La letteratura della nuova Italia
Nel maggio del 1913, mentre ancora «La Critica» veniva esaurendo la lunga serie di “Note” sulla più recente letteratura italiana, Benedetto Croce, senza por tempo in mezzo, cominciò a raccoglierle insieme, dando loro una successione che seguiva la cronologia degli autori, in vista di una riedizione in volumi. All’allievo e amico Enzo Petraccone fu affidato il compito di ritagliare e incollare su grandi fogli le pagine degli articoli apparsi in rivista per consentire di rivederli e aggiornarli (Nicolini 1962, p. 222). Il lavoro, consistente nel «togliere qualche scorrezione e ripetizione» e nell’inserzione di appendici biobibliografiche, fu come sempre molto rapido e ai primi di luglio poté licenziare l’opera con la stesura di «un breve epilogo» (Taccuini di lavoro 1906-1916, 1987, pp. 355, 361-62), posto alla fine del 4° volume, uscito insieme con il 3° nel 1915, mentre i primi due erano apparsi nell’anno precedente. Nel congedare la sua fatica Croce rilevava con una certa soddisfazione che, con i suoi settanta saggi, la serie poteva dirsi pressoché completa, in quanto i pochi scrittori esclusi appartenevano più propriamente alla filologia, alla critica, alla storiografia o alla filosofia che «all’arte pura» (Letteratura della nuova Italia, d’ora in poi LNI, 4° vol., 19647, p. 263). Erano rimasti fuori, è vero, alcuni romanzieri, drammaturghi e lirici tra i più recenti, tralasciati non perché valessero meno di altri, ma per un senso di sazietà e di stanchezza avvertito dall’estensore, che lo spingeva a passare ad altri argomenti, in «una sorta di “liquidazione del passato”». L’essersi quindi dedicato «a rivedere, ordinare e correggere tutta la [sua] produzione giovanile e a preparare parecchi lavori editoriali» (Contributo alla critica di me stesso, 1915, 2006, p. 88), in un periodo in cui si accingeva a privilegiare gli studi storici su quelli di letteratura, era un altro motivo, questa volta più soggettivo, che dava un senso di compiutezza alla rassegna consacrata alla Letteratura della nuova Italia.
A scanso di equivoci, Croce si premurava però di precisare che la sua impresa non era né voleva essere una «storia» del periodo indagato, per mancanza di quelle proporzioni e di quegli equilibri delle parti che si sarebbero ottenuti solo riassegnando agli scrittori uno spazio abbastanza simile, escludendo quelli cui era stato attribuito un giudizio negativo e riducendo le parti polemiche, non convenienti a un manuale che avesse la pretesa di proporre un canone letterario, senza dire dello spazio troppo esiguo concesso alle «correnti spirituali» e agli «accadimenti storici» entro cui incasellare e raggruppare gli scrittori. Sempre a questo proposito, quando decise di riunire i suoi scritti sulla letteratura, Croce aveva da un paio d’anni dovuto replicare alle critiche di Giuseppe Antonio Borgese, il quale, a margine delle sue censure alla monografia su Giambattista Vico (1911), lo aveva accusato di avere fatto di Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli dei ritratti «senza nessi che leghino l’uno all’altro e senza rapporti di quelle individualità coi tempi in cui sorsero, con gli ambienti in cui si nutrirono» («La Critica», 1911, 9, p. 227). La risposta crociana, dopo avere ricordato di avere di proposito intitolato i suoi scritti “Note” e non Storia della letteratura, spiegava di essere pienamente consapevole che le sue troppe lacune gli avevano impedito di «tracciare la linea di svolgimento di un periodo letterario nel quale quasi ancora vivevamo e che nessuno aveva ancora criticamente esplorato» (p. 227). Insieme con il vanto di avere battuto un terreno ancora sconosciuto, Croce ascriveva alla cautela l’assenza di nessi e rapporti, consentiti solo o con il possesso del completo quadro storico, o con l’invenzione «di uno schema a priori» entro cui fare rientrare «sofisticamente» tutti gli scrittori (p. 227).
In realtà, al termine della ricognizione svolta nell’arco di una dozzina di anni, dal 1903 al 1914, le competenze necessarie ci sarebbero state per dare vita a una storia letteraria. La verità è che la raccolta unitaria dei saggi non intendeva affatto privarli della loro natura autonoma, conservata anche in volume per la risoluta contrarietà di Croce al tipo di esposizione unitaria che caratterizza le storie della letteratura, nelle quali l’artificio di connessioni estrinseche interviene ordinando gli scrittori e le opere per generi, per scuole o per distribuzione regionale, quasi si volesse conferire alla storia la tassonomia delle scienze naturali. L’altro modello negativo, di cui si taceva il propugnatore, ma che era nondimeno riconoscibile con facilità, era quello di Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893), che aveva preteso di spiegare la letteratura come prodotto deterministico della razza, del milieu e del momento in cui gli scrittori vivono, dimentico, accusava Croce, che la storia è «libertà» e l’arte non il riflesso della realtà sociale ma la creazione di una realtà affatto nuova (LNI, 4° vol., p. 265). Infine, pensando forse a Ferdinand-Vincent de Paul-Marie Brunetière (1849-1906), respingeva l’applicazione dello struggle for life darwiniano a una storia letteraria concepita come «dramma d’idee o d’ideali, lottanti fra loro, sopraffacentisi, trionfanti, dissolventisi» (p. 265). Dramma e dialettica esistono anche in letteratura e nell’arte in genere, ma sono interni alla stessa creazione, nello «sforzo d’arte» in lotta con «una materia inerte o ribelle» (p. 266) e non possono essere espressione di un’ideologia o di una situazione sociale o politica.
Non è difficile vedere in queste pronunzie un veemente attacco al metodo positivista e la rivendicazione dell’idealismo, fondato sul principio dell’autonomia dell’arte e della natura unica e incomparabile delle sue manifestazioni, irriducibili nella loro individualità e pertanto valutabili solo con la forma della monografia, senza nessi e rapporti con altre. I saggi crociani, che per non essere scambiati per cellule subordinate a un tutto organico sono detti anche «conversazioni critiche», vogliono anzi essere il versante applicativo dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) alle lettere italiane. Non per nulla cominciarono a uscire fin dal primo fascicolo della «Critica», nel 1903, all’indomani della prima edizione in volume di quel trattato. Croce, come confidò una volta all’amico Karl Vossler, non si propose mai di fare il critico letterario. Se lo diventò, fu per «mettere ben in chiaro, per exempla, l’ossatura della critica letteraria», come risposta a una prassi «quasi tutta anti-metodica o ametodica» (Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, a cura di E. Cutinelli Rèndina, 1991, p. 153). I suoi saggi volevano essere l’esemplificazione di una dottrina estetica, l’esercizio sperimentale della sua messa in atto, la realizzazione concreta di una teoresi e la verifica della sua funzionalità realizzata sul campo della letteratura più recente nel suo complesso.
È questa la ragione per cui nei medaglioni dedicati agli scrittori non sono rari i momenti in cui ci si sofferma su problemi metodologici, avendo «come fine loro non secondario» anche la presentazione di un modo di fare critica letteraria ritenuto fecondo (LNI, 4° vol., p. 267). Lo si vede in uno degli interventi su Pascoli seguiti al saggio che fece tanto scalpore per la stroncatura crociana («La Critica», 1912, 10, pp. 255-56), che destò tali reazioni da indurre qualche ammiratore del poeta a minacciare il critico di vendicare l’affronto con il coltello («La Critica», 1915, 13, p. 402). Interrogandosi, anche attraverso l’esempio di Pascoli, sulla letteratura contemporanea, Croce, nel ribadire la sua contrarietà verso una critica che non dia di un’opera un giudizio compiuto limitandosi a una neutra descrizione, scopriva subito le sue carte affermando che il proprio metodo e il proprio metro di valutazione si fondavano sul «concetto dell’arte come pura fantasia o pura espressione» (LNI, 4° vol., p. 213), ripetendo in forma apodittica e assertiva la tesi fondamentale dell’Estetica. Tutte le altre regole erano respinte in quanto allotrie e arbitrarie. Ogni diaframma che si interponesse tra l’autore e la sua opera, tra il critico e l’autore era un ostacolo che impediva l’intimo congiungimento con lo spirito dell’artista. Non c’era quindi altra via se non quella di interrogare direttamente l’opera e di «risentirne la viva impressione». Con ciò Croce non voleva rifiutare le ricerche storiche e filologiche, anzi le considerava «indispensabili», purché avessero solo un valore ermeneutico, come mezzo utile a condurre il critico «nelle condizioni di spirito dell’autore nell’atto che formò la sua sintesi artistica» (p. 214).
A contare è solo l’opera, e non la si deve confondere con l’autore, né la biografia di questi deve condizionare il giudizio estetico, inducendo a tacerne i difetti poetici nel caso che si tratti di qualche figura ragguardevole per rilevanza sociale, per altri meriti acquisiti o per l’indole amabile. Se l’opera d’arte trascende il suo artefice, non deve risentire della sua personalità etica, rimanendo estranea a fattori extraestetici quali l’utile e il pedagogico, che assoggettano la poesia a fini educativi, in quella che era chiamata «estetica praticistica», concettuale o affettiva. Contrariamente a quanto sosterrà in futuro, in questa fase Croce difende l’idea di una poesia pura, ricercando ciò che «nell’oggetto che si esamina è schietto prodotto di arte», attraverso l’interrogazione diretta, sistematica e integrale, dell’opera stessa, e non, come fanno gli estimatori di Pascoli, andando a «spigolare nel volume e strofe e versi di molta bellezza […] per conciliare in qualche modo i [loro] sentimenti personali con la verità» (p. 220). Evidentemente, all’altezza dei primi volumi della Letteratura della nuova Italia, la dicotomia crociana di poesia e non poesia non era ancora stata formulata con la nettezza degli anni successivi. È invece già pienamente operante, anche nel dare credito all’impressione suscitata dalla lettura diretta dell’opera, la responsabilità morale del critico, la serietà deontologica che esclude l’improvvisazione, ossia la possibilità di fare critica con il semplice buon senso, laddove è indispensabile un’«annosa meditazione», anche filosofica, «sui problemi dell’arte e della critica, e quelle cognizioni di storia della critica d’arte, che spesso si provano indispensabili» (p. 223).
Il riscontro favorevole goduto in Italia da una critica che con Croce professava l’unicità dell’opera letteraria, antitetica alla prassi di ricondurre ogni spiegazione a leggi generali e a schemi politici e sociali, testimonia dell’esaurimento della stagione positivistica e del senso di angustia prodotto da un’erudizione fine a se stessa, incapace di entrare nel vivo della poesia. Non che a Croce fosse estranea un’istanza enciclopedica: La letteratura della nuova Italia si pone anche l’obiettivo di fare conoscere l’attività letteraria prodottasi nel primo cinquantennio di vita del giovane Stato italiano. Non si motivano altrimenti le quasi 2500 pagine nelle quali si dà conto imparzialmente anche di scrittori minori e minimi, per quel desiderio di completezza che è un lascito euristico delle prime ricerche erudite. Il proposito di «rendere giustizia a nomi rimasti oscuri» risponde all’esigenza di non trascurare niente e nessuno, in vista di un «quadro generale della moderna letteratura italiana», sia pure non costretto entro una griglia predeterminata e teleologica (R. Serra, Con Benedetto Croce, in Id., Scritti filosofici, a cura di J. Sisco, 1908, 2011, pp. 12-13). In un certo senso era anche un modo di fare conoscere la propria formazione culturale e di ripensarla con uno sguardo retrospettivo che mettesse ordine a tante letture in origine casuali e disordinate.
Le rivalutazioni di Matilde Serao (1856-1927), attenta osservatrice della vita sociale, accolta ed elaborata «da una fantasia mirabilmente limpida e viva» (LNI, 3° vol., 19646, p. 36), di Salvatore Di Giacomo (1860-1934), che attinge «materiali e colori dalla vita napoletana» (p. 77), di Francesco Gaeta (1879-1927), la cui poesia «vera, sostanziosa e saporosa» è letta da Croce «passeggiando per una poco frequentata strada della periferia di Napoli» (LNI, 4° vol., p. 186) combinano il compito informativo con i gusti personali, anche se, nella già citata intervista a Renato Serra e a Luigi Ambrosini, nell’ammettere di avere degli scrittori proprie impressioni, si precisava subito che da queste ci si proponeva di «cavare una lezione astratta» e di «risolvere una quistione universale» (R. Serra, Con Benedetto Croce, cit., p. 13). Ciò non toglie che, di là dal sostrato dei principi di estetica che vogliono conferire oggettività e scientificità, la stessa concretezza delle loro applicazioni fa sì che i giudizi diventino una critica militante con la quale, paradossalmente, si prende posizione contro la letteratura contemporanea per proclamare la superiorità della generazione carducciana (G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, 1989, p. 19).
Nei saggi dedicati agli autori che erano nati all’incirca negli anni dello stesso Croce, o poco prima, si nota una sorta di cordialità simpatetica che li rende particolarmente felici, specie quando a essere protagonisti sono gli esponenti del realismo regionale, come i ricordati Di Giacomo e Serao, e del verismo. Di questa poetica si apprezza il costante «contatto con la realtà e con la vita» (LNI, 3° vol., p. 197), un atteggiamento in sintonia con un «inconsapevole immanentismo» che rendeva Croce «non interessato ad altro mondo che a quello in cui effettivamente vivev[a]» (Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 62). Nel ritratto di Giovanni Verga (1840-1922) a colpire favorevolmente sono, smentendo ogni valore euristico al concetto verista di impersonalità, «le impressioni e i ricordi vivaci, diretti, immediati del suo paesello natale, della sua fanciullezza e adolescenza» (LNI, 3° vol., p. 15). Ecco allora che «l’“impersonale” Verga rivela […] la sua personalità, fatta di bontà e di malinconia» (p. 30). La lettura di Croce è partecipe, la rassegna delle opere verghiane è puntuale, dalle minori alle maggiori, e non si esime mai dal distinguere e dal giudicare. Dei due capolavori, la sua preferenza va ai Malavoglia (1881), per la «potente unità d’impressione», mentre dal Mastro-don Gesualdo (1889) emerge «qualcosa di troppo scucito e vario» (p. 33). I profili critici crociani sono effettivamente «belli; belli come ritratti intellettuali un poco magri, ma fermi e precisi e urbani e arguti» (R. Serra, Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, 1974, p. 235).
A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento comincia però a cambiare la «condizione di spirito» (LNI, 4° vol., p. 194). Non per caso Croce suddivide la stagione che va dal 1865 ai primi del Novecento in due periodi, contrassegnati dalle personalità più rilevanti, alle quali è rivolto un maggiore impegno critico, che va ben oltre il semplice arricchimento di conoscenze finalizzato alle figure minori. Sono due momenti che Croce riassume rispettivamente, per antonomasia, il primo con il nome di Carducci e il secondo con la triade D’Annunzio, Antonio Fogazzaro e Pascoli le cui monografie, per quanto siano state scritte tra le prime, entrano nell’ultimo volume proprio per essere, per così dire, i ‘neoteroi’ della letteratura italiana. Smentendo in parte l’assunto dell’illegittimità di istituire paragoni a causa dell’unicità incomparabile delle opere d’arte, il discorso si sviluppa intorno a un confronto oppositivo tra la poesia carducciana, «tutta mossa da quei sentimenti che potrebbero dirsi elementari dell’umanità: l’eroismo, la lotta, la patria, l’amore, la gloria, la morte, il passato, la virile malinconia», e quella più recente, dotata senz’altro di «maggiore finezza e sottigliezza spirituale», ma sulla quale «spira vento d’insincerità» (p. 195). Avendo costruito una «fabbrica del vuoto […] che vuol darsi come pieno», conseguenza della «poca chiarezza interiore» che «annulla i valori dello spirito e del pensiero nell’arbitrio, nella sensualità, nel sentimentalismo, nella fede all’inconoscibile e al miracolo», i tre massimi poeti della nuova generazione, in confronto a Carducci, sono come «tre malati di nervi» rispetto «a un uomo sano» (pp. 207-09), essendo viziati da un’asserita ineffabilità che è tutto il contrario dell’arte, che è espressione.
Carducci (1835-1907) rimane a lungo l’ideale artistico di Croce critico letterario, anche quando non è nominato, essendo per lui l’ultimo autore classico, prima del declino che porta al decadentismo. Lo si direbbe una sorta di archetipo, e non è senza significato che sulla «Critica» le “Note” di letteratura comincino con lui, aprendo il primo fascicolo del 1903. Nella raccolta in volume non compare però quel saggio d’esordio perché, come si legge nel Contributo alla critica di me stesso (cit., p. 45), le prime prove furono segnate da «timidezza e impaccio». In sua vece nella Letteratura della nuova Italia figurano lavori più tardi, di quando Croce aveva preso maggiore confidenza, essendo l’esercizio stesso «creatore di attitudini». D’altra parte il fatto di avere omesso quel primo saggio ancora acerbo e di averne scritti addirittura quattro nel 1909, destinati ai volumi, è la conferma dell’importanza data a Carducci e della sua centralità. «La mia generazione, se mai, fu carducciana», si legge ancora nel Contributo (p. 61), volendo dire che era ancora sensibile alle austere virtù e ai valori che furono del Risorgimento. Per quanto dedichi le sue letture alla «nuova» letteratura, Croce, nel ricercare la «sincerità» artistica degli scrittori e i valori etici accanto agli aspetti estetici, si rivela ancora erede del Risorgimento e allievo ideale di Francesco De Sanctis, tanto poco amato da Carducci, ma prossimo a lui quanto a passione civile, al punto che queste due guide spirituali sono unite nella dedica del libro La poesia del 1936, per essere stati «due maestri che per diverse vie e con diversi modi concorsero a formare negli Italiani una più schietta e severa coscienza di quel che è la poesia».
Alla generazione degli scrittori dotati di «animo forte e sensibile, complesso e sereno» subentra quella malata di un vizio morale, che «annulla i valori dello spirito e del pensiero nell’arbitrio, nella sensualità, nel sentimentalismo, nella fede all’inconoscibile e al miracolo, ed è nemica dell’idealismo, com’è avversata ora e sempre da questo» (LNI, 4° vol., pp. 208-09). Naturalmente anche qui Croce non può non distinguere, ben sapendo che «i tipi […] non coincidono con gl’individui» (p. 205). I tentativi di sistemazione si spezzano non appena si abbia dinanzi l’uomo empirico. Della «triade onomastica» si precisano subito le peculiarità, per altro tutte difettose. Di Fogazzaro si denuncia la contraddizione tra «il neocattolicesimo e la morale erotica», dell’ultimo Pascoli la «gonfiatura […] a poeta professionale e a vates che ha assunto una missione pacifistica e umanitaria», di D’Annunzio la «morale eroica e la lirica civile e nazionale» (p. 207). In tutti e tre viene tradito il principio estetico dell’autonomia dell’arte, ma il difetto è declinato in modi diversi.
Nel saggio interamente dedicato a Fogazzaro (1842-1911) si vede con chiarezza l’attuazione dei principi dell’estetica crociana, che si risolvono in una serie di giudizi negativi. Prescindendo dai dati biografici dell’autore e tenendo conto esclusivamente delle opere, da una parte si denuncia il gusto per lo spiritismo, l’occultismo, la metempsicosi, in contrasto con le simpatie per l’evoluzionismo darwiniano, il cui determinismo è per altro contraddetto dalla visione cristiana di un Dio persona, dall’altra si condanna l’invasione intellettualistica delle idee religiose, politiche, morali e letterarie nei romanzi, tradendo il carattere autonomo della letteratura. Per quanto però gli scritti di critica letteraria vogliano essere l’applicazione delle teorie estetiche, non mancano in Croce delle trouvailles che svincolano le sue analisi da percorsi altrimenti troppo prevedibili. Tale è, a proposito di Fogazzaro, la scoperta delle tante somiglianze tra Piccolo mondo antico (1895), il suo «miglior libro» (p. 143), e i Promessi sposi (3 voll., 1825-1827; 2a ed. definitiva 1840-1842), anche se alla fine la ripresa delle stesse situazioni mette ancora più in risalto la diversità del «sentimento», rispetto al quale è come se in Fogazzaro Alessandro Manzoni si fosse «fuso […] col Tommaseo» (p. 146). A Croce basta il richiamo allusivo di questi due nomi per fare comprendere la natura delle diverse forme in cui è vissuto il cattolicesimo. Con equanimità, non si tacciono nemmeno taluni aspetti positivi, quali lo spirito di osservazione della natura e la «tenerezza e delicatezza di sentimenti» (p. 143) che però non riscattano Fogazzaro dalla colpa di avere asservito la letteratura all’ideologia, coerentemente con altri giudizi che accusano Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873) di essere stato «perpetuamente convulso di santo amor di patria» e troppo corrivo ai «predicozzi» (LNI, 1° vol., 19677, p. 22), Edmondo De Amicis (1846-1908) di essersi messo al servizio della «bonaria Musa della Pedagogia» (p. 161), Ada Negri (1870-1945) di avere esercitato un’«arte missionaria» e una «poesia sociale» (LNI, 2° vol., 19687, p. 359).
Per la mente nitida e razionale di Croce, che si autodefinì «filosofo dei distinti», la confusione dei concetti puri e assoluti con i concetti empirici è sempre un aspetto negativo, come pure l’incongruenza dei toni e la contaminazione dei registri stilistici. Ne deriva una severa poetica classicistica che, nel prendere a riferimento la poesia di Carducci, rende sordi alle nuove correnti del simbolismo e dell’indirizzo che, con una voluta accezione negativa, fu chiamato decadentismo. Lo si vede dall’indignata reazione di Croce alla proposta, per lui scandalosa, di introdurre Pascoli nel canone dell’insegnamento nelle scuole, «a modello e incitamento stilistico per la nuova generazione», con la pretesa di sostituire agli scrittori che «la tradizione dei secoli ha consacrati classici […] gli idoli delle nostre fuggevoli esaltazioni, dei nostri morbosi sentimentalismi, e dei nostri capricci» (LNI, 4° vol., pp. 241-42). La durezza di questa presa di posizione che, essendo datata 1918, è accolta nella Letteratura della nuova Italia solo nelle riedizioni posteriori alla princeps del 1915, trae forse origine dal ritenere la richiesta una provocazione e un attacco proprio contro i giudizi formulati da Croce nel celebre saggio del 1907, oggetto di numerose polemiche per la valutazione riduttiva che si dava dell’intera opera pascoliana, esaminata in tutte le sue facce, da Myricae (1891) agli estremi Odi e inni (1906), dal prosatore al dantista, fino al traduttore.
In quello scritto il critico riconosceva la propria impossibilità a emettere un giudizio inequivocabile perché vedeva in Pascoli uno «strano miscuglio di spontaneità e d’artificio» (p. 124), di «lirica» e di «rettorica» (p. 89), di semplicità e di affettazione, sinonimo di assenza di sincerità e, quindi, di non poesia. Qualche frammento di vera arte non si può negare, ma è «un granellino di poesia diluito in molta acqua» (p. 107), a causa dell’indugio eccessivo sulle «minuterie», accarezzate con troppa insistenza, al punto che, in una ripresa del lessico desanctisiano, «la decorazione soffoca la situazione», essendo le immagini, oltre che incongrue, troppo dilatate. La mancanza «di vera complessità e di unità intima» (p. 111) dipende anche dall’incoerenza della metrica rispetto ai contenuti, dall’«intonazione omerica trasportata alla vita umile e alle umili cose» (p. 93), dall’intrusione, talvolta, di solenni ammonizioni che appesantiscono tenui quadretti (p. 99). Il fatto è che la vera natura di Pascoli è quella «idilliaca», amante delle piccole cose, su cui grava, dal punto di vista crociano, la colpa di «rifuggire dalla pienezza della vita» (p. 115). A chi riteneva che si dovesse affrontare con animo virile la drammaticità dell’esistere, non poteva piacere l’abbandono al pianto e il vittimismo, sintomi di una personalità passiva e debole. Non che Pascoli sia del tutto privo della coscienza del dramma umano, solo che questo è sentito «solo a guizzi e in rapidi bagliori» (p. 113).
D’Annunzio (1863-1938), richiamato espressamente nel saggio pascoliano per un parallelo tra i Poemi conviviali (1895) e la Laus vitae (1903), non possiede nemmeno questa partecipazione alle sorti degli uomini, a conferma delle tesi già esposte nel ritratto uscito nel 1904, allorché lo si era definito «indifferente a ogni passione e interessamento morale o politico, e aperto e attento al flusso delle sensazioni in quanto tali» (p. 15). Ciononostante, in questa fase di primo Novecento, il giudizio crociano è ancora positivo, proprio perché in D’Annunzio l’arte è distinta dalla morale e praticata nella sua dimensione pura e autonoma. Addirittura, come spiega lo stesso Croce nel licenziare i volumi della Letteratura della nuova Italia, il suo testo sull’Imaginifico è «intonato in parte ad apologia» perché quando lo scrisse aveva innanzi «le facce scioccamente ostili degli universitari e accademici d’Italia» (p. 264), i quali, succubi di preconcetti estetici e moralistici, esigevano che il poeta fosse «un sapiente espositore di teorie e di programmi moralmente plausibili» (p. 9), laddove ciò che a quel tempo contava di più per Croce era la purezza della coscienza artistica, e di D’Annunzio non si poteva non dire che fosse un «artista assai studioso ed esperto nei segreti dell’arte». Perciò la formula – divenuta molto celebre e quasi proverbiale – inventata dal critico, che lo aveva definito «dilettante di sensazioni» (p. 10), non si riferiva alla dimensione «estetica», in cui anzi era peritissimo, ma al contenuto «psichico» della sua arte, ossia alla «disposizione verso la vita e la realtà», di cui non possedeva coscienza «piena e vigorosa», avendo per guida «il capriccio della fantasia o l’allettamento sensuale» (pp. 11-12).
Nella prima serie della Letteratura della nuova Italia la valutazione crociana di D’Annunzio, pur con non poche riserve, dovute alla sensualità della sua arte, è ancora di segno positivo, indotta dall’«abbondanza», dalla «veemenza della sua vena» e dall’essere poeta «tutto fantasia, intatto e indisturbato da preoccupazioni intellettive e riflessive, che sono cagione e indizio di fiacchezza estetica» (p. 8). Sicché rispetto a Fogazzaro e a Pascoli è ritenuto «il più vigoroso e ricco temperamento artistico» (p. 206), che fa di lui il meno «insincero» dei tre per avere riconosciuto «gli aspetti falsi della sua anima» (p. 207). Nella versione apparsa in origine sulla «Critica» il saggio esordiva addirittura con questi accenti squillanti: «rendiamo omaggio a Gabriele d’Annunzio, all’artefice mirabile, al lavoratore instancabile, a questa impetuosa forza produttrice ch’è nel suo massimo slancio». Proseguiva poi proclamando a chiare lettere a tutti gli scettici che con D’Annunzio «si ha innanzi un artista, e grande», detentore a pieno diritto di «un posto nell’anima moderna», e che le stesse manifestazioni estreme di esaltazione e di «odio feroce» sono il segno «delle personalità originali, degli ingegni che escono dall’ordinario» («La Critica», 1904, 2, p. 1). Vero è che nel confluire nel quarto volume della Letteratura della nuova Italia questi giudizi entusiastici sono eliminati o quanto meno mitigati, ma ciò non significa ancora una palinodia, perché nella sostanza si ribadisce una qualche benevolenza per D’Annunzio che corre parallela a quella per la letteratura del Seicento, anch’essa considerata con un atteggiamento molto diverso da quello tenuto negli anni Venti, quando il suo rifiuto sarà totale.
Ai primi del Novecento il fenomeno del decadentismo aveva indotto a riscoprire il barocco per certi aspetti comuni e simmetricamente era diventato quasi topico il parallelo tra Giambattista Marino (1569-1625) e D’Annunzio, anche se per Croce l’autore dell’Adone (1623) era «tutto freddissimi arzigogoli della riflessione», mentre nel suo corrispettivo novecentesco risalta «la profusione di immagini vive» (p. 96). In ogni caso anche per il barocco, grazie alla sua novità, spregiudicatezza e freschezza di idee, si invocava la «simpatia» necessaria a rendergli «giustizia», sottraendo il periodo alle sentenze sommarie di chi ne parlava «come di una follia, di una pestilenza, di una decadenza» (Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 1911, p. VIII). Questa sia pur timida rivalutazione del barocco, analoga a quella di D’Annunzio, si tramuta in una condanna senza appello nella Storia dell’età barocca in Italia, edita nel 1929, per una concezione di arte sorretta da una «logica del libito, del comodo, del capriccio, e perciò utilitaria o edonistica che si chiami» (1957, p. 25). Identica è la parabola critica su D’Annunzio al quale, nella prosecuzione della Letteratura della nuova Italia, uscita tra il 1939 e il 1940, è imputata l’assenza di «umanità», perché
tutta l’opera sua […] non è se non un conato fallito per attingere l’umanità in forma di dramma umano e di tragico terrore e pietà: fallimento che conferma la privazione e il limite che è nell’esser suo (6° vol., 1940, p. 258).
Difficile trovare espressioni più sprezzanti e definitive, uguali nella collera a quelle impiegate per stroncare il fenomeno barocco. Le cause della doppia palinodia di quanto asserito prima della Grande guerra sono le stesse, e dipendono sia dalla maturazione delle idee estetiche, sia dall’avvento del fascismo.
L’indulgenza iniziale per D’Annunzio si fondava sul rilievo attribuito all’originalità e all’individualità dell’artista, sulla purezza e la nitidezza della sua opera. Non considerando fino in fondo il carattere inscindibile di forma e contenuto, la preminenza concessa alla bellezza della forma metteva in secondo piano la mancanza di integrità morale dell’uomo e le deficienze della sua personalità etica. Per dirla con le medesime formule di Croce, il «dilettantismo psichico» di D’Annunzio era compensato dal fatto che nessuno, rispetto invece al «dilettantismo estetico», era meno dilettante di lui. Pertanto la sua «gran profusione di sensazioni elementari», che con la sua esuberanza e vitalismo costituisce «uno dei più lucidi esempî che possano illustrare la teoria dell’unità indissolubile dell’arte, la quale è, tutt’insieme, poesia e musica, pittura e scultura» (LNI, 4° vol., p. 18), era pur sempre preferibile a un Pascoli ritenuto troppo esangue, sentimentale, impressionista come un pittore «che vada in giro per la campagna» accontentandosi di «schizzi, bozzettini» delineati, come Myricae, con «pochi tratti segnati a lapis» (p. 99).
Negli anni del fascismo il giudizio si rovescia: a D’Annunzio manca ogni «risalto alla vita interiore dei pensieri e degli affetti» (LNI, 6° vol., p. 254) perché gli «rimangono estranei tutti gli humaniora, storia, filosofia, religione» e quindi, come conseguenza di ciò, «la stessa alta poesia» (p. 259). L’«apparenza lussureggiante» non nasconde più un senso di povertà che mette «in cruda evidenza la sua sostanziale aridità poetica» (p. 263). Dal tempo del Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, la letteratura si poteva giustificare per Croce solo come affermazione di vita civile e ogni possibile indulgenza per l’estetismo individuale alla D’Annunzio non poteva più essere tollerata (G. Contini, La parte di Benedetto Croce, cit., p. 41). Per la stessa ragione, Pascoli, in un intervento parallelo anticipato sulla «Critica» del 1935 sotto la comune dicitura di “Ripresa di vecchi giudizii”, è almeno in parte rivalutato perché rispetto a D’Annunzio, «ignaro di spiritualità», possedeva «sano discernimento morale, sincera disposizione verso il bene, senso di pietà e di giustizia, ammirazione per l’eroico umano» (LNI, 6° vol., p. 266). Alla luce della presente dittatura fascista, anche a Pascoli, che in precedenza era sempre stato contrapposto a Carducci, è riconosciuta quella «sanità» appartenuta al maestro, e al suo mite pacifismo si ascrive la «chiaroveggenza» di avere respinto «le infeste dottrine, che ancor oggi tiranneggiano gli spiriti e offuscano le menti» (p. 267).
Croce non si è mai sottratto al divenire della storia e, come ha riconosciuto Serra, la vera caratteristica del suo ingegno è stata «il progresso continuo e dialettico», «la forza pacata chiara sistematica dell’intelligenza che si dilata e cresce nel suo corso, come l’acqua che mai non si ferma» (Scritti letterari, morali e politici, cit., p. 454). Se ne ha una riprova anche nella Letteratura della nuova Italia, soggetta, dopo i primi quattro volumi del 1914-1915, a una nuova serie di integrazioni cominciate a uscire sulla «Critica» dal 1934 e raccolte in due nuovi volumi, editi rispettivamente nel 1938 e nel 1940. Dopo avere abbondantemente «mietuto» tra gli scrittori operanti tra il 1860 e il 1915, spesso mai analizzati prima di lui, che, «tra le ritrosie, le incertezze e le timidezze altrui», ebbe il «coraggio» di emanare «certi riconoscimenti e affermazioni, e certe negazioni, e di accettarne la responsabilità», Croce, nell’Avvertenza che apre il quinto volume, confessa a distanza di quasi trent’anni il desiderio di «spigolarvi» di nuovo con il piacere di «ritornare col pensiero su uomini e cose del tempo della propria giovinezza». Dove però la «mietitura era stata sufficientemente accurata e i covoni avevano lasciato sfuggire ben rare spighe», non ci si devono aspettare scoperte di grande pregio artistico; nondimeno non sembra inutile «la conoscenza di disposizioni d’animo individuali e sociali, di sentimenti e di concetti, degni di alcuna memoria» (LNI, 5° vol., 19574, pp. v-vi). L’intento quindi di questa prosecuzione, più che ubbidire a criteri artistici, risponde a una ragione documentaria, storiografica, con la mira di fare conoscere autori dimenticati delle cui opere Croce, per questo scopo, riporta ampie selezioni antologiche.
La struttura complessiva è ancora più centrifuga e dispersiva di quella precedente, e men che meno vi si può cogliere il disegno di una storia letteraria fatta di una filza «di nomi di scrittori e di titoli di libri» che ambiscano a una «fittizia compiutezza» (p. vii). Si riafferma così il carattere di «monografismo», inteso quale «effettiva determinatezza e unità di problema, che renda unitaria la materia trattata» («La Critica», 1934, 32, p. 78). In realtà le ultime appendici, più che procedere in direzione centripeta, vanno in senso centrifugo, con aggiunte che sembrano proiettarsi su quell’orizzonte enciclopedico negato in sede teorica. Soltanto per la triade Fogazzaro-D’Annunzio-Pascoli e per Ada Negri si ha un vero aggiornamento che integra con un proposito di compiutezza il rendiconto delle loro opere uscite dopo i ritratti crociani di primo Novecento. Gli altri profili colmano le omissioni dei primi quattro volumi, risalendo alla letteratura garibaldina, a riprova dell’inclinazione per una letteratura tradizionale. Tra gli altri, si recuperano scapigliati come Remigio Zena o Camillo Boito, carducciani come Adolfo Borgognoni, veristi come Federico De Roberto (1861-1927), di cui non si intende il valore, essendo stimato «ingegno prosaico […] incapace di poetici abbandoni» (LNI, 5° vol., p. 150).
Pur essendo tutti lavori degli anni Trenta, nessuno fa spazio ai contemporanei. Vero è che Croce si occupò anche della «letteratura del giorno», scrivendo articoli, tra gli altri, su Guido Piovene, Delio Tessa o Riccardo Bacchelli, ma questi furono raccolti nelle Pagine sparse e non, pur potendolo fare, nella Letteratura della nuova Italia. Evidentemente si voleva lasciare fuori da questa specie di canone letterario la piena attualità, né ciò può stupire se in un intervento della «Critica» del 1937, polemico contro Attilio Momigliano che aveva rinvenuto nella produzione dei suoi giorni «un vigoroso senso etico, uno spirituale realismo, e una nuova classicità», Croce aveva replicato con stizza che viceversa quasi tutta l’«odierna letteratura» non era altro che «impressionistica, scettica, pessimista, cruda, brutale», senza dire del peccato originale, quello di avere collocato «nella storia della grande letteratura italiana, in un grande manuale indirizzato alla scuola […], scrittori e scrittorelli, talvolta persino adolescenti», lodati per giunta «in modo assai strabiliante» (35, pp. 78-79).
Nell’avvicinarsi al presente, il numero degli scrittori considerati viene sempre più riducendosi: quasi completo è il regesto del quarantennio 1860-1900, già più selettivo il panorama dei quindici anni successivi. La giustificazione di questa scelta è offerta nella Licenza con cui Croce prende congedo dagli ultimi due volumi, nella quale si dichiara che, mentre «l’allontanamento nel tempo degli uomini e delle cose della [sua] giovinezza» gli ha reso il compito più agevole, la produzione degli anni seguenti, nei quali egli stesso ha preso «molta parte alla vita della letteratura e cultura italiana», lo ha posto «in una relazione alquanto meno sentimentale e alquanto più impaziente» (LNI, 6° vol., p. 407). Ci sarebbe ancora, è vero, la possibilità di un settimo «volumetto» nel quale dare conto di ciò che «par degno di lode nella più recente letteratura italiana, traendolo fuori dall’ammasso di buono e di cattivo in cui ora sta confuso». Le condizioni oggettive però non sembrano consentirlo, a causa della
sopraffazione che della critica hanno fatto coloro che stendono le mani violente e rapaci sopra ogni cosa e credono che i valori e disvalori teorici si possano determinare secondo interessi pratici ossia ad arbitrio (p. 408).
Frastornato dal clima chiassoso e violento del fascismo, da un mondo letterario divenuto «simile a una folla sconvolta e urlante» che «col gridio» impedisce «la formazione della pacata communis opinio», Croce, nel sentirsi ancora più vecchio della sua età, non esita, nel chiudere l’impresa pluridecennale della Letteratura della nuova Italia, a confessare la sua nostalgia dei passati «tempi più fortunati, nei quali, letterariamente parlando, l’Italia era come un salotto di gente educata e colta, che discuteva, dissentiva, dubitava e, nei più dei casi, si metteva d’accordo» (p. 408). Negli anni Trenta il clima non era più quello animoso ma civile in cui era stato possibile sceverare con equilibrio e libertà i «valori dai disvalori». Per questo la serie delle monografie crociane non poté avere, nonostante le buone intenzioni, un settimo volume. Non se ne sente però la mancanza, perché bastano le migliaia di pagine esistenti per considerare attuato il proposito che Croce si era prefissato fin dall’inizio: il rendiconto critico della produzione letteraria italiana di mezzo secolo, indagata in tutte le sue pieghe con una forza intellettuale capace di illustrarne gli aspetti con esiti anche discutibili, ma sempre ammirevoli per la loro perspicua chiarezza, per la profonda serietà razionale, intellettuale e morale.
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