Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella Spagna del Seicento non solo vengono scritti alcuni dei capolavori assoluti del teatro di tutti i tempi, ma si compie altresì un’autentica palingenesi a livello compositivo. Il teatro profano viene introdotto in Spagna da compagnie italiane che, fin dal 1530 circa, percorrono la penisola iberica interpretando nelle pubbliche piazze il loro vasto repertorio. Gli spettatori sono in special modo attratti dalle commedie dell’arte, le celebri pièce improvvisate su canovacci convenzionali e con personaggi (o tipi) fissi (Arlecchino, Pantalone, il Dottore ecc.).
Lope de Vega
La prima commedia spagnola, scritta e rappresentata verso il 1554 da Lope de Rueda, ottiene uno straordinario successo. In breve tempo, si formano le prime compagnie teatrali spagnole e si costruiscono i primi luoghi specificamente adibiti alle rappresentazioni sceniche: i corrales, cortili dotati di un palco riservato agli attori. Gran parte del pubblico assiste in piedi agli spettacoli.
Già nel Cinquecento, Miguel de Cervantes e altri drammaturghi avevano ricercato con grande impegno una formula teatrale che andasse incontro alle richieste del pubblico, sempre più bramoso di spettacoli coinvolgenti e brillanti.
Solo Lope de Vega, tuttavia, è in grado, verso il 1590, di canonizzare il tipo di spettacolo adeguato alle esigenze degli spettatori: la comedia española.
Molti degli autori dell’epoca, poi, affascinati e attratti dal realismo scanzonato del romanzo picaresco, sentono l’esigenza di fondare su nuove basi lo spettacolo teatrale: essi vogliono portare in scena personaggi e situazioni tratte dalla realtà concreta (anche dalla vita quotidiana) e dalla storia patria, prendendo più o meno decisamente le distanze dai classici greci e latini e dalle loro regole rigorose e limitanti.
Massimo innovatore del secolo rimane comunque Lope de Vega (detto la “fenice degli ingegni”), che realizza le sue rivoluzionarie idee teoriche ed estetiche nella sua immensa produzione di commedie.
Lope intende superare le strettoie delle anguste regole pseudoaristoteliche e, in generale, classiche, unendo fra l’altro elementi comici e tragici nella stessa composizione. Di sovente poi trae i suoi soggetti dalla amatissima storia di Spagna (medievale o a lui contemporanea), e mira sempre a divertire e soddisfare quel vasto pubblico dal quale vuole a tutti i costi essere apprezzato.
Scrittore di prolificità leggendaria e quasi incredibile (1800 commedie, 500 autos sacramentales e molte e varie composizioni in versi), Lope non di rado trascura certi aspetti della composizione, ed è innegabile che nelle sue opere si riscontrino non poche cadute sia nello stile che nel contenuto. Nelle commedie descrive con intensa partecipazione emotiva le più nobili passioni umane (soprattutto quelle dei suoi diletti popolani) e analizza con disingannata attenzione le miserie e le bassezze dei nobili così come degli umili.
Poeta appassionato della vita nella sua globalità e cantore di un Paese che ama profondamente, Lope esprime la sua potente e un poco indisciplinata vena lirica non solo nelle molte poesie, ma anche nei componimenti che, nelle pièce, si interpongono fra una scena e l’altra.
Tirso de Molina
Contemporaneo, amico e seguace di Lope de Vega, Tirso de Molina, seppur non fecondo (scrisse circa 400 commedie) né geniale quanto il maestro, lo supera spesso per finezza nell’analisi psicologica dei caratteri. Sa inoltre affrontare con padronanza ed equilibrio anche tematiche e situazioni complesse da rendere sulla scena, quali, per esempio, i problemi teologico-morali.
Immortale e imitatissimo nei secoli successivi è inoltre il più celebre fra i suoi personaggi, don Giovanni, protagonista de Il beffatore di Siviglia (1630). Moralista serio e un po’ acido, ma dotato di realismo, intelligenza e ironia non comuni, Tirso non è peraltro insensibile al fascino del concettismo e soprattutto del gongorismo.
Pedro Calderón de la Barca
Pedro Calderón de la Barca è non solo l’autore spagnolo prediletto da molti romantici (prima tedeschi e poi, in generale, europei), ma è ancora oggi, con Cervantes, il più letto fra gli scrittori del “secolo d’oro”.
Nelle opere giovanili Calderón appare per molti aspetti condizionato dalla verve, dalle forme e dai concetti più caratteristici del teatro di Lope de Vega; in quelle della maturità, per contro, è ravvisabile un approfondimento morale e spirituale molto maggiore. Scaltro conoscitore dell’uomo, questo cristiano solitario, sincero e travagliato, dipinge con pari felicità ed efficacia gli slanci più nobili del cuore e le sue contraddizioni più assurde.
Sia le commedie (120 circa, tra cui è necessario ricordare la celebre La vita è sogno del 1636), sia, soprattutto, i mirabili autos sacramentales (80 circa) sono vere e proprie selve di simboli, e offrono allo spettatore una rappresentazione evocativa e, a volte, sconcertante delle più spinose problematiche storiche, morali, spirituali e religiose non solo del suo tempo. La vita è sogno racconta di Sigismondo, giovane erede al trono, che cresce per colpa di un infausto oroscopo nella selvaggia solitudine di una torre e apprende il valore della vita solo quando, ingannato, si convince che essa non è che un sogno di cui dopo la morte non rimane altro che il bene compiuto.
Pedro Calderón de la Barca
Richiesta di perdono
La vida es sueño
SIGISMONDO: Perché tanta meraviglia,
se mio maestro fu un sogno
e ancora tremo, nell’ansia
di dovermi ridestare
in una prigione oscura?
E seppure ciò non fosse,
il sognarlo, già mi basta.
In questa maniera ho appreso
che la felicità umana
passa infine come un sogno;
e oggi voglio approfittare,
di quest’attimo per chiedervi
perdono dei nostri errori,
se il perdonare si addice
a nobili sentimenti.
Testo originale:
SEGISMUNDO: ¿Qué os admira? ¿Qué os espanta,
si fue mi maestro un sueño,
y estoy temiendo en mis ansias
que he de despertar y hallarme
otra vez en mi cerrada
prisión? Y cuando no sea,
el soñarlo sólo basta;
pues así llegué a saber
que toda la dicha humana,
en fin, pasa como sueño.
Y quiero hoy aprovecharla
el tiempo que me durare,
pidiendo de nuestras faltas
perdón, pues de pechos nobles
es tan propio el perdonarlas.
Calderón de la Barca, La vita è sogno, trad. it. di L. Orioli, Milano, Bompiani, 1983
Ragione e istinto, salvezza e dannazione, realtà e sogno, potere e amore, nobiltà del sangue e onore sono alcune delle grandi linee tematiche che Calderón varia e rimedita nelle sue pièces che, pur portando in scena conflitti di idee, solo di rado si allontanano dal robusto realismo tipicamente spagnolo. Soprattutto nei drammi sacri appare di frequente uno dei motivi a lui più cari: la necessità che l’uomo accetti senza ribellarsi la parte che gli è stata affidata da un Dio onnipotente e assolutamente giusto nel “gran teatro del mondo”. Nel 1633 viene pubblicato uno dei più interessanti autos sacramentales di Calderón, El gran teatro del mundo: in conformità con il titolo, l’allegoria ha inizio con Dio che, autore della rappresentazione, distribuisce le parti al re, al ricco, al contadino, al fanciullo, alla bellezza e alla religione perché ognuno di loro vada a recitare il proprio ruolo nella grande commedia della vita umana.
Naturalmente, un uomo di profonda cultura e di grande sensibilità come Calderón era attratto dalle acute sottigliezze e dagli sfavillanti funambolismi di Francisco Quevedo e di Luis de Góngora: di fatto, nelle opere calderoniane - che non di rado indulgono a una spettacolarità fastosa e “barocca” - sono ben visibili influenze concettiste e cultiste.
Altri discepoli di Lope de Vega
Un altro abile discepolo di Lope è Guillén de Castro y Bellvis che, nelle sue prove migliori, riesce a fondere armoniosamente le sue esperienze culturali di respiro europeo (italiane soprattutto) con la vivace libertà della riforma di Lope de Vega. Per molte delle sue pièce egli trae spunto dalla novellistica italiana, dalla mitologia classica e, naturalmente, dalla storia e dalla tradizione nazionali (Romancero). Nella commedia dedicata al Cid, eroe nazionale per antonomasia, il drammaturgo realizza un ritratto ideale del virtuoso cavaliere cristiano.
Juan Ruiz de Alarcón y Mendoza, avvocato e drammaturgo messicano di origine spagnola, viene spesso brutalmente schernito per la sua provenienza e per la sua deformità fisica; tante sofferenze morali lo spingono a meditare sulla meschinità degli uomini, come risulta, fra l’altro, dalla satira acre e pungente da lui diretta contro molti personaggi dei suoi drammi. Dotato di una sensibilità squisitamente barocca, risente delle mode culturali del suo tempo.
Tra i numerosi seguaci e discepoli di Lope de Vega si possono ricordare anche Antonio Mira de Amescua, Luis Vélez de Guevara, Luis Quinones de Benavente, Francisco de Rojas Zorrilla, Augustén Moreto y Cabaña.