente affatto, io devo parlare. Si tratta dell’onore e dell’onestà. È un affare grosso.
GREGORIO: Nossignore. Io, lustrissimo, devo parlare per primo.
GUGLIELMO: Che dice la signorina Rosaspina?
ROSASPINA: Vorrei lasciare tempo agli altri. Quando le loro questioni saranno risolte, si potrà forse aggiustare la mia.
GUGLIELMO: Benissimo. Procediamo per ordine. Nessuno interrompa! Presentate le vostre questioni in breve, con precisione e con calma e ricordatevi che siete davanti al lustrissimo Guglielmo d’Altosenno.
BORTOLO: Che cosa devo dirvi, signor lustrissimo? Vedete, il mio gallo parla per se stesso. Il servo di Giacomino, mio vicino, al quale si permette ogni birbonata, nato com’è per rovina del villaggio intero, voleva colpire al collo il mio povero gallo che non aveva né colpa, né peccato, e gli ruppe una gamba. Vedete, se l’avesse colpito nella testa, gli avrebbe fracassato il cranio. Perciò chiedo che lui e il suo servo siano puniti a suon di bastonate e che mi faccia guarire il gallo o me ne procuri un altro, ma di peso uguale, della stessa età e non più vecchio, che sappia cantare altrettanto bene e fare per filo e per segno tutto quanto faceva questo.
GUGLIELMO: Non avete altro da dire?
BORTOLO: Oh, lustrissimo, avrei ancora molte cose intorno all’onore e all’onestà di Matteo Vèntola, ma sbrigate prima di tutto questa causa. Gregorio Fioraliso vi esporrà lui il resto.
GUGLIELMO: Che dice Giacomino in questa controversia?
GIACOMINO: Lustrissimo signor ministratore, è una faccenda seria. Ecco, la mia povera cagna, questa gentaglia sacrilega e malvagia me l’ha conciata come fosse stata per sei settimane nella buca delle carogne. Vedete, avevano tirato in casa la mia bestia e per divertimento l’hanno scottata con l’acqua bollente o non so che altro fosse. Guardate com’è ridotta! Meno male che fa già freddo; se avessimo ancora la canicola, da un pezzo sarebbe idrofoba e piena di vermi come un cacio pecorino.
GUGLIELMO: Ho chiesto che cosa hai da dire per il gallo? Incomincia col discolparti! Se poi avrai qualcosa da dire, sarai ascoltato.
GIACOMINO: Vedete, lustrissimo padrone, può essere e può non essere. Chi può stare sempre sul didietro di questa gentaglia? Del resto un gallo conta meno del cane e costui ne ha fatte più di un tagliaborse.
BORTOLO: Mi pare, mi pare che tu non sia da meno.
GUGLIELMO: Tu però non sei meno colpevole di lui, per via del cane.
BORTOLO: No, non io, signore. Ho sentito che lo ha fatto la mia Rita.
GIACOMINO: Avete sentito, signore? Ha confessato. Aiutatemi ora!
BORTOLO: E anche me.
GUGLIELMO: Siete bricconi tutti e due. Non fate che litigare. Vi castigherò in modo che possiate servire d’esempio agli altri. Sentiamo, che hai da dire tu, Vèntola?
MATTEO: Che volete che dica? Fioraliso mi ha fatto una trentina di lividi e tre ferite: perciò vi prego di castigarlo e di costringerlo a indennizzarmi o a pagare il dottore e a rifondermi il danno e le spese.
GUGLIELMO: Tu Fioraliso? Ti ho sempre creduto un bravissimo ragazzo. Possibile che ora ti sia venuto il diavolo addosso?
GREGORIO: Ecco, lustrissimo signor sindaco, si fa quel che si deve. Fate parlare anche Rosaspina o interrogate il suo babbo. Il diavolo se lo porti quel ladro e mascalzone!
GUGLIELMO: Ehi, dico! Davanti al giudice?
GREGORIO: Abbiate pazienza se non so comportarmi. Quell’individuo, o chiamandolo per nome, Matteo Vèntola, con licenza parlando, voleva prendere Rosaspina con la violenza e se per fortuna non fossi arrivato io, quella faceva una brutta fine. Chissà che cosa le avrebbe combinato!
GUGLIELMO: Com’è andata, Rosaspina?
ROSASPINA: È andata come ha detto lui. Vèntola mi rivolse anzitutto un lungo discorso, poi volle farmi violenza vantandosi di essere un soldato al quale ogni cosa è lecita. Non tocca a me dire più di così. Se Fioraliso non mi avesse salvata e il mio babbo non fosse accorso in aiuto, questa volta ci avrei rimesso la vita e l’onore.
GIACOMINO: Lustrissimo signor sindaco o, diciamo, ministratore, è la verità. E se non ve ne renderete conto, andrà a finire che nessuno più sarà sicuro con la propria creatura tra le sue quattro pareti. Grazie a Dio, in paese regna la pace. Nemmeno durante la guerra si sono viste cose di questo genere.
GUGLIELMO: Basta così. Sapremo come regolarci, caro galantuomo: chi ti ha suggerito tali bravate? Insidiare fanciulle oneste all’aria aperta!
MATTEO: Che volete, lustrissimo? L’amore è una buffa cosa e mamma Salomé mi disse che, se si ha intenzione di finire in chiesa, la cosa ha poca importanza.
GUGLIELMO: Salomé, vecchia pellaccia rognosa e rugosa, che diavolo ti prende alla tenera età di ottant’anni?
SALOMÉ: No, no, lustrissimo signor sindaco, lustrissimo ministratore, non mi crederete capace di una simile bambinata. Non mi è mai passata per la mente. E tu, Matteo Vèntola, non ti vergogni di mentire così? Non ti ho mai visto da due anni a questa parte.
MATTEO: Eh, mai visto? Non ricordate che nel camposanto vi ho dato due talleri e voi mi avete dato un ciuffo di capelli e mi avete detto che, se con questi toccavo Rosaspina, lei era costretta a volermi bene?
SALOMÉ: Tu menti, tu menti. Tutte bugie. Lustrissimo, voi non gli credete, vero? Sono sei anni che non metto piede in una chiesa, meno che mai nel camposanto.
GUGLIELMO: Bell’attestato ti dai! E tu, quanto le hai dato per quei capelli?
MATTEO: Due talleri buoni e sonanti.
SALOMÉ: Io non ho visto un quattrino.
MATTEO: Come, non hai visto? Uno lo cercasti a lungo perché ti era caduto nell’ossario.
SALOMÉ: Ma no, signore, non credetegli! Cercavo soltanto un teschio o magari un paio. Se ne possono fare così belle forme da cacio che possono servire anche per altre cose.
GUGLIELMO: Ma non dicevi che da due anni non sei entrata né in chiesa né in camposanto? Bene, bene, ci penso io.
SALOMÉ: Davanti a Dio e al mondo mi si fa torto.
GUGLIELMO: Zitta! Devo sentire anche gli altri. Fioraliso, hai da dire ancora qualcosa?
GREGORIO: Sì, avrei ancora da dire. Voi sapete, lustrissimo, che quando si promette onestamente qualcosa, si deve anche mantenere. Ora l’onesto e modesto Giacomino Trìgono mi promise di esaudire una mia preghiera.
GUGLIELMO: È vero, Trìgono?
GIACOMINO: Sì, sì, gli ho promesso una cosa, ma non quella che intende lui.
GREGORIO: Via, cercate di ricordare. Me l’avete promesso con una stretta di mano, qualunque cosa fosse. E poiché vi chiesi Rosaspina, non ne avete più voluto sapere.
BORTOLO: Ti avevo detto di non parlare di Rosaspina.
GUGLIELMO: Stai zitto tu e lascia parlare le parti. Fioraliso, dì pure quel che hai da dire!
GREGORIO: C’è inoltre nel nostro villaggio un’antica consuetudine, che quando uno aiuta una giovane a salvare l’onore, essa appartiene a lui, sempreché lei sia d’accordo. Perciò, lustrissimo, penso che non sarebbe male se voleste aiutarmi a sposare Rosaspina davanti a Dio e secondo quella consuetudine, e persuadere i due amici, mio cugino e il babbo di lei, a far la pace.
SALOMÉ: Oh, guarda un po’, questa sarebbe bella! Che gioia! Dì, Fioraliso, non hai fatto la promessa a me? Mi pare non stia bene che costui voglia prendere due mogli in una volta.
GREGORIO: Corpo del diavolo e di sua madre, io non t’ho promesso niente!
SALOMÉ: Non hai promesso? Non mi hai dato per conferma un tallero d’argento e un fiorino d’oro?
GREGORIO: Tu menti, brutto demonio. Sono cose che non potrei sognare neanche il Martedì grasso. Vi ho dato, sì, il denaro perché parlaste con Rosaspina e intanto mi manteneste la vacca.
SALOMÉ: Giusto, ma hai detto anche che avresti preso me.
GREGORIO: Prendere te? Che cosa ho detto quando mi avete chiesto due volte o tre se avrei preso voi quando Rosaspina non mi volesse? Ho detto che ci avrei ripensato.
SALOMÉ: Ebbene? Non hai avuto tempo sufficiente per ripensarci?
GUGLIELMO: Credo che tante dispute non si facciano in un giorno neanche nel regio parlamento di Parigi. Ma non voglio tenervi a lungo sulla corda. Ritiratevi là in quell’angolo e lasciatemi riflettere. [Si alza e passeggia in su e in giù]
SALOMÉ: Devi avermi, dovrai prendermi! Ti voglio prendere a dispetto di Rosaspina.
GREGORIO: Piuttosto, vecchia strega, voglio fare un buco nella terra e sprofondarvi per cento miglia, vecchiaccia a cavallo della scopa!
SALOMÉ: Vuoi togliermi persino la mia reputazione? Me la devi pagar cara.
GUGLIELMO: [passeggiando] Capisco che, se non faccio valere seriamente la mia autorità, in avvenire mi si prenderà sotto gamba. Bene, bene. [Si rimette a sedere] Venite qua! Tu, Bortolo Ciocco, e tu, Giacomino Trìgono, siete due vecchi petulanti e rissosi attaccabrighe, e non vi vergognate di insultarvi e vilipendervi da un anno all’altro in modo da recare scandalo e vergogna a tutto il paese e non vi peritate per un gallo con un occhio solo...
BORTOLO: Nossignore, ne ha due.
GUGLIELMO: E per un cane pieno di pulci, di mettere a rumore tutto il vicinato, di abbandonare il lavoro e di incomodare con tanta cattiveria l’ufficio del giudice. Poi, siccome vedo che vi vantate dei vostri talleri e avete un po’ di autorità nel villaggio, cercherò di farvi passare l’uzzolo. Tu, Bortolo Ciocco, pagherai oggi per ammenda 15 dozzine di vecchi talleri, porterai per tre volte la cagna sulle spalle su e giù per il villaggio, starai tre mesi nella tanaglia piedi e mani stretti, e per due anni non sarai ammesso nell’osteria né ad alcuna fiera, a nozze o a banchetti tra compagni.
BORTOLO: [grattandosi la pera] Ahi, ahi, lustrissimo, la pena è troppo severa...
GUGLIELMO: Silenzio, dico!
MATTEO: Povero me, chissà che cosa mi tocca!
GUGLIELMO: Tu, Giacomino Trìgono, che hai incominciato la lite, pagherai dieci dozzine di fiorini ungheresi in contanti in una volta sola prima dell’alba, starai sei mesi con le mani e coi piedi chiusi nella tanaglia, venderai poi entro sei settimane e tre giorni la casa e il terreno e ti leverai dal paese. Se ti ci fai trovare, non ti dico quale sarà il castigo.
GIACOMINO: Ahi, ahi, quel gallo mi costa caro.
[I due si guardano a lungo con tristezza]
GIACOMINO: Oh, mio caro signore, non siate così severo! Abbiate pietà dei miei capelli grigi e dei miei poveri figlioli!
GUGLIELMO: Silenzio! Bisogna pur dare un esempio. Tu, Fioraliso, benché la promessa che ti ha fatto Giacomino si possa ancora contrastare, in ogni caso, siccome hai salvato la giovane Rosaspina, se lei è d’accordo, ti sia sposa, e il gallo azzoppato, che spetta ormai al tribunale, te lo regalo io per le nozze.
GREGORIO: Dove sarà nel mondo intero un uomo più felice di me? Che cosa dice Rosaspina? Presto, presto, prima che il mio povero cuore bruci e si consumi!
ROSASPINA: Siccome il diritto e il giudice me lo riconoscono, bisognerà che accetti.
GIACOMINO: Miei cari figlioli, non sono più in collera. Ditemi che cosa desiderate!
BORTOLO: Chiedi, chiedi, che è ora! Farò volentieri la vostra volontà.
SALOMÉ: Ho udito bene? Lei piglia un marito e io niente?
GUGLIELMO: Avrai anche tu la tua parte.
SALOMÉ: [piangendo e gridando] Ahi, ahi, ahi, Rosaspina piglia Fioraliso!
GREGORIO: Lustrissimo signor ministratore, vi ringrazio della bella sentenza, ma se con le mie preghiere posso ottenere qualcosa, abbiate pietà della mia cara Rosaspina e condonate a suo padre una parte del castigo!
ROSASPINA: Anch’io prego umilmente per il mio carissimo cugino.
GUGLIELMO: Non son degni di questa intercessione.
GIACOMINO e Bertolo: Abbia compassione chi la può avere fin dove è possibile!
GREGORIO: Come si potrebbe commuovervi, lustrissimo?
GUGLIELMO: Non meritano alcuna pietà. Tuttavia voglio essere generoso e concedere loro il vantaggio della vostra preghiera: non condonerò questa volta il castigo, mettetevelo bene in mente, ma lo voglio soltanto rimandare. Se in avvenire commettete il più piccolo fallo, saprò precedere contro di voi.
GIACOMINO: Me ne guarderò bene. E Dio mi aiuti!
BORTOLO: Terrò conto di questo avvertimento.
GUGLIELMO: Andiamo, stringetevi la mano e cercate di vivere concordi da buoni parenti! [A parte] Che volete, voglio che regni la pace tra i miei sudditi. [Forte] Tu, Matteo Vèntola, hai già in tasca la sentenza, e siccome non mi piace gravare di spese i miei sudditi, e tu non hai quattrini da pagare il dottore, manda oggi ad avvertire il parroco e domani mattina alle otto salirai sul campanile che è tutto finestre e starai in prigione all’aria aperta.
MATTEO: Lustrissimo signor ministratore, siete forse ammattito? Non è possibile che facciate sul serio.
SALOMÉ: Oh, signore, se potessi avere la vacca! Fate in modo che me la possa tenere.
GUGLIELMO: La vacca spetta al suo padrone e benché tu, Salomé, come strega e mezzana, per tutte le tue malefatte avessi meritato da un pezzo il rogo, voglio essere clemente. Siccome in ogni caso dobbiamo far venire il boia dalla città, starai a guardare come Matteo Vèntola prenda commiato. Poi ti si taglieranno le orecchie, sarai marchiata in fronte con un ferro rovente, prima però ti saranno levate le pulci dalla schiena a furia di vergate.
SALOMÉ: [cade in ginocchio e grida]Perdono, signore, perdono! Non avevo intenzioni malvage.
MATTEO: [in ginocchio] Signore, non me ne ero reso conto: sono ancora troppo giovane.
SALOMÉ: Lustrissimo, cercherò di fare del bene.
MATTEO: Cercherò di essere più buono. Signore, sarò il vostro buffone.
SALOMÉ: Oh, caro signore, sarò la vostra formaggiaia, vi farò da portinaia.
GUGLIELMO: In voi non c’è niente di buono. Perciò levatevi da torno! Ma se promettete di diventare migliori...
SALOMÉ e MATTEO: Sì, sì, sì.
GUGLIELMO: Voglio farvi dono della vita a questa precisa condizione: che domani diventiate marito e moglie.
GREGORIO: Io per me mi farei impiccare sei volte invece che prendere questa orribile vecchia.
MATTEO: Facile per te. Ma la vita è cara.
GUGLIELMO: Datevi subito la mano e diventate più buoni! Altrimenti rincaro la dose.
GIACOMINO: Quanta paura ho avuto!
BORTOLO: E come mi sono sentito stringere la gola!
GREGORIO: Sono i miracoli dell’amore.
ROSASPINA: Così è premiata la casta fedeltà.
MATTEO: Mi sentivo venire il capogiro all’idea della scala.
SALOMÉ: Come mi prudeva la schiena! Ma ora tutto è a posto. Ora acquisto un bel giovanotto.
GREGORIO: [parla in segreto con suo cugino, poi dice] Lustrissimo, signor ministratore, fateci la grazia di venire stasera a tavola con noi e, domani o quando saremo pronti per le nozze, alla nostra festa.
GUGLIELMO: Vedremo, vedremo. Per oggi sarete ospiti miei.
SALOMÉ: Anch’io, lustrissimo?
GUGLIELMO: Voi due andrete intanto in prigione, ma non vi mancherà da mangiare e da bere. [Si alza e si allontana] Così bisogna insegnare l’educazione ai bifolchi.
[Tutti gli altri lo seguono meno FIORALISO che si rivolge agli spettatori]
FIORALISO: Avete visto dunque che buffa cosa è l’amore. Per un tratto si va a tentoni per strani sentieri, ma se le intenzioni sono buone e oneste, è facile che si arrivi alla conclusione voluta. Care signore, signorine e signori, mi piacerebbe proprio invitarvi a casa mia. Ma avete sentito che io stesso sono spite. Se però volete venire posdomani da me per le nozze, sarete tutti benvenuti e, mi raccomando, siate puntuali, e non fateci perdere l’ora della messa e cercate di andare a letto per tempo, affinché la prima sera non mi riduciate la sposa in fin di vita a furia di ballare: ne avrò bisogno io. E così, vi auguro la buona notte.
in I. A. Chiusano, Antologia della letteratura tedesca, Milano, Fabbri, 1969
In tutte le opere serie di Gryphius, comunque, si sente nitida e costante la voce di un filosofo che canta drammaticamente la vanità di ogni meta meramente umana e terrena, il fondo cupo e sinistro che si cela anche sotto le forme più gradevoli e attraenti, e l’orrido volto di una morte sempre pronta a infierire. In uno stile limpido e calibrato, Gryphius esprime alcuni dei più inquietanti “universali” della letteratura morale e religiosa con pathos, forza e solennità davvero non comuni.
Quello da lui delineato, tuttavia, non è un mondo cupo ove trionfino le tenebre della disperazione: invero, come ben risulta soprattutto dalle sue poesie, esso è sempre illuminato dal raggio della fede in un Dio amorevole e generoso.
Daniel Casper von Lohenstein
Altro drammaturgo significativo è Daniel Casper von Lohenstein, scrittore e diplomatico tedesco vissuto durante la ricostruzione asburgica, epoca senza dubbio meno travagliata rispetto a quella di Gryphius e di Grimmelshausen; egli è anche autore dell’immenso e incompiuto romanzo eroico-encomiastico dedicato al magnanimo condottiero Arminio.
I protagonisti delle sue movimentatissime tragedie, sempre ispirate a un machiavellismo realistico lontanissimo da ogni misticismo, e ambientate in un remoto Oriente (Ibrahim Bassa, Ibrahim il Sultano) o nell’antica Roma (Cleopatra, Agrippina, Sofonisba), sono individualità di passionalità e forza vitale potentissime e incontenibili, che bramose di piacere e di potere, finiscono immancabilmente per esser vittime della sorte avversa, che le schiaccia e le divora clamorosamente. Leggendo i drammi di Lohenstein, non è arduo avvertire un’erudizione enciclopedica, una conoscenza accurata e scaltrita dei meccanismi e degli escamotage della politica e della diplomazia e un’esperienza vissuta in prima persona della vergognosa depravazione cortigiana. Non si deve dimenticare, infatti, che questo brillante uomo di lettere è magistrato e ambasciatore della città di Breslavia presso la corte di Vienna.
Daniel Casper von Lohenstein
Antonio e Cleopatra
Cleopatra
CLEOPATRA: Oh Dio, lo stanno portando! Mio principe, vita e luce mia! Vivi ancora, ci vedi? Sei ancora in te? Quale bufera ci sbatte, naufraghi, su questi scogli? Ecco respira, alza gli occhi, muove le pallide labbra... Ma la parola gli muore in bocca, è tutto in un sudore di agonia.
ANTONIO: Mio tesoro!
CLEOPATRA: Mio principe?
ANTONIO: Mia luce!
CLEOPATRA: Mia vita?
ANTONIO: Chiudi i miei occhi irrigiditi, ora che hai benedetto il mio spirito. Se la mia angoscia troverà quest’ultimo conforto, che il tuo grembo sia il guanciale su cui egli possa morire, Antonio entrerà con gioia nel porto della morte.
CLEOPATRA: Ahimè, dovrà Cleopatra assistere alla morte del suo principe? Che questo corpo consacrato si muti in una bara? Oh dèi, non consentite una così crudele sciagura! A me veleno, spada, pugnale!
ANTONIO: Ti prego, placati! Non negarmi, tesoro, la mia ultima preghiera.
CLEOPATRA: Che nessun serpe fabbrichi più il suo mortale veleno? Non vive più uno scorpione che ci possa uccidere? Su, svelti, infettate una coppa di vino con l’umore di animali velenosi!
ANTONIO: Vuoi col tuo dolore uccidere due volte me moribondo?
CLEOPATRA: Prima che l’infedeltà ci macchi, lascia che ci arrossi il sangue.
ANTONIO: La pazienza e il tempo portano a poco a poco aiuto e consiglio.
CLEOPATRA: Dimmi, che può ancora sperare di bene Cleopatra?
ANTONIO: Molto, ora che la mia morte placherà la sete di sangue dell’imperatore.
CLEOPATRA: Credimi, la sua fiumana d’odio sgorga più da me che non da te. E poi, a che mi giova il favore di Ottaviano? Quando tu, mia vita, mio tesoro, sarai spento, trono, corona e regno saranno un nulla per me, nient’altro che nebbia, vapori e ombre. Ahimè, non voglio più affaticare il mio spirito con simili cose. Basta! Cleopatra ormai può riposare in pace, non dovendo ormai gettarsi ai piedi dell’imperatore.
ANTONIO: Tesoro, non lasciarti fuorviare da questa chimera. E poiché la mia miseria non riesce a toccare il tuo cuore, poiché nessun figlio riesce a piegare il tuo cuore di madre, almeno non tormentarmi dopo che sarò morto. Se non concederai a me questo conforto, a te la vita, io non potrò riposare nemmeno nel sepolcro, la greve polvere schiaccerà le mie ossa, la mia tomba sarà squallida e vuota, la mia bara profanata. Il mio spirito pallido di terrore, la mia ombra tremante di paura si assocerà sulla mezzanotte ad altri fantasmi e vagherà orrendamente in questo devastato palazzo per assistere alla rovina in cui saranno caduti il popolo, il regno e i miei figli. Ma se tu, mia luce, ornerai la mia bara e il cadavere, se a me morto chiuderai le palpebre, se imbalsamerai la mia salma come si usa coi Tolomei, il mio corpo avrà ristoro e il spirito pace.
CLEOPATRA: Ah, quali rovesci dovrò ancora subire, sventurata!
ANTONIO: Il sole splende, benigno, dopo la piovosa foschia. Tesoro, il mio spirito vien meno, la mia dipartita è prossima. È gran tempo ormai che faccia testamento. Non io, è il tuo cuore materno che ti raccomanda i bambini. Piegatevi al destino, cedete al vostro vincitore. Che Augusto, insieme con te, sia il loro tutore. Una tale fiducia rabbonisce spesso il leone, che già affilava denti e artigli per piantarceli in seno. Voglio che il mio corpo non sia posto sul rogo all’uso romano, deponetelo nel sepolcreto dei Tolomei. Che Dercete sia affrancato e Diomede libero. Tutto il resto lo lascio decidere a te. Questi sono i miei ultimi voleri. In segno che il mio tesoro attuerà le mie estreme decisioni, voglio che la tua bocca lo suggelli con un ultimo bacio.
CLEOPATRA: Ahi, che questo amoroso legame non possa annodare nulla di buono!
ANTONIO: Datemi ancora del vino. Muoio.
CLEOPATRA: Ah, si spegne! Spirito, polso e calore sono fuggiti, la fonte delle vene non scorre più, convertita in ghiaccio mortale. Mio principe, mia vita, mia luce!
IRAS: Chi aiuta noi rami, ora che il nostro tronco si è spezzato?
CILLENIA: Ah, chi sta più alla testa del reame decapitato?
CARMIANA: Ahimè, la nostra regina s’irrigidisce sul cadavere del principe! È svenuta, portatela nella sua camera da letto.
in I. A. Chiusano, Antologia della letteratura tedesca, Milano, Fabbri, 1969
Ma quello che delle sue tragedie colpisce maggiormente il lettore moderno è la potenza concitata, e a tratti quasi parossistica, dei suoi inquieti personaggi. Artista squisitamente barocco (che, fra l’altro, si compiace del suo linguaggio ricco, sottile e denso di concetti, metafore e immagini, e ama i caratteri più estremi e gli effetti scenografici più sensazionali e meravigliosi), sarà bersaglio di molte critiche da parte di molti illuministi, che gli rimprovereranno aspramente i suoi vistosi eccessi.
Christian Weise
Christian Weise, poeta, romanziere e drammaturgo borghese alieno da ogni vago spiritualismo e dotato di forte coscienza etica, scrive i suoi molti drammi (circa una cinquantina) ponendosi sempre un fine morale preciso e concreto. Questo educatore, che dal 1668 è rettore della scuola superiore della sua città natale in Sassonia, vuole a tutti i costi migliorare ed emendare il suo pubblico, fornendogli modelli e consigli che al lettore attuale paiono, sinceramente, le buone massime e i validi esempi di un moralista un po’ pedante.
Weise compone numerosi drammi storici e biblici (fra i tanti possiamo ricordare Masaniello, opera ispirata a un celebre episodio della storia italiana, che pecca di eccessivo intellettualismo), ma dà il meglio di sé nelle commedie, che non di rado si presentano ricche di spirito e di ironia. Il motivo centrale de Il contadino dei Paesi Bassi (1685), come ne La vita è sogno di Calderón, è la confusione tra l’illusione e la realtà. Nel ruolo che nel modello spagnolo era affidato al principe, Weise fa agire un rozzo e cocciuto contadino, aggiungendo così alla lezione morale un originale spunto di comicità. L’anima insoddisfatta (1688) è una caricatura già per certi versi illuminista dell’eterno scontento: l’ipocondriaco e volubile Vertumnus si tormenta nella patologica indagine del proprio animo, finché l’esempio di un sapiente quanto pratico villano non gli insegna che il giusto scrupolo religioso va accompagnato e mitigato dalla capacità di godere delle gioie terrene. Il suo stile, antitetico rispetto a ogni fantasia barocca, è asciutto, secco e povero. Scrittore pragmatico, razionalista, fin troppo pieno di buon senso e avverso a ogni slancio lirico appassionato e fervido, Weise, seppur vissuto sostanzialmente nel Seicento, presenta già molti tratti che saranno tipici dell’illuminista settecentesco.