Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il teatro francese conserva nell’arco di tutto il Seicento una straordinaria vitalità: agli inizi del secolo il gusto inclina verso il patetico e il romanzesco, producendo una grande fioritura nel campo della liberissima tragicommedia, ma poi, con l’affermarsi del classicismo, s’impone il rispetto della naturalezza e della ragione e il teatro trova i suoi campioni, tanto nel genere tragico, prima in Corneille e poi in Racine, quanto nel genere comico con Molière.
Teatro d’élite e teatro popolare
La produzione teatrale francese è molto cospicua fin dai primi anni del Seicento: con l’interesse del pubblico cresce la richiesta di opere drammatiche, e numerose sono le compagnie di attori professionisti che si guadagnano la vita allestendo gli spettacoli in giro per tutta la Francia.
Nella capitale francese la vita teatrale è molto intensa: si moltiplicano i teatri, ciascuno con la propria compagnia stabile, dall’Hôtel de Bourgogne (primo teatro pubblico parigino), al Marais, dal Petit-Bourbon alla grandiosa sala del Palais Royal, che sarà il regno di Molière, insieme autore, attore, impresario e capocomico. Le compagnie che gestiscono i teatri sono spesso in lotta per assicurarsi le pièces degli autori migliori e di conseguenza il successo. È una rivalità professionale in piena regola, che non esclude i colpi bassi, gli attacchi personali, fino allo sberleffo e all’insulto.
Attraverso la rappresentazione del teatro nel teatro gli autori possono prendere posizione, attaccare e difendersi: rispondendo ai suoi detrattori, Molière, nell’Improvvisazione di Versailles, offre una memorabile parodia delle gigionesche tirate degli attori dell’Hôtel de Bourgogne.
Molière
“Una crisi di nervi di Molière”
L’improvvisazione di Versailles
SIGNORINA BÉJART: Ma se vi è stato ordinato di prendere a tema del vostro lavoro le critiche che vi si fanno, perché non avete scritto quella commedia degli attori della quale una volta ci avete parlato? Era cosa fatta e veniva a proposito, molto più che, avendo cominciato essi a ritrarre voi, vi offrivano l’occasione di ritrarre anche loro e questo si sarebbe potuto chiamare il loro ritratto a maggior diritto di quello che essi fanno passare per il vostro. Perché il voler contraffare un attore in una parte comica, non è un ritrarre lui, ma è ritrarre il personaggio che esso rappresenta, servirsi cioè degli stessi tratti e degli stessi colori che egli è costretto a usare nei vari quadri di caratteri ridicoli presi a modello dal vero, mentre il contraffare un attore in parti serie, è ritrarlo con i difetti che sono interamente suoi perché questo genere di personaggi non ammette i toni e i gesti ridicoli dai quali lo si riconosce.
MOLIÈRE: È vero; ma ho le mie buone ragioni per non farlo e, detto fra noi, non mi è sembrato che ne valesse la pena; e poi ci voleva molto tempo per tradurre in atto questa idea. Siccome quegli attori recitano quando recitiamo anche noi, ho potuto vederli appena tre o quattro volte da quando siamo a Parigi; del loro modo di recitare ho afferrato solamente quello che salta agli occhi e avrei bisogno di studiarli di più per farne dei ritratti assomiglianti.
SIGNORINA DU PARC: Io però, dai vostri discorsi ne ho riconosciuto qualcuno.
SIGNORINA DE BRIE: Io non ho mai sentito parlare di questo.
MOLIÈRE: È un’idea che mi è passata una volta per la testa e che ho lasciata là come una sciocchezza, come uno scherzo che, forse, non avrebbe nemmeno fatto ridere.
SIGNORINA DE BRIE: Ditelo anche a noi come l’avete detto agli altri.
MOLIÈRE: Ora, non c’è tempo.
SIGNORINA DE BRIE: In due parole.
MOLIÈRE: Avevo pensato a una commedia dove ci fosse stato un poeta (che avrei rappresentato io) venuto a offrire un lavoro a una compagnia d’attori arrivata di fresco dalla campagna. “Avete”, avrebbe chiesto “degli attori e delle attrici capaci di mettere a valore un’opera? perché la mia è una commedia...”. “Eh! signore”, avrebbero risposto gli attori “abbiamo fra noi uomini e donne che sono stati riconosciuti accettabili dappertutto”. “E chi di voi fa il re?”. “Ecco un attore che qualche volta se la cava”. “Chi? quel giovanotto? Scherzate? Ci vuole un re grasso e grosso per quattro; un re, caspita! che sia panciuto come si deve, un re di vasta circonferenza, che possa riempire bene un trono. Bellino, un re ganimede! Questo è un difetto grave. Ma sentiamolo un po’ recitare una diecina di versi”. E qui l’attore avrebbe recitato, per esempio, qualche verso del Nicomede:
Debbo dirtelo, Iraspe? Troppo ben m’ha servito accrescendo mia possa...
nel modo più naturale possibile. E il poeta: “Come? chiamate questo recitare? Questo è un prendere in giro; bisogna dirlo con enfasi. Sentite me:
Debbo dirtelo, Iraspe? ecc.
[contraffà Montfleury, attore del Palazzo di Borgogna]. Vedete questo atteggiamento? Tenetelo bene a mente. E, alla fine, battete forte su l’ultimo verso. Questo chiama l’applauso e fa nascere le acclamazioni”. “Ma, signore”, avrebbe obiettato l’attore, “mi pare che un re, quando s’intrattiene da solo col suo capitano delle guardie, parli un po’ più umanamente e non prenda quel tono d’indemoniato”. “Non ve ne intendete. Provatevi a recitare come dite e vedrete se qualcuno dice: Ah! Prendiamo un po’ una scena fra amanti”. E qui un altro attore e una attrice avrebbero recitato una scena assieme, quella di Camilla e Curiazio:
E tu vi andrai, mio caro? E un tal funesto onore’è grato avere a spese del nostro grande amore?è! vegg’io ben chiaro...
così come l’altro, il più naturalmente possibile. E il poeta, subito: “Voi scherzate; questo non val nulla; bisogna dirlo così:
E tu vi andrai, mio caro? ecc., ti conosco meglio ecc.
[imita la signorina Beauchateau, attrice del Palazzo di Borgogna]. Non vedete come questo è naturale e appassionato? Ammirate quel viso sorridente che essa conserva in mezzo al più grande dolore”. Insomma, questa era l’idea, e così avrebbe passato in rivista tutti gli attori e tutte le attrici.
SIGNORINA DE BRIE: L’idea mi sembra molto graziosa e ne ho riconosciuto subito qualcuno fino dai primi versi. Continuate, vi prego.
MOLIÈRE [imitando Beauchateau, attore del Palazzo di Borgogna, nelle stanze del Cid]:
Trapassato in fondo al cuore...
E quest’altro, vi par di riconoscerlo nel Pompeo di Sertorio? [imitando Hauteroche, attore del Palazzo di Borgogna]:
L’astio che regna fra quei due partitionore non reca...
SIGNORINA DE BRIE: Mi pare di riconoscerlo abbastanza.
MOLIÈRE: E questo? [imita Villiers, attore del Palazzo di Borgogna]:
Signor, Polibio è morto...
SIGNORINA DE BRIE: Sì, sì, lo riconosco, ma ve ne sono alcuni, fra loro, che fareste fatica a contraffare.
MOLIÈRE: Dio mio! se avessi potuto studiarli bene, credo che, in tutti, avrei trovato qualche tratto da cogliere. Ma voi mi fate perdere un tempo prezioso. Torniamo a noi, per favore, e non divertiamoci in chiacchiere.
Molière, Teatro, a cura di E. Barbetti, Firenze, Sansoni, 1961
Mentre il teatro tragico tende sempre più a indirizzarsi a un’élite colta, il teatro comico mantiene vivi i suoi contatti con il teatro popolare, soprattutto quello dei comici dell’arte italiani che sono in Francia a più riprese, protetti prima da Maria de’ Medici e poi da Mazzarino.
Dopo numerose tournées francesi, intorno al 1660 una compagnia di comici dell’arte italiani si stabilisce a Parigi col nome di Ancienne troupe de la Comédie italienne, restandovi quasi sino alla fine del secolo ed esercitando sul teatro francese un’influenza profonda e duratura. Ma già Molière aveva lavorato fianco a fianco con gli italiani al Petit-Bourbon, traendo da quest’esperienza insegnamenti preziosi.
Al teatro italiano delle maschere si ispiravano anche le farse improvvisate sulle piazze, alle quali il popolo accorreva più numeroso ancora che alla rappresentazione degli scenari della Comédie italienne, graditi anche alla Corte: un attore si distingueva tra gli altri, il mitico Dauphine Tabarin, attivo a Parigi tra il 1618 e il 1625.
Dalla tragicommedia alla tragedia
Il genere che, nei primi decenni del secolo, conquista più degli altri i favori del pubblico, mescolando elementi tragici e comici, è quello della tragicommedia, non vincolata alle costrizioni delle unità aristoteliche, varia e aperta agli sviluppi romanzeschi, fino al punto di peccare spesso di inverosimiglianza.
Un grande autore di tragicommedie è Jean de Rotrou, il cui modello preferito è lo spagnolo Lope de Vega, maestro nella contaminazione degli stili e dei generi. Nei drammi di Rotrou le finzioni e gli artifici del teatro sono portati al massimo grado di inverosimiglianza, ma talvolta, in quest’atmosfera di schematica ripetitività, filtra la luce della poesia.
Il periodo della libertà nella costruzione della struttura drammatica ha però vita breve: presto i fautori dell’ordine tornano all’attacco esigendo dagli autori il rispetto della ragione che stabiliva partizioni e gerarchie ben definite, aborrendo qualsiasi contaminazione, e soprattutto imponendo la fedeltà scrupolosa alle unità di luogo, tempo e azione.
Del 1634 è la rappresentazione della prima tragedia francese “regolare” (cioè scritta nell’assoluto rispetto delle regole aristoteliche), la Sofonisba di Jean Mairet: da questa data, e parallelamente all’affermarsi di una concezione classicistica della poesia, comincia il lento, ma ineluttabile declino della tragicommedia.
Mairet è protagonista, insieme a Georges de Scudéry, di un’accesa disputa, la cosiddetta Querelle du Cid: del dramma di Pierre Corneille, che lo stesso autore aveva inizialmente definito una tragicommedia, i detrattori, invidiosi del grande successo ottenuto dall’opera, criticano le parti sentimentali e romanzesche, proprio quelle che più erano piaciute al pubblico.
La controversia sul Cid di Corneille viene risolta da un parere dell’Académie française steso da Jean Chapelain, il quale tenta una mediazione che lascia tutti abbastanza scontenti: Corneille, in particolare, rimane assai contrariato dalla lunga polemica e sceglie, per il futuro, di ispirarsi esclusivamente alla storia.
Le prime commedie d’intrigo di di Pierre Corneille mostrano una fantasia accesa e vivida, una passione per le vicende avventurose e amorose, che poi l’autore volle sempre più sottomettere al vigile freno della ragione.
Corneille tenta una mediazione tra la cieca fedeltà al modello e alle regole degli antichi e l’eccessiva e disordinata libertà dei moderni, ma allorché si rende conto che questo tentativo è destinato al fallimento si chiude nel culto eroico e solitario di una virtù tanto sublime da apparire disumana. Il vero protagonista delle grandi tragedie corneliane non è l’uomo, ma l’eroe, che, con uno sforzo supremo di volontà, persegue la virtù e la gloria, ora attraverso la dedizione alla patria, come nell’Orazio, ora attraverso la magnanimità, come nel Cinna, oppure la conquista per mezzo della santità, come in Poliuto.
Il dramma corneliano è dramma della volontà, che implica quasi sempre un conflitto nell’animo del protagonista sottoposto all’azione di spinte diverse e contrastanti. E questo conflitto dà vita a una sorta di teatro interiore che si realizza attraverso procedimenti stilistici tipicamente barocchi, come l’antitesi e l’iperbole.
Pierre Corneille
I dubbi di Rodrigo
Il Cid, Atto I, scena 6
Scena 6
DON RODRIGO: Trafitto in fondo al cuore da un colpo imprevisto e mortale, triste vendicatore d’una giusta causa, e infelice oggetto d’un ingiusto rigore, resto immobile, e l’animo abbattuto cede al colpo che m’uccide. Così vicino a veder compensato il mio amore - o Dio, che strano tormento! - in questo affronto l’offeso è mio padre, e l’offensore è il padre di Scimena!
Tremenda lotta è la mia! Contro il mio proprio onore combatte il mio amore: debbo vendicare un padre, e perdere la donna amata: l’uno eccita il mio coraggio, l’altra trattiene il mio braccio. Ridotto alla triste scelta di tradire il mio amore o di vivere infame, infinito è il mio male nei due casi. O Dio, che strano tormento! Debbo lasciare impunito un affronto? Debbo punirlo sul padre di Scimena? Padre, donna amata, onore, amore, nobile e duro dovere, amabile tirannia, tutti i miei piaceri son morti, o la mia gloria offuscata. L’uno mi rende infelice, l’altra indegno di vivere. Cara e crudele speranza d’un anima generosa ma insieme innamorata, degno nemico della mia più grande felicità, ferro, che sei causa del mio tormento, mi sei dato per vendicare il mio onore? Mi sei dato per perdere Scimena? Meglio correre alla morte, sono in debito verso la mia donna come verso mio padre: vendicandomi, m’attiro l’odio e l’ira di lei; mi attiro il suo disprezzo, se non mi vendico. Alla mia più dolce speranza l’una cosa mi rende infedele, l’altra mi fa indegno di lei. Il mio male cresce a volerlo guarire; tutto raddoppia il mio tormento. Su, anima mia, giacché debbo morire, che io muoia almeno senza offendere Scimena. Morire senza vendicarmi! Cercare una morte fatale al mio nome! Soffrir che la Spagna accusi la mia memoria d’aver mal sostenuto l’onore della mia casa! Rispettare un amore che l’animo smarrito vede ormai sicuramente perduto! Non ascoltiamo più questo pensiero fallace, che serve solo a darmi tormento. Su, braccio mio, salviamo almeno l’onore, giacché in ogni caso debbo perdere Scimena. Sì, il mio spirito s’era ingannato. Prima che a Scimena debbo tutto a mio padre; che io muoia combattendo, o muoia di tristezza, il sangue che restituirò sarà puro come l’ho ricevuto. Già m’accuso di troppa negligenza: si corra alla vendetta; e vergognoso d’aver tanto esitato, giacché oggi l’offeso è mio padre, non mi darò pensiero se l’offensore è il padre di Scimena.
Corneille, Teatro, Firenze, Sansoni, 1964
Le solenni tragedie della maturità di Corneille rappresentano l’uomo non quale è, ma quale dovrebbe essere e pertanto appaiono talvolta un po’ eccessive, come forzate. Lo schema su cui si reggono è talora troppo evidente e i personaggi, chiusi nei loro dilemmi oratori, perdono verità e consistenza drammatica.
Di fronte alla magniloquenza statica e scultorea delle grandi tragedie di Corneille, paiono maggiormente percorsi dal soffio caldo e vivificante della poesia i drammi tardi, composti da un Corneille già amareggiato dall’ascesa incalzante di Jean Racine, in particolare l’ultima, malinconica tragedia, il Surena, in seguito alla cui caduta Corneille abbandonerà definitivamente le scene.
Molière
Uno degli interpreti delle tragedie di Corneille è il figlio di un tappezziere del re che, sedotto fin dalla prima gioventù dall’incanto del teatro, è cresciuto a contatto diretto con i comici dell’arte italiani, alle cui rappresentazioni, che si tengono al Pont-Neuf vicino a casa sua, egli accorre appena possibile: il suo nome è Jean-Baptiste Poquelin, conosciuto come Molière.
Nel 1658 Molière, che aveva fondato insieme ai fratelli Béjart la compagnia dell’Illustre Théâtre con la quale aveva recitato a lungo in provincia, torna a Parigi e rappresenta con grande successo davanti al re il Nicomede di Corneille e una sua commedia, L’amore medico (L’amour médicin).
Ottenuto l’apprezzamento e l’appoggio di Luigi XIV, Molière può allestire i propri spettacoli prima al Petit-Bourbon, poi, dal 1661 alla sala del Palais Royal.
Diviene dunque un autore di successo e, anche se le sue commedie scandalizzano i bigotti, dal 1665 la sua troupe teatrale ottiene il titolo di “Compagnia del re”.
Molière è un grande uomo di teatro: scrive commedie, le mette in scena, recita, dirige e rappresenta drammi di altri, si occupa della gestione della compagnia e dell’organizzazione del teatro.
Deve rinunciare alle sue ambizioni di attore tragico per un difetto di pronuncia, ma il suo talento di comico è straordinario e per di più ottenuto senza indulgere all’enfasi o ai facili effetti. Oggetto dell’analisi del teatro di Molière è la società francese del tempo, il suo principale bersaglio satirico sono le ossessioni e le manie che fanno deviare l’uomo dalla natura, l’unico principio in grado di regolare la vita sociale.
L’ossessione, la follia diventano una malattia che Molière deforma e ingrandisce a dismisura per trarne irresistibili effetti comici. Nelle sue commedie sfilano davanti a noi impostori, avari, ciarlatani, ipocriti, misantropi: un’impressionante galleria di vizi ritratti con una lucidità implacabile, con una fedeltà al reale persino appassionante.
Non c’è da stupirsi, dato che la ferocia satirica di Molière coglie nel segno, delle censure e dei divieti incontrati dai suoi capolavori, come il Tartufo, attacco ambiguo alla falsa devozione, nutrito del moralismo intransigente di Blaise Pascal e di La Rochefoucauld, oppure il Don Giovanni, esaltazione di una vitalità ossessiva quanto, in fondo, disperata.
Molière
Don Giovanni non vuol rinunciare ai piaceri dell’amore
Don Giovanni o il convitato di pietra, Atto I, scena II
Scena 2 - DON GIOVANNI, SGANARELLO
DON GIOVANNI: Chi era quell’uomo che parlava con te? Mi aveva tutta l’aria d’essere il buon Guzmano di donna Elvira?
SGANARELLO: Press’a poco, qualcosa di simile.
DON GIOVANNI: Ah? proprio lui?
SGANARELLO: In persona.
DON GIOVANNI: E da quando è in questa città?
SGANARELLO: Da ieri sera.
DON GIOVANNI: E che cosa è venuto a fare?
SGANARELLO: Credo che possiate immaginarvi il motivo della sua preoccupazione.
DON GIOVANNI: Certamente, per la nostra partenza?
SGANARELLO: Quel buon diavolo ne era tutto avvilito, e me ne chiedeva il motivo.
DON GIOVANNI: E che cosa gli hai risposto?
SGANARELLO: Che non m’avevate detto niente.
DON GIOVANNI: Ma tu che ne pensi in proposito? Che idee ti sei fatto sull’argomento?
SGANARELLO: Io? Io credo, senza farvi torto, che abbiate per il capo qualche nuova avventura.
DON GIOVANNI: Credi?
SGANARELLO: Sì.
DON GIOVANNI: Infatti, non ti sbagli, e debbo confessarti che c’è qualche altra persona che ha scacciato Elvira dai miei pensieri.
SGANARELLO: Eh! buon Dio! il mio don Giovanni l’ho sulla punta delle dita e so che il vostro cuore è il più gran vagabondo che ci sia; si diverte a passare da un legame all’altro e non ci tiene a rimaner fermo.
DON GIOVANNI. E non ti pare che abbia ragione a regolarmi così?
SGANARELLO. Eh! signore...
DON GIOVANNI: Che cosa? Parla.
SGANARELLO: Certo, che avete ragione, se così comandate; non sta a me contraddirvi. Ma se non comandaste così, sarebbe una altra faccenda.
DON GIOVANNI: Su! ti permetto di parlare liberamente e di dirmi quello che pensi.
SGANARELLO: In questo caso, signore, vi dirò francamente che non approvo il vostro sistema e che mi pare molto brutto questo amoreggiare da ogni parte, che fate voi.
DON GIOVANNI: Ma come? vorresti che un uomo rimanesse legato al primo oggetto che lo afferra, che rinunciasse, per lui, al mondo senza aver più occhi per nessuno? Sarebbe bello impegnarsi nel falso onore della fedeltà, seppellirsi per sempre in una passione e darci per morti, fino da giovani, a tutte le altre bellezze che possono colpirci? No, no, la costanza si addice alla gente ridicola; tutte le belle hanno diritto di ammaliarci e il privilegio di chi è la prima non deve defraudare le altre delle pretese che, giustamente, hanno sul nostro cuore. Per conto mio, la bellezza m’incanta dovunque io la trovi e cedo facilmente alla dolce violenza che esercita su di noi. Ho voglia a essere impegnato, l’amore per una bella non impegna la mia anima a fare un torto alle altre; ho due occhi che mi permettono di vedere i meriti di tutte, e tributo a ciascuna gli omaggi che la natura ci impone. Sia quel che sia, non posso ricusare il mio cuore a tutte le donne amabili che incontro, e se un bel viso me lo chiede, ne avessi anche diecimila, glieli darei tutti. Una nuova inclinazione ha sempre, dopo tutto, una grazia inesplicabile e tutto il piacere dell’amore sta nel cambiare. Si prova un gusto dolcissimo a domare, con cento complimenti, il cuore di una bella ragazza, a osservare, di giorno in giorno, i piccoli progressi che vi si fanno, a lottare con impeti, con lagrime e sospiri, contro il pudore innocente d’un’anima che stenta a deporre le armi; a forzare, passo passo, tutte le piccole resistenze che ci oppone, a vincere gli scrupoli dei quali si fa un onore, a condurla dolcemente dove la si vuol condurre. Ma una volta divenuti suoi padroni, non c’è più niente da dire e niente da desiderare; tutto il bello della passione è finito e ci si addormenta nella tranquillità d’un amore cosiffatto, finché non viene qualche nuovo stimolo a risvegliare i nostri desideri e a offrire al nostro cuore l’attrattiva incantevole d’una nuova conquista. Insomma, non c’è nulla che valga come il trionfare della resistenza d’una bella figliuola; e in questo campo sento in me l’ambizione dei conquistatori che volano perpetuamente di vittoria in vittoria e non possono adattarsi a limitare le loro brame. Nulla può arrestare l’impeto dei miei desideri; mi sento un cuore capace d’amare il mondo intero e vorrei, come Alessandro, che ci fossero altri mondi ancora per potervi estendere le mie conquiste amorose.
SGANARELLO: Caspiterina! Come sapete dirle! Sembra che le abbiate imparate a memoria, e parlate come un libro stampato.
DON GIOVANNI. Che hai da ridirci?
SGANARELLO: Eh! ridire... Non so davvero che cosa; perché rigirate le cose in un certo modo che sembra abbiate ragione voi; e tuttavia è vero che non l’avete. Avevo qua in testa i più bei pensieri di questo mondo e i vostri discorsi hanno confuso tutto. Lasciate stare; un’altra volta metterò le mie ragioni per iscritto, se vorrò discutere con voi.
DON GIOVANNI: Farai bene.
SGANARELLO: Ma, signore, col permesso che m’avete dato, posso almeno dirvi che sono un po’ scandalizzato della vita che conducete?
DON GIOVANNI: Come? Che vita conduco?
SGANARELLO: Oh! buonissima. Per esempio, vedervi fare un matrimonio al mese, come è vostra abitudine
DON GIOVANNI: E che c’è di più gradevole?
SGANARELLO: Oh! questo è vero. Capisco che sia molto gradevole e divertentissimo, e andrebbe bene anche a me, se non ci fosse niente di male; ma, signore, prendersi gioco d’un sacro mistero e...
DON GIOVANNI: Va, va, questo è un affare tra il cielo e me e ce lo sbrigheremo assieme senza che tu ti ci confonda.
SGANARELLO: Oh! per conto mio, signore, ho sempre sentito dire che ridersi del cielo è un brutto ridere e che i libertini fanno sempre una brutta fine.
DON GIOVANNI: Eilà, scioccone! Lo sapete che non mi piacciono i predicatori.
SGANARELLO: Non dicevo per voi, Dio me ne guardi! Sapete quello che fate, voi! Se non credete a nulla, avrete le vostre buone ragioni; ma ci sono a questo mondo degli sconsiderati che fanno i libertini senza saperne il perché; che posano a spiriti forti credendo di farci buona figura; e se avessi uno di questi come padrone, gli direi chiaro e tondo sul viso: Avete il coraggio di farvi beffe del cielo e non avete paura di scherzare, come fate, con le cose più sante? Tocca proprio a voi, vermiciattolo della terra, piccolo mirmidone che non siete altro, (dico al padrone di cui parlavo) tocca proprio a voi mettere in ridicolo quello che tutti rispettano? Credete che, per il fatto d’essere un uomo di condizione, e perché avete una parrucca bionda e, bene arricciata, le piume sul cappello, un abito tutto d’oro, e nastri color di fuoco (non è a voi che parlo, ma a quell’altro) credete, dico, di essere perciò più bravo, che vi sia permesso tutto e che nessuno osi dirvi in faccia la verità? Imparate da me, dal vostro servitore, che, presto o tardi, il cielo punisce gli empi, che una vita cattiva mena a una cattiva morte e che...
DON GIOVANNI. Basta.
Molière, Teatro, a cura di E. Barbetti, Firenze, Sansoni, 1961
La comicità di Molière, per quanto spassosa, è spesso al confine con il tragico e d’altronde il suo genio consiste proprio nel non conferire una dimensione univoca ai suoi personaggi: nel caso del Misantropo, ad esempio, è difficile negare che una parte della simpatia di Molière vada ad Alceste, il protagonista, e al suo rifiuto di una società frivola e vacua.
Dopo l’intermezzo leggero dell’Anfitrione, Molière torna ai suoi ritratti di maniaci con l’Avaro, un altro “tipo” disegnato con mano implacabile, ma sempre calato in una precisa dimensione sociale, accuratamente analizzata. Entrambe le commedie sono tratte da Plauto, ma, come di consueto, Molière si appropria in maniera del tutto personale delle sue fonti.
In Molière vita e teatro corrono paralleli e si compenetrano profondamente fino a scambiarsi i ruoli: accade così che l’ultimo grande personaggio da lui inventato, il malato immaginario, che l’autore stesso interpreta sulla scena, s’identifica, rovesciandosi per un curioso gioco della sorte, con il malato reale che Molière è nella vita.
Nel corso della quarta replica del Malato immaginario Molière viene colto da malore.
Trasportato a casa muore senza l’assistenza della moglie, assente, o di un prete (i primi due chiamati si rifiutano, il terzo non giunge in tempo). La Chiesa non aveva perdonato al commediografo i ripetuti strali: solo l’intervento del re riesce a ottenere per Molière la sepoltura in terra consacrata.