di Anna Pascale
Da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza estromettendo Fatah nel 2007, gli interventi militari israeliani sulla Striscia si sono ripetuti a cadenza quasi regolare. Tel Aviv non manca di richiamare periodicamente Hamas all’ordine, infliggendo attacchi esemplari che mirano alla distruzione delle sue risorse strategiche ma che non evitano la morte di migliaia di civili. Alla Conferenza internazionale dei donatori per Gaza tenutasi il 12 ottobre 2014 al Cairo, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha definito ‘rituale’ l’opera di ricostruzione e distruzione perpetuatasi nella Striscia in questi anni.
La missione dell’estate 2014 sembra ricalcare, infatti, le tre precedenti. Le dinamiche militari si ripetono con qualche variante, così come il lessico di riferimento. L’operazione ‘Protective Edge’, tradotta anche ‘Scogliera solida’, si colloca quasi due anni dopo l’operazione ‘Colonna di nuvole’, riprendendo la consueta tradizione militare israeliana di trarre i nomi delle missioni dell’esercito dal mondo della natura e delle sue forze inesorabili, quasi a spostare la responsabilità di quanto avviene da chi governa a qualcosa di superiore e incontrollabile. Sorvolando sulle tecniche psicologiche e mediatiche adottate per comunicarla, quella del 2014 è una guerra che serviva a entrambe le parti.
Il rapimento e l’assassinio dei tre studenti coloni a Hebron, da subito attribuiti a Hamas (solo in un secondo momento le indagini dimostrarono la responsabilità di membri della tribù dei Qawasmeh, forse su mandato di Hamas), ha rappresentato per l’ex coalizione di maggioranza alla Knesset l’occasione perfetta per mettere finalmente alla prova Netanyahu (accusato di passività dai suoi alleati), chiamandolo alle armi per fare giustizia.
La reazione del premier ai danni di Gaza assolve così a molteplici funzioni. Rispondere all’aggressione subita, rinsaldare la maggioranza attorno a sé, cementare i rapporti con l’Egitto di al-Sisi contrastando il nemico comune e, soprattutto, ostentare il disappunto di Israele rispetto all’accordo stipulato tra le due amministrazioni palestinesi il 23 aprile 2014 per dar vita a un governo di unità nazionale (le cui implicazioni empiriche stentano ancora a palesarsi) e indire nuove elezioni. Lungi dal vedervi un’occasione per far giocare i palestinesi al ribasso e raggiungere un compromesso a suo vantaggio, il governo israeliano al momento della riconciliazione Hamas-Fatah si è trincerato dietro le condizioni che perpetuano lo status quo attuale: sul tavolo i negoziati proposti ma mai raggiunti, sul terreno l’incessante pratica di colonizzazione in Cisgiordania e Gerusalemme Est, finalizzata a rendere nel tempo inopportuna la proposta di una soluzione a ‘due stati’.
La battaglia a Israele ha significato, invece, per Hamas la possibilità di risollevare il proprio credito tra le molteplici sacche della resistenza palestinese, in questi anni ridimensionato dall’agguerrita concorrenza salafita e dalla progressiva scomparsa di preziosi alleati, come i Fratelli musulmani egiziani ma anche Teheran, Damasco e Riyadh.
Raggiunti i reciproci interessi e rattoppati temporaneamente i dissidi con una tregua mediata dal Cairo, di questa guerra rimane una Gaza distrutta in una regione ancor più disintegrata, le cui terribili implicazioni allontanano ulteriormente le possibilità di raggiungere una soluzione di lungo termine al conflitto nel breve-medio periodo. Nord Africa e Mashreq sono attraversati da guerre, miserie e instabilità. In particolare, la nascita nel cuore del Medio Oriente di una nuova entità politico-militare di matrice islamica radicale, che semina terrore e spinge i sunniti dentro e fuori dalla regione a unirsi al jihad contro l’Occidente, può rappresentare una seria minaccia al futuro dello stato ebraico. Si teme che l’entusiasmo per la causa jihadista si insinui all’interno della popolazione palestinese, soprattutto negli animi dei numerosissimi giovani disoccupati e frustrati residenti nella Striscia e in Cisgiordania che potrebbero vedervi una liberazione dalle ingiustizie di Israele. Lo Stato islamico (Is) potrebbe minare anche alla stabilità dei preziosi, in quanto unici, alleati israeliani nella regione – prima tra tutti la Giordania, troppo vicina alle zone di fuoco per non rimanerne scottata – e dei suoi confini, considerando il fatto che se l’opera di espansione dell’Is dovesse spingersi verso Ovest, potrebbe giungere a controllare le zone del Golan siriano.
Sullo sfondo, le dimostrazioni di impotenza della strategia statunitense nella regione e il riavvicinamento del nemico iraniano agli alleati occidentali, trascinano Israele in uno stato di profonda incertezza che da un lato desta preoccupazione, ma dall’altro giustifica la sua disattenzione – così come quella dell’intera comunità internazionale – rispetto al raggiungimento di un accordo di pace duraturo con la controparte palestinese. Il rito costruzione-distruzione esiterà a estinguersi.