Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia del teatro inglese del Seicento si può dividere in due grandi periodi: quello elisabettiano – in cui fiorisce un teatro di grandiosa potenza drammatica e forza inventiva – che si estende convenzionalmente oltre la morte di Elisabetta I fino al 1642, anno in cui il governo puritano ordina la chiusura dei teatri, e quello della Restaurazione (1660-1700), dominato dalla commedia di costume.
Il teatro elisabettiano
Il teatro elisabettiano, giunto a piena maturità negli ultimi decenni del Cinquecento, continua a produrre nuovi capolavori anche nella prima metà del Seicento durante il regno di Giacomo I (per il quale si parla anche di teatro giacobita) e di Carlo I, dando vita a una fioritura tra le più splendide nella storia del teatro di tutti i tempi.
A Londra si costruiscono i primi edifici pubblici adibiti a rappresentazioni teatrali e gli attori, che molte volte sono anche autori dei testi, si organizzano in compagnie (solo maschili: le donne non vi sono ammesse) che finanziano gli allestimenti e dividono i profitti.
Le rappresentazioni dei drammi elisabettiani si trasferiscono così dai cortili delle locande ai teatri (pubblici e privati) indirizzandosi a un numero sempre maggiore di spettatori, appartenenti a tutte le classi sociali: il rapporto diretto dell’autore-attore con il pubblico garantisce una vitalità straordinaria a questo grande spettacolo popolare.
Caratteri principali del teatro elisabettiano
Gli elementi che, in un quadro schematico, caratterizzano la produzione teatrale elisabettiana sono: la prevalenza assoluta della fantasia e dell’invenzione drammatica sulle norme compositive; la mescolanza dei generi e degli stili; l’interesse per lo studio dei caratteri e l’analisi psicologica delle passioni.
Gli autori elisabettiani, influenzati dal teatro di Seneca, prediligono i soggetti sanguinosi ed efferati: stragi, delitti, incesti, violenze e crudeltà di ogni genere sono tra gli ingredienti principali delle tragedie del periodo. Ma uno dei fattori che rende interessante anche oggi il teatro elisabettiano è proprio la commistione di temi diversi e a volte opposti che danno vita a una molteplicità di azioni e personaggi: l’elemento tragico e quello comico, il tono fantastico e quello realistico si uniscono spesso nello stesso dramma. Siamo agli antipodi del teatro di tradizione classica.
Il linguaggio dei drammi elisabettiani
Anche il linguaggio sfrutta tutti i registri: può essere teso e concentrato, denso e immaginoso, lirico e contemplativo. All’uso della prosa si affianca quello, più frequente, del blank verse che offre una grande varietà di soluzioni metriche. E sono possibili anche strutture miste di versi e prosa.
Le fonti dei drammi elisabettiani
La necessità di soddisfare i mutevoli gusti del pubblico, che esige continuamente nuovi drammi, spiega la quantità e la varietà (o meglio le variazioni su una serie di temi e situazioni topiche) delle opere rappresentate.
I drammaturghi, sempre alla ricerca di nuovi soggetti, attingono alle leggende inglesi, alla storia classica, alle cronache nazionali, alla novellistica europea. In particolare le novelle italiane offrono molti spunti agli autori elisabettiani: l’Italia è vista come una terra di foschi orrori e di crudeltà terribili e fa da sfondo a molti drammi del periodo, come la cupa Tragedia del vendicatore (1607) di Cyril Tourneur o la Duchessa di Amalfi (1614) di John Webster. The Duchess of Malfi è la storia della giovane duchessa che, rimasta vedova, si sposa segretamente contro il volere dei fratelli; scoperta la verità, essi la fanno torturare fino alla morte tra atroci tormenti. In questa tragedia, ispirata a un fatto realmente accaduto, la violenza del contenuto e dello stile raggiunge vertici inauditi.
John Webster
La duchessa di Amalfi
Entrano i pazzi
[Qui uno dei pazzi canta questa canzone, accompagnata da una cupa musica]
una tetra parola,
Un ululo pien di rovello,
Che suoni minaccia da gola
Di belva, o fatale uccello.
Muggiremo, guairemo le parti
D’orsi, corvi, allocchi e tori,
Fin che i vostri orecchi sian màrtiri,
E sian corrosi i vostri cuori.
E quando in noi la furia tace,
E i corpi giaccion lenti,
Morrem cantando amore e pace
Come cigni morenti.
PRIMO PAZZO: [l’Astrologo]: Non è giunto ancora il giorno del Giudizio? Lo tirerò più vicino per mezzo d’un telescopio, o farò uno specchio che dia fuoco al mondo in un istante. Non riesco a dormire, il mio guanciale è imbottito d’una nidiata di porcospini.
SECONDO PAZZO: [l’Avvocato]: L’inferno non è che una vetreria, in cui i diavoli gonfiano continuamente anime di donne con vuoti cannelli di ferro, e il fuoco non si spegne mai.
TERZO PAZZO: [il Prete]: Vo’ giacermi con ogni donna della mia parrocchia la decima notte; le sottoporrò a decima come mucchi di fieno.
QUARTO MATTO: [il Dottore]: Dovrà il mio farmacista passarmi avanti, perché sono un becco? Ho scoperto la sua furfanteria: fa l’allume con l’orina della moglie e lo vende ai Puritani che han male alla gola per averla troppo sforzata.
PRIMO PAZZO: Io sono esperto in araldica.
SECONDO PAZZO: Sì?
PRIMO PAZZO: Date come vostro stemma una testa di beccaccia col cervello cavato fuori; siete un gentiluomo antichissimo.
TERZO PAZZO: Il greco è diventato turco; possiamo esser salvati solo dalla versione elvetica.
PRIMO PAZZO: Su via, messere, vi applicherò la legge.
SECONDO PAZZO: Oh, applicatemi piuttosto un corrosivo: la legge corroderà fino all’osso.
TERZO PAZZO: Colui che beve solo per soddisfare la natura è dannato.
QUARTO PAZZO: Se avessi qui il mio cannocchiale, farei vedere uno spettacolo per cui tutte le donne qui mi chiamerebbero un dottore pazzo.
PRIMO PAZZO: [indicando il Prete] Che cos’è? un funaiolo?
SECONDO PAZZO: No, no, no, è un briccone che parla col naso, e mentre mostra le tombe tien la mano nella saccoccia delle ragazze.
TERZO PAZZO: Guai alla carrozza che ha portato a casa mia moglie dalla mascherata alle tre del mattino: conteneva un vasto piumino.
QUARTO PAZZO: Ho tagliato le unghie al demonio per quaranta volte, le ho arrostite in gusci d’uovo di corvo, e con esse ho curato le febbri.
TERZO PAZZO: Datemi trecento pipistrelli da latte da farne beveraggi che procurino il sonno.
QUARTO PAZZO: Tutto il collegio può gittar la berretta e confessarsi battuto, ho dato la costipazione a un fabbricante di sapone: è stato il mio capolavoro. (...)
Entra Bosola travestito da vecchio
DUCHESSA: Sono ancora la duchessa d’Amalfi.
BOSOLA: È questo che rende così rotti i tuoi sonni. Come le lucciole, le glorie splendono luminose da lontano, ma guardate troppo davvicino non hanno né calore né luce.
DUCHESSA: Sei molto franco.
BOSOLA: Il mio mestiere è d’adulare i morti, non i vivi... Sono un costruttore di tombe.
DUCHESSA: E vieni a fare la mia?
BOSOLA: Sì.
DUCHESSA: Voglio essere un po’ allegra... Di che materiale vuoi farla?
BOSOLA: Prima informati di che foggia la vorresti.
DUCHESSA: Che, diventiamo stravaganti sul nostro letto di morte? Teniam dietro alla moda nel sepolcro?
BOSOLA: E con che ambizione! Le immagini dei prìncipi sulle loro tombe, non stanno distese, come solevano, in atteggiamento di preghiera al cielo, ma stan con le mani sotto la guancia come se fossero morti di mal di denti; non sono scolpite con gli occhi fissi alle stelle, ma, come la loro anima era interamente volta al mondo, sembran volgere la faccia nella stessa direzione.
DUCHESSA: Fammi dunque conoscere interamente lo scopo di tutti questi tuoi lugubri preparativi, di questa conversazione adatta ad un ossario.
BOSOLA: Orbene, lo farò...
Entrano I CARNEFICI recando una bara, delle corde e un campanello
Eccovi un regalo dei vostri principeschi fratelli, e possa arrivare benvenuto, ché arreca l’ultimo beneficio, l’ultimo dolore.
DUCHESSA: Fammi vedere... Ho tanta obbedienza nel mio sangue, che lo desidero nelle loro vene, per far loro bene.
BOSOLA: Questa è la vostra ultima sala d’udienza.
CARIOLA: Oh, dolce signora mia!
DUCHESSA: Calmati; non mi spaventa.
BOSOLA: Io sono il campanaio pubblico [prende il campanello] che suol essere mandato ai condannati la notte prima della loro esecuzione.
DUCHESSA: Ma non hai detto proprio adesso che eri un costruttore di tombe?
BOSOLA: L’ho detto per condurvi a grado a grado alla mortificazione. Ascoltate. [Suona il campanello].
, tutto intorno è muto...la strige, e il chiurlo acutonostra dama, e le dicon forte’indossare il lenzuol della morte.avevi e gran famiglia,basta la tua lunghezza d’argilla.guerra t’arse in petto,riposo avrai perfetto...che, stolti, menar vanto?in colpa, nati in pianto,cui vita è nebbia d’errore,la morte tempesta di terrore...’aulenti polveri spargi i crini,àvati, indossa bianchi lini;fugare lo spirito d’abissoal collo un crocifisso:è il colmo del tempo tra la notte e il giorno.il gemito, va’ senza ritorno.
CARIOLA: Via di qui, scellerati, tiranni, assassini; ahimè! che volete fare alla mia signora? Chiedete aiuto.
DUCHESSA: A chi, ai nostri vicini? Sono dei pazzi.
BOSOLA: Allontanate quel chiasso.
DUCHESSA: Addio, Cariola: non ho molto da lasciare nel mio testamento... Parecchi ospiti famelici si son cibati di me: il tuo sarà un povero lascito.
CARIOLA: Voglio morire con lei.
DUCHESSA: Ti prego, ricordati di dare al mio bambino un po’ di sciroppo per il suo raffreddore, e fa dire alla bimba le sue preghiere, prima che s’addormenti. [CARIOLA è trascinata via a forza].
Ed ora quel che volete; di che morte?
BOSOLA: Strangolata; ecco qui i vostri carnefici.
DUCHESSA. Io li perdono: l’apoplessia, l’emorragia al cervello, o la tosse polmonare farebbero quanto fan costoro.
BOSOLA: Non vi spaventa la morte?
DUCHESSA: Chi ne avrebbe paura, sapendo d’incontrare nell’altro mondo sì eccellente compagnia?
BOSOLA: Eppure mi sembra che il modo della vostra morte dovrebbe affliggervi assai; questa corda dovrebbe atterrirvi.
DUCHESSA: Affatto... Che piacere mi darebbe d’aver la gola tagliata con diamanti? o d’esser soffocata con la cassia? o d’esser fucilata con perle? So che la morte ha diecimila porte diverse per cui gli uomini possono uscire; e si ritrova che girano su sì strani cardini geometrici che potete aprirle in un senso e nell’altro. In qualunque modo, per amor del cielo, purché io possa esser lontano dal vostro sussurrare. Dite ai miei fratelli che io m’accorgo (ora che io sono bene sveglia) che la morte è il miglior dono che essi mi posson fare o che io posso prendere... Vorrei rimuovere il mio ultimo difetto di donna, e non farvi aspettare.: Siamo pronti.
DUCHESSA: Fate quel che volete del mio respiro, ma il mio corpo datelo alle mie donne; lo farete?: Sì.
DUCHESSA: Tirate, e tirate forte, ché la vostra valida forza deve tirar giù il cielo su di me... Ma aspettate, le porte del cielo non hanno l’arco così eccelso come i palazzi dei prìncipi; coloro che vi entrano debbono camminare in ginocchio. [S’inginocchia].
Vieni, morte violenta, servimi tu di mandragola, per farmi dormire; andate a dire ai miei fratelli, quando sarò spacciata, che possono mangiare in pace. [La strangolano].
BOSOLA: Dov’è la cameriera? Andatela a prendere; altri strangolino i bambini.
Rientrano I CARNEFICI con CARIOLA
Guardate, lì dorme la vostra padrona.
CARIOLA: Oh, siete dannato in eterno per questo. Ed ora tocca a me, non è stato ordinato così?
BOSOLA: Sì, e son lieto che ci siate così ben preparata.
CARIOLA: V’ingannate, messere, non ci son preparata, non voglio morire. Prima debbo avere il mio processo, e sapere di che sono rea.
BOSOLA: Via, spacciatela; avete serbato il suo segreto, ora serberete il nostro.
CARIOLA: Non voglio morire, non devo, son fidanzata con un giovane signore.: Eccovi il vostro anello matrimoniale.
CARIOLA: Fatemi solo parlare col duca: ho da rivelargli un tradimento contro la sua persona.
BOSOLA: Dilazioni! Strozzatela.: Morde e sgraffia.
CARIOLA: Se mi uccidete adesso, son dannata: è due anni che non mi confesso.
BOSOLA: Andiamo!
CARIOLA: Sono incinta.
BOSOLA: E allora, la vostra fama è salva. Portatela nella stanza accanto. [La strangolano, e la portan via].
Teatro elisabettiano. Raccolta di drammi, a cura di A. Obertello, Milano, Bompiani, 1951
Gli autori del teatro elisabettiano
Nella sterminata produzione teatrale del periodo elisabettiano, che tende a ripetere una serie di situazioni convenzionali, non pochi autori sanno dare un’impronta personale ai loro drammi e rielaborare in maniera originale il materiale offerto dalla tradizione. Domina su tutti William Shakespeare, tanto come scrittore tragico quanto comico e fantastico.
Spesso poi le opere sono il frutto della collaborazione di più autori, come nel caso di A Oriente a Oriente! di Ben Jonson, George Chapman e John Marston: ambientata in una Londra brulicante di attività, l’opera mette argutamente alla berlina la morale borghese dei piccoli commercianti.
George Chapman, per esempio, tenta di dar vita a un dramma filosofico introducendo la figura dell’eroe stoico, costretto a subire i rovesci della fortuna. Il suo Bussy d’Ambois (1604) è la tragedia, ispirata a un personaggio storico francese, di un vecchio soldato tutto d’un pezzo portato alla rovina dall’amore per una donna di corte. La vicenda offre l’occasione per una meditazione sull’imprevedibilità del destino umano, sempre in balia delle passioni. Thomas Dekker e Thomas Heywood rappresentano invece con realismo la vita londinese, mentre Webster e John Ford (1586-1639) forniscono prove di grande penetrazione psicologica, nell’analisi di passioni eccessive e smodate.
Una figura a sé è quella di Ben Jonson, umanista e cultore dei modelli classici, che si oppone agli eccessi del teatro del suo tempo, in nome di un’arte che si ispiri agli ideali di equilibrio e decoro. La vena satirica e l’eleganza stilistica di Jonson conseguono i migliori risultati nella commedia. Il suo capolavoro è Volpone (1606), uno spietato prosimetro satirico contro l’ipocrisia e l’avarizia, incarnate da personaggi umorali e animaleschi che si esprimono in un linguaggio immaginoso e demoniaco: Volpone si finge moribondo per beffare i predatori della sua eredità, il servo Mosca e il mercante senza scrupoli Corvino. Effetto realistico e quasi sadico nel finale che punisce il crimine con la prigione.
Ben Jonson
Volpone si elogia
Volpone
Scena 1 - Una stanza in casa di VOLPONE
, MOSCA.
VOLPONE: Buon dì al nuovo giorno; e subito dopo, al mio oro! Apri il tabernacolo, ch’io veda il mio santo. [MOSCA tira una cortina, nel fondo. Appaiono pile d’oro, argenteria, gioielli, ecc.].
Salve, anima mia e del mondo! Più contento della terra feconda quando vede il sospirato sole apparir fra le corna dell’Ariete celeste, sono io a contemplare il tuo splendore che offusca il suo; tu che, giacendo in mezzo alle altre mie ricchezze, sei come una fiamma nella notte, o come la luce che eruppe dal caos mentre ogni oscurità correva a rifugiarsi dentro la terra. Oh tu, figlio del sole, ma più lucente di tuo padre, lascia ch’io baci, ch’io adori te e ogni altra reliquia del sacro tesoro racchiuso in questa stanza benedetta. Ben fecero i saggi poeti a intitolare del tuo nome glorioso quell’età che parve loro la più bella: tu sei infatti la più bella delle cose, e di gran lunga quella che procura più gioia: più dei figli, più dei genitori, più degli amici, più di tutti i sogni che si fanno a occhi aperti in questo mondo! Quando attribuirono a Venere le tue parvenze, avrebbero dovuto darle ventimila amorini! Altrettante sono le tue bellezze e i nostri amori! Ricchezza, santa adorata, dea muta che dài lingua a tutti gli uomini, che nulla puoi fare, ma tutto ad essi fai fare. Tu sei il prezzo delle anime; l’inferno stesso, con te per compenso, diventa degno del paradiso. Tu sei virtù, fama, onore, tutto! Chi può aver te sarà nobile, valoroso, onesto, saggio...
MOSCA: E quant’altro vorrà, signore. Meglio la ricchezza come dono di fortuna che la saggezza come dono di natura.
VOLPONE: Vero, mio caro Mosca. Eppure io mi sento più fiero delle astuzie con cui mi conquisto la ricchezza, che di possederla; perché quanto guadagno non lo guadagno al modo di tutti. Io non commercio, non speculo, non squarcio la terra con gli aratri. Non ingrasso animali per alimentare i mattatoi; non ho macine per stritolare il ferro, l’olio, il grano e gli uomini. Non soffio il vetro sottile, non espongo navi alle minacce del mare ingrugnito; non maneggio danaro nelle pubbliche banche, né pratico l’usura in privato.
MOSCA: Nossignore, né spolpate oziosi spendaccioni. Ve n’è che risozzano e ingoiano un erede con la stessa celerità con cui un Olandese ingoia le sue pallottole di burro; e non hanno neanche bisogno di purgarsi. Ve n’è che strappano dal loro letto certi poveri padri di famiglia e li seppelliscono vivi in qualche gentile e accogliente prigione, donde la loro carcassa non potrà uscire se non quando la carne sarà putrefatta. Ma la vostra cordiale natura aborre da questi mezzi; a voi non piace che le lagrime della vedova e degli orfani vi lavino i pavimenti; che le loro strida risuonino sotto i vostri soffitti e facciano tremare l’aria invocando vendetta.
VOLPONE: Giusto, Mosca: io odio tutto questo.
MOSCA: E poi, signore, non siete come il trebbiatore che se ne sta morto di fame a difendere con un enorme coreggiato un mucchio di grano, e non osando assaggiare neppure un chicco si nutrisce di malva e altre erbacce. Non siete come il mercante che ha i magazzini stivati di vini greci o dei più aromatici di Candia, e intanto beve la feccia dell’aceto lombardo. Voi non ve ne state a giacer sulla paglia, lasciando che tarme e vermi si divorino i vostri sontuosi tendaggi e i soffici letti. Voi sapete far uso della ricchezza; e qualcosa di codesto lucente mucchio non vi peritate di concederlo a me, povero servo; e al vostro nano, al vostro ermafrodito, al vostro eunuco, a tutti quegli altri trastulli domestici che vi piace di mantenere...
VOLPONE: [dandogli qualche moneta] To’, Mosca, apri la mano. Tu cògli sempre nel vero, e son degli invidiosi quei che ti chiamano parassita. Mandami qua il nano, l’eunuco e il buffone: voglio che mi divertano. [Esce MOSCA]. - Cosa di meglio potrei fare che assecondar l’inclinazione del mio genio e liberamente godermi tutte le delizie cui la mia fortuna mi chiama? Non ho né moglie né genitori, né figli né parenti a cui lasciare le mie sostanze. Mio erede sarà colui che io sceglierò per tale. Proprio questo fa sì che tutti mi riveriscano; è questo che ogni giorno mi attira in casa nuovi clienti, donne e uomini di ogni sesso ed età, a portarmi regali, a inviarmi argenteria, monete, gioielli, nella speranza che alla mia morte (e avidamente l’aspettano di ora in ora) tutto allora torni decuplicato nelle loro mani; mentre certuni, anche più avidi dei primi, s’ingegnano d’accaparrarmi tutto per loro, e l’uno lotta contro l’altro, gareggiano a colmarmi di doni come fingono di gareggiare in amore per me! Io tutto sopporto: gioco con le loro speranze, lieto di voltarle in moneta sonante; guardo di buon occhio tutte codeste gentilezze; tutto ammiro, ogni cosa arraffo, sempre prendendoli a gabbo, lasciando la ciliegia sfiorare le loro labbra, dondolandogliela su e giù davanti alla bocca, per poi ritrarla.
in Teatro elisabettiano. Raccolta di drammi, a cura di A. Obertello, Milano, Bompiani, 1951
Le tragicommedie scritte in collaborazione da Francis Beaumont e John Fletcher mostrano i primi segni dell’affermarsi di un nuovo tipo di dramma destinato a grande successo. L’interesse si sposta dal tragico al patetico, indulgendo nella trattazione di situazioni e sentimenti melodrammatici, con uno stile morbido e delicato. La tragicommedia Philaster (1610), il loro primo successo, è la storia dell’amore di Philaster, principe di Sicilia spodestato da un usurpatore, per la figlia di questi, Aretusa, che giunge dopo molte complicazioni al lieto fine d’obbligo.
Il teatro della Restaurazione
La chiusura dei teatri ordinata dal Parlamento puritano nel 1642 ha come conseguenza la cessazione quasi completa delle rappresentazioni, che riprendono soltanto nel 1660 con la Restaurazione della monarchia degli Stuart.
Il teatro della Restaurazione è dominato da due nuovi generi: il magniloquente dramma eroico, di cui è iniziatore e teorizzatore John Dryden, e la commedia di costume, in prosa, che riflette l’edonismo sensuale e gaudente del mondo nobiliare tornato in auge dopo il rigorismo puritano.
La commedia di costume
Sir George Etherege è il primo a rappresentare la nuova società elegante e vacua della Restaurazione e, nella sua commedia Il damerino (1676), tratteggia in una serie di scenette rapide e sofisticate il tipo del cicisbeo galante e alla moda, seduttore spensierato e disinvolto, disinteressandosi completamente dell’intreccio.
La vanità della vita di corte è invece presa di mira con una satira acre e spietata da William Wycherley, che denuncia l’ipocrisia delle convenzioni che regolano i rapporti tra i sessi. La sua commedia La moglie di campagna (1675) è una violenta denuncia dell’amoralità che si cela dietro la facciata del perbenismo e della rispettabilità: l’astuto Mr Horner, fingendosi eunuco, riesce a godere dei favori di numerose donne, all’apparenza virtuose.
Una menzione particolare meritano le commedie di Aphra Behn, una donna scrittrice che fa molto parlare di sé per la sua vita avventurosa e spregiudicata. Nella sua produzione teatrale l’amore e il sesso sono oggetto di una rappresentazione realistica e disincantata, a volte persino brutale, che rifugge dalle facili idealizzazioni, indagandone piuttosto gli aspetti carnali ed economici; così, per esempio, nell’Ereditiera di città (The City Heiress, 1682).
L’espressione più compiuta della commedia di costume si trova nelle opere di William Congreve, in cui la complessità dei rapporti umani e la varietà dei sentimenti e degli affetti sono rappresentate in tutte le loro sfumature, in bilico tra serenità e malinconia. Il suo capolavoro è Così va il mondo, rappresentato nel 1700. È una girandola di intrighi che ruotano attorno all’amore dei due protagonisti, Millamant e Mirabell, ma la sua perfezione risiede nella complessità dell’analisi psicologica e nell’eleganza dei dialoghi.
Così va il mondo chiude il breve periodo della commedia di costume. Le opere dei commediografi successivi come John Vanbrugh e George Farquhar ne mostrano già il declino, anticipando i temi del dramma sentimentale borghese che si affermerà nel secolo seguente.