La grande scienza. Neuroscienze
Neuroscienze
Gli eventi del XX sec. hanno mutato la percezione che abbiamo di noi stessi. Dal genocidio all'invenzione delle armi nucleari, dalla deforestazione al riscaldamento globale, ci riconosciamo oggi come la specie più pericolosa del pianeta, proprio quando la prima fotografia della Terra, scattata dalla Luna, ci ha mostrato che pianeta fragile e straordinario sia il nostro. La scienza ha introdotto una visione riduzionistica dell'uomo come essere materiale, in cui volontà e libero arbitrio diventano concetti sospetti.
Una delle branche più vitali della scienza del XX sec., che ha alimentato questi mutamenti e ne è stata a sua volta alimentata, è lo studio del cervello, ambito del quale si occupano le neuroscienze.
Lo scopo finale della ricerca in neurobiologia, perseguito studiando il modo in cui una lesione cerebrale distrugge la capacità di una persona di controllare il proprio comportamento o analizzando il funzionamento di un singolo neurone in una lumaca di mare, è stato sempre lo stesso, e cioè la comprensione di ciò che noi siamo, in un contesto biologico.
All'inizio del XX sec. quasi tutte le conoscenze in neurobiologia potevano essere raggruppate in due distinti livelli di analisi. Il primo si basava sulla microscopia: il perfezionamento dei microscopi aveva permesso di intravedere per la prima volta i costituenti fondamentali del cervello, le cellule chiamate neuroni, la cui forma caratteristica consiste in un corpo cellulare dal quale partono lunghi prolungamenti filiformi che si ramificano in varie direzioni. Gli aspetti controversi del dibattito scientifico nelle neuroscienze di fine Ottocento riguardavano proprio la natura di queste particolari cellule. Alcuni scienziati sostenevano che i neuroni, durante lo sviluppo, estendevano i loro prolungamenti gli uni verso gli altri, fondendosi in una sola rete interconnessa chiamata sincizio. A questa visione si opponeva la dottrina del neurone, secondo la quale i neuroni non si fondevano tra loro, mantenendo al contrario la loro individuale integrità cellulare.
Lo schieramento favorevole all'ipotesi sinciziale era capeggiato dal neuroscienziato italiano Camillo Golgi (1843-1926), mentre la dottrina del neurone era propugnata dallo spagnolo Santiago Ramón y Cajal. La questione si risolse verso la fine del secolo, quando Cajal dimostrò che i neuroni mantengono la loro integrità e che vi sono in effetti piccolissime separazioni tra di essi, chiamate da Charles S. Sherrington, nel 1897, sinapsi. Il progresso tecnico che rese possibile il trionfo della dottrina del neurone fu - per ironia della sorte - un importante metodo di ricerca microscopica, detto 'della reazione nera' oppure 'della reazione cromoargentica', messo a punto proprio da Golgi.
L'altra branca principale delle neuroscienze del 1900, riguardante l'organizzazione e le funzioni cerebrali, ebbe modo di svilupparsi per il gran numero di uomini con ferite da arma da fuoco alla testa - a causa dei conflitti bellici - o di quelli che avevano subito danni cerebrali permanenti a causa di incidenti sul lavoro negli impianti industriali. All'inizio del XIX sec. i frenologi avevano avanzato l'importante ipotesi secondo la quale aree diverse del cervello assolvevano funzioni differenti. Nel secolo seguente divenne chiaro che lesioni (tumori o colpi apoplettici) subite da individui diversi nelle stesse aree cerebrali producevano deficit relativamente simili e sembravano pertanto avvalorare l'esistenza di mappe abbastanza stabili della organizzazione e delle funzioni cerebrali.
All'inizio del XX sec., dunque, occorreva chiarire le modalità di trasferimento dell'informazione da un'estremità all'altra della cellula neuronale; spiegare come essa passi da un neurone all'altro attraverso la sinapsi e, inoltre, individuare le aree del cervello che forniscono il substrato a determinate funzioni. Alcuni 'visionari', infine, riflettevano già sul modo in cui le funzionalità a livello dei neuroni singoli si traducevano nelle funzioni espresse a livello dei milioni di neuroni che costituiscono intere aree cerebrali.
All'inizio del secolo era già chiaro che l'informazione veniva trasportata da una estremità di un neurone (l'insieme di processi ramificati chiamati dendriti), attraverso il corpo cellulare, verso i processi all'altra estremità (i terminali assonici), sotto forma di un'onda di eccitazione elettrica. Negli anni Venti, Edgar D. Adrian e Haldan K. Hartline utilizzavano alcuni elettrodi per registrare queste onde nei neuroni singoli, e nel 1942 Stephen W. Kuffler era in grado di asportare singole fibre nervose per eseguire queste registrazioni in una capsula di Petri. Una fase di progresso esplosivo seguì negli anni Quaranta, quando Alan L. Hodgkin, Andrew F. Huxley e Bernard Katz condussero studi sui fenomeni di selettività ionica presentati dalla membrana della cellula nervosa, evidenziando come, sotto stimolazione, l'eccitazione elettrica si propaghi lungo il neurone. A questo fine fu necessario comprendere come lo stato di riposo, non eccitato, del neurone richieda il pompaggio di sodio al di fuori del neurone e ritenzione di potassio al suo interno. All'inizio della stimolazione, alcuni canali per Na+ si aprono e consentono il flusso di Na+ all'interno del neurone, mentre l'eccitazione viene terminata con l'apertura dei canali per K+, che consente la fuoriuscita di questo ione. Le pompe sodio/potassio riportano quindi gli ioni nella loro distribuzione originaria. Lavori successivi chiarirono la natura e il funzionamento di questi canali e di queste pompe ioniche.
Mentre si andava comprendendo la natura dell'eccitazione neuronale, gli studi si concentrarono parallelamente sul modo in cui tale eccitazione si propagava dall'assone di un neurone ai dendriti dell'altro. Il fatto di aver accettato l'esistenza di una separazione sinaptica tra i neuroni rappresentava un problema, in quanto le onde elettriche non potevano 'saltare' attraverso esse. Le cellule neuronali dovevano quindi 'tradurre' l'eccitazione elettrica per poter comunicare con il neurone postsinaptico.
Si fece strada l'ipotesi che l'eccitazione al terminale assonico innescasse il rilascio di messaggeri chimici, i neurotrasmettitori, che si propagano attraverso la sinapsi dando luogo agli eventi elettrici nel neurone successivo. Nel 1914 Henry Dale dimostrò l'esistenza di uno di questi supposti neurotrasmettitori (l'aceltilcolina). In seguito emersero criteri per stabilire se un certo composto fosse davvero un neurotrasmettitore; negli anni Cinquanta Eugene Roberts e J. Awapara identificarono il primo neurotrasmettitore puramente inibitorio (il GABA, acido γ-amminobutirrico), mentre il primo esclusivamente eccitatorio, il glutammato, fu scoperto da David Curtis, John Phillis e Jeff Watkins. Dai lavori di Katz e Ricardo Miledi fu possibile dedurre che i neurotrasmettitori venivano immagazzinati e rilasciati ai terminali assonici in agglomerati distinti. Gli sviluppi e le applicazioni della microscopia elettronica negli anni Cinquanta, da parte di George E. Palade, Sanford Palay, Eduardo de Robertis e H.S. Bennett, confermarono l'esistenza di queste 'vescicole' di neurotrasmettitori. John E. Heuser e Thomas S. Reese negli anni Settanta dimostrarono che i neurotrasmettitori potevano essere riciclati nelle vescicole. In questo periodo si arrivò a comprendere il modo in cui i neurotrasmettitori regolano i canali ionici nel neurone postsinaptico, e a questo fine fu necessario dimostrare l'esistenza di 'recettori' che si legano ai neurotrasmettitori, e l'accoppiamento tra questi recettori e i canali ionici.
La ricerca in elettrofisiologia, volta a verificare come l'eccitazione venga trasportata all'interno di un neurone, dai dendriti all'assone, e sulla neurotrasmissione, come l'eccitazione si trasmetta tra i neuroni, viene tuttora portata avanti. Alcuni degli studi più stimolanti in elettrofisiologia riguardano la comprensione dell'effettiva struttura molecolare dei canali e delle pompe ioniche, e dei geni che codificano queste proteine. Sono particolarmente interessanti le scoperte di versioni multiple di questi canali e pompe, ognuna delle quali è un complesso formato da molte subunità molecolari, la cui composizione si può variare nel tempo, alterandone in tal modo la funzione (per es., cambiando la soglia di eccitazione necessaria per l'apertura di un canale per Na+, oppure la durata dell'intervallo in cui tale canale rimane aperto). Questa conoscenza ha anche preparato il terreno per lo studio del modo in cui le anomalie di questi canali e pompe possono dar luogo a malattie (per es., le mutazioni del gene responsabile del canale per K+ possono determinare l'eccitazione neuronale incontrollata, che è tipica dell'epilessia).
La ricerca sulla neurotrasmissione riflette la straordinaria variabilità dei sistemi di neurotrasmettitori. Attualmente dozzine di sostanze sono candidate come possibili neurotrasmettitori. La ricerca su tali sostanze verte, tra l'altro, sullo studio della loro funzione (sia a livello della loro natura eccitatoria o inibitoria rispetto al neurone bersaglio sia a livello più globale), dei loro percorsi di sintesi e dei farmaci che ne regolano la produzione, dei geni che codificano le proteine specifiche e delle malattie che derivano da livelli anomali di neurotrasmettitori. Lavori recenti hanno riservato alcune sorprese. In primo luogo, in contrasto con una legge enunciata da Dale che ebbe molto seguito, risulta che la stessa vescicola può contenere più tipi di neurotrasmettitore, dando luogo a una orchestrazione di effetti a opera di diversi messaggeri nella stessa sinapsi. In secondo luogo, alcuni neurotrasmettitori sono dotati di una struttura chimica molto inconsueta (come l'ossido di azoto, che è un gas) e di meccanismi d'azione altrettanto inconsueti (come, per es., il fatto di trovarsi nei dendriti del neurone postsinaptico, e di viaggiare nella direzione 'sbagliata' attraverso la sinapsi). Alcune sostanze infine agiscono da neuromodulatori, in quanto non alterano l'eccitabilità del neurone postsinaptico, ma ne modificano la risposta a un altro neurotrasmettitore.
Lo studio del lato postsinaptico della sinapsi si è concentrato sulla natura e sulla funzione dei recettori dei neurotrasmettitori. Si è scoperto recentemente, tra l'altro, che la maggior parte dei neurotrasmettitori possiede diversi tipi di recettori, in alcuni casi dozzine, che mediano effetti diversi. Di conseguenza, la ricerca in neurofarmacologia è mirata soprattutto allo sviluppo di farmaci che alterano l'attività soltanto di alcuni sottotipi di recettori per un dato neurotrasmettitore. Il lavoro di Paul Greengard ha portato successivamente allo studio degli effetti cellulari della neurotrasmissione in un nuovo dominio. In particolare, alcuni recettori vanno oltre la semplice modificazione del flusso di un particolare ione. Lo stabilirsi del legame tra un neurotrasmettitore di questo tipo e tali recettori innesca piuttosto delle cascate di eventi intracellulari 'secondi messaggeri'. Tali cascate possono portare all'attivazione oppure all'inattivazione di particolari enzimi, o perfino all'accensione o allo spegnimento di geni specifici. Analogamente ai canali e alle pompe ioniche, i recettori dei neurotrasmettitori sono costituiti tipicamente da diverse subunità, e questa loro composizione, e di conseguenza la loro funzione, può cambiare nel tempo.
Come abbiamo già accennato, all'inizio del XX sec. cominciò a svilupparsi anche una letteratura sulle funzioni di macroscopiche regioni del cervello (comprendenti milioni di neuroni). I diversi dati erano per lo più derivati da un approccio basato sulle 'lesioni', che considerava i deficit funzionali in una persona come conseguenza di un danno cerebrale subito in una particolare area. Tali scoperte avevano dimostrato che ci sono moltissime sottoregioni del cervello, tra loro interconnesse; che questa organizzazione anatomica si conservava in linea di massima in tutti i membri di una specie e, ancora, che aree diverse del cervello erano responsabili di funzioni differenti.
Questo filone di ricerca continuò nel corso del XX secolo. Un ambito era puramente neuroanatomico. In presenza di un raggruppamento di neuroni in una particolare regione X del cervello, ci si chiedeva in quale zona essi proiettassero i loro assoni e quali neuroni, in altre aree, proiettassero a loro volta gli assoni verso i neuroni considerati. Riuscendo a capire a quali regioni 'parla', e da quali 'ascolta', una certa regione X, si ottengono informazioni sulla sua funzione. Questi approcci neuroanatomici furono favoriti dalla disponibilità di microscopi più potenti e di tecniche per la colorazione selettiva di popolazioni neuronali specifiche. Ciò consentì negli anni Sessanta la fusione delle ricerche sulla neuroanatomia e sulla neurotrasmissione, a opera di Kjell Fuxe, Tomas Hökfelt e A. Carlsson, rendendo possibile la ricerca dell'area sulla quale la regione X invia le proprie proiezioni e di quali neurotrasmettitori si serva.
Vi sono stati grandi progressi anche nella neuroanatomia funzionale e ciò ha richiesto lo sviluppo di tecniche sperimentali in grado di consentire la distruzione controllata di piccole regioni cerebrali in animali di laboratorio. È stato anche necessario, e non meno importante, il riconoscimento darwiniano delle grandi somiglianze neuroanatomiche e funzionali tra gli esseri umani e gli altri animali. Tutto questo ha portato allo sviluppo attuale di modelli animali per malattie neurologiche quali i morbi di Alzheimer e di Parkinson, e perfino per i disturbi mentali.
Tali approcci hanno rivelato le zone e i percorsi cerebrali che mediano le diverse modalità sensoriali, controllano i differenti sistemi motori, il rilascio ormonale e alcuni aspetti della fisiologia periferica. Gli studi effettuati sulla corteccia hanno messo in luce regioni che si specializzano in funzioni complesse e sofisticate, come la produzione del linguaggio e la sua comprensione. Dagli anni Trenta, poi, James Papez, Paul D. MacLean e Walle J.H. Nauta hanno tracciato i contorni del sistema limbico, la regione remota e altamente interconnessa del cervello coinvolta nelle emozioni.
Nel corso del XX sec. non sono stati certo risparmiati casi da studiare di esseri umani con danni cerebrali subiti in guerra ma si sono avuti anche casi in cui le lesioni cerebrali sono state procurate intenzionalmente, come in H.M., il paziente più famoso della storia della neurologia. Da giovane, H.M. soffriva di una forma intrattabile e potenzialmente fatale di epilessia, e fu presa la decisione di rimuovere i due lobi temporali medi (contenenti 'focolai' anormali di cellule, che innescavano gli attacchi) da entrambi i lati del cervello. Nel 1957 Brenda Milner aveva dimostrato che H.M. era in grado di ricordare eventi che risalivano approssimativamente al quarto di secolo precedente l'operazione ma era incapace di costruire memorie esplicite nuove. Ricerche successive dimostrarono che H.M. era in effetti in grado di imparare, ma in una forma implicita, non conscia. Ciò aprì la strada alla comprensione del fatto che vi è una tassonomia di tipi diversi di memoria, con differenti substrati neuronali.
A partire dagli anni Sessanta un'altra popolazione di pazienti, affetti da epilessia incontrollabile, subì un tipo diverso di lesioni. In questo caso infatti veniva troncato il corpo calloso, il fascio di fibre nervose che connette i due emisferi, per evitare che le crisi si propagassero ripetutamente tra i due emisferi. Roger W. Sperry e Michael S. Gazzaniga, studiando questi pazienti split-brain (a cervello diviso), scoprirono la lateralizzazione delle funzioni cerebrali e, su un piano più filosofico, sollevarono il problema della natura dell'individualità e della possibilità che i pazienti split-brain possedessero due 'coscienze'.
Negli anni intorno alla metà del XX sec. si assistette alla diffusione di pratiche in cui si procuravano intenzionalmente lesioni a esseri umani per le motivazioni più oscure. Fu il periodo della lobotomia prefrontale, che si credeva efficace per i più disparati disturbi neurocomportamentali; tra gli anni Sessanta e Settanta fu poi sviluppata l'amigdalectomia, per individui incoercibilmente violenti, allo scopo di distruggere una struttura del sistema limbico che gioca un ruolo chiave nei meccanismi di aggressione. Il fondamento scientifico di tali pratiche (in altri termini la loro efficacia) rimane controverso; d'altra parte, nessuno mette oggi in dubbio la loro natura altamente immorale.
La ricerca nei vari ambiti delle neuroscienze è stata rivoluzionata negli ultimi anni dall'avvento delle tecniche di imaging del cervello. TAC (tomografia assiale computerizzata) e MRI (magnetic resonance imaging, imaging a risonanza magnetica) hanno permesso l'acquisizione di immagini statiche della struttura del cervello, e questo ha aiutato sia la medicina (perfezionando molto, per es., gli strumenti di rivelazione di tumori cerebrali) sia le neuroscienze di base (mettendo in luce la rilevanza funzionale delle dimensioni di una certa area cerebrale in individui diversi). Presto sono emerse anche tecniche più dinamiche di imaging, con l'avvento della PET (positron emission tomography, tomografia a emissione di positroni) verso la fine degli anni Settanta e della fMRI (risonanza magnetica funzionale) nei primi anni Novanta. Tali tecniche consentono la visualizzazione dell'attività cerebrale, piuttosto che della sua sola struttura, in soggetti umani svegli, favorendo enormemente la ricerca nel settore.
Questo approccio ha in gran parte lo stesso fondamento logico degli studi classici basati sulle lesioni, risalenti a più di un secolo fa, finalizzati a chiarire le funzioni delle diverse parti del cervello. Ciò che è straordinario è la qualità dell'informazione che si può ricavare da soggetti umani in condizioni normali. Si considerino i seguenti tre esempi di studi basati su imaging funzionale del cervello: (a) dato un compito consistente nella risoluzione di un problema complesso, una coppia di gemelli ha una maggiore probabilità di escogitare la stessa soluzione rispetto a una coppia non gemellare, suggerendo che vi possano essere somiglianze nella relativa funzionalità espressa dal cervello. Eppure, le tecniche di imaging rivelano che, nel convergere alla risposta fornita, gli schemi di attivazione cerebrale nelle coppie di gemelli presentano la stessa diversità delle coppie non gemellari. Strade differenti conducono quindi alle stesse soluzioni. (b) Un problema filosofico consiste nel presentare ai soggetti due scenari, in cui gli attori devono prendere decisioni di valore etico; gli scenari proposti hanno la stessa struttura logica, ma possiedono impatti emotivi diversi (in un caso si deve uccidere una persona con le proprie mani, per salvarne molte, mentre nell'altro caso c'è lo stesso bilancio di vite umane, ma le azioni richieste al soggetto sono di natura più passiva). Gli studi di imaging mostrano che i soggetti impegnano aree diverse del cervello (corteccia o sistema limbico) affrontando i differenti scenari. (c) L'amigdala, come abbiamo accennato, gioca un ruolo fondamentale nei meccanismi di aggressione. Alcuni studi concepiti in modo da suscitare reazioni nel soggetto documentano un'attivazione selettiva dell'amigdala in individui cui viene mostrato il viso di persone di razza diversa.
Studi di questo tipo dimostrano il motivo per cui tale livello di indagine nelle neuroscienze è diventato uno dei più stimolanti di tutto il panorama scientifico.
Verso la metà del XX sec. alcuni ricercatori tentarono di stabilire un ponte tra i due differenti livelli di analisi: invece di studiare il cervello a livello di uno o due neuroni (chiedendosi, per es., quanti recettori siano disponibili per un certo neurotrasmettitore), o di centinaia di milioni di neuroni (domandandosi, per es., quale parte della corteccia si attivi risolvendo un problema di matematica), si spostava l'attenzione sul funzionamento di insiemi con un numero di neuroni compreso tra qualche dozzina e qualche migliaio.
Questo approccio intermedio alle neuroscienze è stato definito 'sistemico'. Uno dei punti di partenza per tale tipo di indagine fu costituito dalle scoperte, negli anni Sessanta, dell'inibizione presinaptica da parte di Josef Dudel e Stephen W. Kuffler e delle sinapsi asso-assoniche a opera di E.G. Gray. Come abbiamo visto, nella descrizione canonica della sinapsi l'unità funzionale è costituita dal terminale assonico di un neurone (che rilascia i neurotrasmettitori) e il dendrite dell'altro. Nelle sinapsi asso-assoniche, invece, il terminale assonico del neurone A forma una sinapsi con quello del neurone B che, a sua volta, forma una sinapsi canonica con un dendrite del neurone C. Il neurone A non può alterare direttamente l'eccitabilità del neurone C, ma può inibire la capacità del neurone B di farlo. Dal punto di vista anatomico, questo porta da una unità funzionale di due neuroni a una di tre. Dal punto di vista della logica dell'elaborazione dell'informazione, introduce un fenomeno di condizionamento a livello sistemico: A può influenzare C, se e solo se, B sta cercando di farlo.
Un altro approccio pionieristico alle neuroscienze sistemiche ebbe inizio negli anni Cinquanta del secolo per merito di David H. Hubel e Torsten N. Wiesel. Il loro lavoro prevedeva la stimolazione di singoli fotorecettori nell'occhio di un animale da laboratorio e l'utilizzazione di elettrodi per registrare l'attività elettrica suscitata nelle regioni corticali dell'animale preposte all'elaborazione dell'informazione visiva. Questi autori dimostrarono che la corteccia visiva decodifica l'informazione visiva servendosi di una gerarchia di livelli, ognuno dei quali estrae informazione dal precedente e la integra. Al primo livello ciascun neurone rispondeva alla stimolazione da parte di un singolo fotorecettore, pertanto il compito svolto dal singolo neurone era il riconoscimento di un punto luminoso. Questi neuroni risultavano organizzati 'tonotopicamente', ossia neuroni adiacenti nella corteccia visiva primaria codificavano punti adiacenti di stimolazione luminosa. Al livello superiore, da queste percezioni puntuali venivano estratte linee luminose, e ogni neurone rispondeva a una particolare linea in una particolare orientazione. Tale organizzazione era ancora tonotopica e neuroni vicini rispondevano a linee di lunghezza e d'orientazione simile. I livelli superiori estraevano informazione su linee in movimento, angoli e così via.
Dopo mezzo secolo, questi risultati stupiscono ancora per la loro bellezza ed eleganza. Il lavoro di Hubel e Wiesel suggeriva che tutta l'elaborazione corticale fosse basata su livelli di crescente complessità in gerarchie simili di estrazione dell'informazione. La decodifica di un punto avrebbe così portato a una linea, e quindi a una curva, e poi a una serie di curve, fino a ottenere alla fine, in uno strato corticale molto profondo, neuroni singoli sensibili all'immagine del viso di nostra nonna, con il capo piegato in un certo modo; neuroni adiacenti risponderebbero allo stesso viso, ma angolato in modo leggermente diverso, e così via.
Sulla scia di Hubel e Wiesel, gli studiosi delle neuroscienze sistemiche si sono messi alla ricerca di quelli che sono stati chiamati i 'neuroni della nonna'. Si vide ben presto che, all'interno di ogni sistema sensoriale, i primi livelli di elaborazione corticale avevano caratteristiche simili a quelli messi in luce nella corteccia visiva. Nella corteccia uditiva, per esempio, una gerarchia equivalente a quella visiva prevedeva che la percezione di singole note musicali fosse convogliata in strati sensibili agli accordi musicali e, alla fine, in strati sensibili all'orchestrazione del suono.
Malgrado questi successi, fu presto chiaro che, abbandonando i primi livelli di elaborazione in ciascuna corteccia sensoriale primaria ed entrando nella cosiddetta corteccia 'associativa', che costituisce il 90% circa del totale, si trovavano ben pochi neuroni della nonna. Si tratta in effetti di una necessità: malgrado l'elevato numero di neuroni nella corteccia, essi non sono sufficienti a basare i livelli di elaborazione superiori sul fatto che ogni singolo neurone, o anche ogni singola sinapsi, 'conosca' una e una sola cosa.
La risposta a questa limitazione è costituita dal filone attualmente più affascinante della ricerca nel campo delle neuroscienze sistemiche. Secondo la visione attuale, informazioni complesse simili non sono codificate in neuroni (o sinapsi) adiacenti, bensì in schemi di attivazione di reti neuronali parzialmente sovrapposte, caratterizzate da un elevato parallelismo. Lo studio di tali reti neuronali ha sollecitato collaborazioni tra matematici, informatici e neuroscienziati, che utilizzano tecniche elettrofisiologiche moderne in cui si usano matrici di elettrodi per monitorare simultaneamente l'attività elettrica di molti neuroni. Per spiegare con una metafora il possibile funzionamento di queste reti neuronali, consideriamone tre: la rete A è sensibile a un dipinto di Van Gogh ed è in grado di estrarne le caratteristiche; la rete B riconosce Monet, mentre la rete C riconosce categorie di piante che compaiono in un testo di botanica delle piante acquatiche. Da una sovrapposizione tra le reti A e B potrebbe risultare una rete che riconosce i quadri impressionisti, mentre una sovrapposizione tra B e C potrebbe dar luogo a una rete che riconosce le ninfee.
Approcci più riduzionistici si sono concentrati sulle funzionalità espresse all'interno dei singoli neuroni, fino a livello delle molecole e dei geni.
Un progresso che agevolò questo tipo di studi ebbe luogo verso l'inizio del secolo. È difficile investigare le funzionalità di una cellula mentre questa si trova all'interno dell'organo e dell'organismo che la ospita, e questo vale in particolare per i neuroni. Di grande aiuto fu lo sviluppo, da parte di Michael Harrison nel 1914, delle colture cellulari, per far crescere i neuroni nelle capsule di Petri. Tale approccio, tuttavia, sorprendentemente non fu adottato fino a quando non fu modernizzato da K. Sato e D. Schubert nel 1970; esso richiede di fornire al neurone le sostanze e i fattori nutritivi necessari per la sopravvivenza e il corretto funzionamento della cellula.
Questi studi sulla biologia cellulare dei neuroni sottolineano sia le somiglianze sia le differenze tra i neuroni e gli altri tipi di cellule. Mentre l'apparato per il metabolismo energetico è simile in tutte le cellule (per es., l'esistenza dei mitocondri o la dipendenza dal metabolismo basato sull'ossigeno), i neuroni hanno un fabbisogno di energia particolarmente alto (e ciò spiega perché la memoria risiede nei neuroni e non in altre cellule). Un altro esempio è fornito dal fatto che un insieme di cellule neuronali raggiunge spesso dimensioni enormi (lungo il midollo spinale i neuroni devono coprire una lunghezza superiore a 30 cm, una dimensione impensabile per una cellula singola); dunque, un trasporto efficiente di molecole fino ai suoi avamposti più lontani rappresenta una sfida per il neurone. Sono stati ampiamente compresi sia il meccanismo di trasporto attraverso i 'microtubuli' sia il funzionamento dei 'motori molecolari' in grado di spostare le molecole attraverso una cellula: è stato dimostrato che numerosi disturbi neurologici (per es., alcune forme di demenza) sono causati da un deficit nel funzionamento di questi sistemi di trasporto.
Altre ricerche hanno spinto il riduzionismo ancora oltre. Attualmente, gli scienziati riescono a visualizzare la forma delle singole molecole, acquisendo così informazioni sulle loro funzioni. La cristallografia a raggi X recentemente ha permesso di ottenere immagini dettagliate dei recettori dei neurotrasmettitori (e di come cambia la loro forma in funzione delle subunità che li compongono, del loro stato patologico e così via) e dei canali ionici (e del modo in cui la loro forma cambia nello stato aperto o chiuso). Stanley B. Prusiner, negli anni Novanta, ha identificato e caratterizzato un agente patogeno proteico sprovvisto di acidi nucleici, da lui denominato prione, responsabile dello scrapie delle pecore, una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale. Il prione sembra una forma modificata di una proteina cellulare normale, detta PrPc, che si accumula e si aggrega in placche all'interno del neurone, risultando letali per la cellula. La causa di questa forma anomala proteica può essere dovuta a una mutazione (come nei casi familiari di morbo di Alzheimer) o a un danno provocato dai radicali dell'ossigeno (come in alcuni tipi di morbo di Parkinson).
Il settore più vivace e stimolante, nell'ambito di questo approccio riduzionistico alle neuroscienze, è costituito dalla genetica. Ciò riflette il legame che si è stabilito tra la genetica e le funzioni molecolari, cioè la rivoluzione della biologia molecolare iniziata da James D. Watson e Francis H. Crick nel 1953. Era già chiaro da molto tempo che le funzioni nervose sono influenzate dai geni, posseggono in altre parole caratteristiche ereditarie. Alcuni disturbi neurologici e psichiatrici, per esempio, si trasmettono in ambito familiare in modo compatibile con la genetica classica mendeliana, come è stato documentato dalle ricerche pionieristiche in genetica del comportamento effettuate da Scott e Benzer, che allevarono in modo sistematico insetti, roditori e cani per dimostrare l'ereditabilità di alcuni tratti comportamentali (come, per es., il livello d'ansia nei roditori).
La rivoluzione della biologia molecolare ha permesso l'identificazione dei geni che codificano le proteine coinvolte nel funzionamento del sistema nervoso. Ciò favorisce la comprensione del ruolo di queste proteine e, soprattutto, dei fattori che attivano o disattivano i geni. Tecniche più recenti di biologia molecolare consentono inoltre di manipolare i geni: mediante la tecnica knockout si rimuove un gene normalmente presente in un organismo, nell'approccio transgenico si importa nell'organismo un gene che normalmente non gli appartiene. Perfezionamenti di queste tecniche possono creare knockout e sovraespressioni transgeniche soltanto in alcune porzioni del cervello o solamente in determinate circostanze.
La biologia molecolare ha generato un numero enorme di ricerche in neuroscienze: (a) J. Gregor Sutcliffe e altri hanno studiato quali geni vengono espressi soltanto nel cervello o unicamente in determinate sue parti. Più recentemente, Svante Pääbo si è concentrato sul numero relativamente piccolo di geni per i quali l'uomo differisce dagli altri primati e ha dimostrato che, per la maggior parte, sono espressi nel cervello e in particolare nella corteccia. (b) Si sono identificate singole mutazioni genetiche responsabili di disturbi nervosi specifici. Il caso più eclatante, dovuto a James F. Gusella e Nancy Wexler, riguarda il morbo di Huntington; questa scoperta è stata la prima di una serie, su un tipo completamente nuovo di disturbi neurologici. (c) I chips genetici, introdotti da David Botstein e Patrick O. Brown, consentono il monitoraggio simultaneo dell'attività di migliaia di geni in cellule specifiche. Ciò ha permesso agli scienziati di identificare quei geni la cui attività viene alterata nei neuroni coinvolti nei processi di apprendimento, aprendo la strada all'analisi più specifica dell'azione di tali geni. (d) Uno sviluppo normale prevede l'attivazione di geni 'suicidi' che uccidono le cellule in eccesso; diverse malattie sono legate all'errata riattivazione di questi geni per l'apoptosi o 'morte cellulare programmata'. H. Robert Horvitz è stato il primo a utilizzare sistemi nervosi semplici (di vermi) al fine di identificare i geni coinvolti. (e) Le tecniche di terapia genica possono essere usate per inserire geni nuovi in grado di migliorare la capacità dei neuroni di sopravvivere ai danni neurologici. Le prime sperimentazioni cliniche per il ricorso a terapie geniche nelle malattie neurologiche sono attualmente in corso. (f) Si sono usate tecniche molecolari per alterare l'espressione di geni che regolano il normale comportamento e per alterarne alcuni correlati finali, come l'apprendimento (Joe Tsien e collaboratori), il comportamento sessuale (Tom Insel e Larry Young) e la risposta delle strutture limbiche allo stress (nel nostro laboratorio).
A questo punto, per illustrare le informazioni che possiamo trarre dai diversi livelli di analisi propri delle neuroscienze, può essere utile una metafora. Si considerino due libri: il primo è un appello bellicoso e nazionalista in favore della guerra, mentre l'altro argomenta in favore del pacifismo; uno scienziato si propone di decifrare il significato dei due libri. Nella nostra metafora, ogni singola parola corrisponde a un neurone. A livello macroscopico, della neuroanatomia funzionale si potrebbero eliminare molte pagine da entrambi i libri e questo potrebbe rivelare, come conseguenza, che il primo libro risulta meno efficace nel promuovere l'aggressione bellica, mentre il secondo è meno capace di scoraggiarla a causa delle 'lesioni'. A livello 'elettrofisiologico', si potrebbe notare come nei due libri compaiano molto frequentemente i termini 'guerra' e 'uccidere' e questa osservazione si potrebbe collegare all'approccio basato sulla neurotrasmissione, studiando le connessioni tra le coppie di neuroni/parole in termini di informazione. Si potrebbe quindi scoprire che nel libro pacifista sono frequentemente collegate le parole 'no' e 'guerra' e le parole 'mai' e 'uccidere' collegamenti assenti nell'altro libro. L'approccio sistemico, poi, potrebbe rivelare schemi che vanno al di là di neuroni/parole adiacenti, per cui mentre a livello di neurotrasmissione si potrebbe rilevare per esempio "il nostro credo è che non si deve MAI UCCIDERE", l'approccio sistemico potrebbe metterne in luce il significato sintattico "il nostro credo è che non sia MAI consentito ad alcuno di UCCIDERE". Infine, gli approcci a livello subcellulare e molecolare decifrano le regole in base alle quali le lettere si compongono in parole; vi è implicito il potenziale dell'ingegneria genetica, in cui si possa attuare una terapia genica (con una mutazione, "noI dobbiamo muovere guerra a…" diventa "noN dobbiamo muovere guerra a…").
Abbiamo così passato in rassegna la storia delle neuroscienze sulla base dell'organizzazione nei diversi livelli di analisi. Vale la pena di considerare anche, brevemente, alcuni argomenti sui quali si è focalizzata la ricerca.
Il sistema nervoso completamente formato è di una complessità stupefacente. Per quanto ciò sia impressionante, si rimane attoniti quando si considera che tale sistema si deve 'formare' durante lo sviluppo.
La neurobiologia dello sviluppo si è evoluta dall'embriologia e per diversi decenni, fino al XX sec., è stata una scienza prevalentemente descrittiva. La domanda più comune sullo sviluppo riguardava il raggiungimento della piena maturità della regione X del cervello o la formazione delle connessioni funzionali con le altre regioni encefaliche.
Una tradizione diversa, di tipo sperimentale, era quella in cui ci si chiedeva 'come' il sistema nervoso in via di sviluppo si strutturasse in modo da formare le normali connessioni (ossia, perché tutti i membri di una specie posseggono cervelli che condividono essenzialmente la stessa struttura). Studi ingegnosi (per es., quelli a opera di Roger W. Sperry) hanno adottato tecniche basate sui trapianti in cui, per esempio, l'occhio di un anfibio veniva ruotato durante lo sviluppo; si verificava quindi se le proiezioni dall'occhio al cervello si sviluppavano come nell'animale intatto o se risultavano anch'esse ruotate. A questo punto, la domanda ricorrente riguardava la sede di immagazzinamento dell'informazione necessaria a guidare il cablaggio delle connessioni tra l'occhio e il cervello durante lo sviluppo: l'occhio o i percorsi che il segnale deve seguire.
La risposta si è avuta negli anni Cinquanta grazie agli studi di Rita Levi-Montalcini, Stanley Cohen e Viktor Hamberger, che hanno identificato l'NGF (nerve growth factor, fattore di crescita neuronale) che stimola la crescita delle proiezioni dai neuroni verso la cellula neuronale da cui il peptide è secreto. Ciò fornisce una base molecolare per la comprensione del modo in cui si verifica il cablaggio. Sono stati identificati numerosi fattori di crescita, ognuno dei quali è specifico per un diverso tipo di neurone. Negli anni Sessanta, Sperry portò a termine alcuni lavori teorici fondamentali basati sulla sua ipotesi di 'affinità chimica', descrivendo il modo in cui gradienti di diversi fattori di crescita potevano mediare il corretto sviluppo neuronale. La neurobiologia dello sviluppo fece ingresso nell'era molecolare negli anni Novanta, quando Corey S. Goodman, Marc Tessier-Lavigne e altri identificarono i geni specifici per i fattori di crescita intercellulari, i fattori di repulsione e i loro recettori.
L'argomento chiave nello studio dello sviluppo neuronale è la comprensione del modo in cui il cervello viene cablato in modo corretto durante lo sviluppo. È stato chiarito che questo processo dura tutta la vita: il cervello, a qualunque livello di analisi, può modificarsi a causa dell'esperienza (la caratteristica che definiamo oggi plasticità neuronale). Negli anni Quaranta Donald O. Hebb aveva ipotizzato che la 'forza' delle connessioni sinaptiche tra i neuroni cambiasse a causa dell'esperienza e che questo meccanismo fosse il substrato dell'apprendimento e della memoria. Più o meno nello stesso periodo Lloyd raccolse le prove sperimentali a conferma di questa ipotesi, e negli anni Settanta Terge Lomo e Timothy Bliss dimostrarono il potenziamento a lungo termine (LTP, long term potentiation): si tratta del fenomeno per cui la stimolazione ripetuta di una sinapsi (come succede durante l'apprendimento) provoca un incremento plastico e durevole dell'eccitabilità della sinapsi stessa. Come conferma della teoria di Hebb, l'LTP è particolarmente pronunciato nell'ippocampo, che è coinvolto nell'apprendimento e nella memoria.
Molte ricerche da allora hanno identificato altre forme di plasticità sinaptica e i meccanismi molecolari dettagliati che le sottendono. Pioniere di questo approccio è stato Eric R. Kandel, i cui studi hanno influenzato notevolmente le neuroscienze dell'ultimo quarto di secolo.
Su un altro fronte Mark R. Rosenzweig, negli anni Sessanta, inaugurò il campo dell'arricchimento ambientale, dimostrando che un ambiente stimolante per un ratto neonato dà luogo a un cervello adulto con una corteccia più spessa, un numero maggiore di connessioni tra i neuroni e una migliore funzionalità. Tali scoperte ebbero un enorme impatto sulle teorie relative all'educazione parentale. Marian C. Diamond ha portato l'arricchimento ambientale nel campo della plasticità nell'adulto, dimostrando che un ambiente stimolante causa cambiamenti strutturali simili nell'animale adulto.
Questo tema della plasticità in un cervello adulto sottende il filone probabilmente più stimolante della ricerca attuale nell'ambito delle neuroscienze. I neuroni sono postmitotici, ossia queste cellule non si dividono più (al contrario della maggior parte delle altre cellule del corpo). Si è quindi assunto il dogma secondo il quale poco dopo la nascita il cervello possiede il numero massimo di neuroni e, da quel momento in poi, tali cellule possono essere soltanto perdute. Il lavoro svolto negli anni Sessanta da Altmann e da pochi altri (le cui ricerche furono ignorate o avversate) misero in dubbio questo dogma e, negli anni Ottanta, Fernando Nottebohm raccolse un numero crescente di prove al riguardo. Alla fine degli anni Novanta, grazie al lavoro di Elizabeth Gould, Fred Gage e Ronald McKay, è stato chiarito che in alcune zone del cervello (in particolare nell'ippocampo) vi sono cellule progenitrici dei neuroni, simili alle cellule staminali, le quali si possono dividere in neuroni funzionali durante tutta la vita. Questa 'neurogenesi adulta' ha suscitato un interesse molto acceso e uno dei risultati più stimolanti, che ben si colloca nel tema generale della plasticità, è che l'apprendimento e la stimolazione ambientale favoriscono tale processo.
La comprensione del funzionamento del sistema nervoso è di notevole interesse per chiarire le possibili interazioni con altri organi. Si menzioneranno brevemente due esempi. Il primo riguarda l'interazione tra il sistema endocrino (cioè gli ormoni immessi in circolo) e il sistema nervoso, che ha dato origine a una disciplina, chiamata neuroendocrinologia, che si presenta in due forme. Una concerne i diversi modi in cui il sistema nervoso può modificare il rilascio di ormoni; l'esempio più eclatante è fornito dal fatto che il cervello stesso è un organo endocrino, che rilascia ormoni in circolo dall'ipotalamo, i quali alterano la funzione dell'ipofisi. Questa ipotesi, quando fu proposta da Geoffrey W. Harris negli anni Cinquanta, fu considerata un'eresia e furono necessari decenni di lavoro molto competitivo, da parte di Andrew V. Schally e Roger C.L. Guillemin, per dimostrare l'esistenza degli ormoni ipotalamici.
L'altro ramo del ciclo neuroendocrino consiste nella capacità degli ormoni di modificare le funzioni del cervello. Ciò risultò evidente quando si scoprì che castrando i tori si ottenevano animali più trattabili. La neuroendocrinologia fece il suo ingresso nell'era moderna con la scoperta, da parte di Bruce McEwen negli anni Sessanta, di recettori per gli ormoni nel cervello; da allora la ricerca si è focalizzata sulla capacità degli ormoni di influire sull'apprendimento, sulla memoria, sull'umore, di condizionare il funzionamento, la vita e la morte dei neuroni e, perfino, di attivare o disattivare alcuni geni nei neuroni.
Il secondo esempio riguarda l'interazione tra il sistema nervoso e il sistema immunitario. Quest'ultimo può influire sulle funzioni cerebrali (e di questo si occupa la neuroimmunologia); uno di questi effetti è il fenomeno per cui il sistema nervoso viene danneggiato da un sistema immunitario troppo attivo (come nella sclerosi multipla, una malattia autoimmune) o da una risposta infiammatoria eccessiva (in seguito a una commozione cerebrale). Viceversa, il cervello può alterare le difese immunitarie, spesso attraverso un ciclo in cui esso modifica alcuni eventi endocrini, i quali alterano a loro volta le funzioni immunitarie. Ciò ha dato vita a un settore nuovo e straordinariamente stimolante, ossia quello della psiconeuroimmunologia, che si occupa del modo in cui le funzioni cognitive ed emotive possono modificare, e possono in effetti essere utilizzate per modificare, le funzioni immunitarie.
È chiaro che, per quanto riguarda le neuroscienze, la ricerca continuerà nel XXI sec. con grande vitalità. Per dare la percezione dell'attività in questo campo, basti pensare che al congresso annuale dell'American society for neuroscience partecipano oltre 20.000 ricercatori.
L'incremento continuo delle informazioni disponibili rappresenta una sfida importante per questo settore, in quanto occorre riuscire a mettere in relazione le conoscenze a tutti i livelli di analisi. Diventa infatti necessario chiedersi come predire le funzioni di un singolo neurone, conoscendo l'attività di un numero enorme di geni e di molecole, e come prevedere le funzioni dell'intero cervello, conoscendo il funzionamento di un gran numero di neuroni.
La maggior parte dei neuroscienziati tenderebbe probabilmente a ritenere che la risposta risieda in un approccio riduzionistico. Ciò riflette una tradizione vecchia di cinquecento anni nel pensiero occidentale: se si vuole comprendere qualcosa di complesso, lo si scomponga nelle sue componenti. Si comprendano quelle componenti, le si rimettano insieme e si sarà ottenuta una conoscenza dettagliata e predittiva dell'intero sistema. Tale logica filosofica è alla base del progetto più ambizioso della storia delle scienze naturali: il sequenziamento del genoma umano.
Molti neuroscienziati mettono seriamente in dubbio l'utilità di questo genere di approccio riduzionistico; la loro critica è solidamente ancorata alla lezione appresa dallo studio del caos, caratterizzato dall''effetto farfalla' e dalla sensibilità alle condizioni iniziali. Questo atteggiamento si esprime nell'idea che mentre un approccio riduzionistico è ideale per scoprire perché un orologio rotto non funzioni, risulta inutile per scoprire perché, durante una siccità, da una nuvola non cada la pioggia. Riformulata in ambito medico, l'idea è che sebbene un approccio riduzionistico sia servito per capire come combattere il virus della poliomielite, esso ci dice poco sul motivo per cui un cervello danneggiato (da demenza, schizofrenia, depressione) non funziona correttamente.
Il campo della complessità, di recente sviluppo, avrà molto da offrire. La sua premessa fondamentale è che si possono avere comportamenti complessi e adattivi in situazioni in cui non ci sono prescrizioni riduzionistiche e non c'è alcun progetto dettagliato centralizzato; la complessità risulta invece una proprietà emergente che deriva da un numero enorme di interazioni tra elementi semplici, dotati di poche leggi per interagire gli uni con gli altri. Tale difficile approccio ha una grande potenzialità e si può prevedere che un saggio come questo, scritto tra cento anni, descriverà un secolo di ricerche volte a incorporare nelle neuroscienze i campi del caos e della complessità.
Finger 1994: Finger, Stanley, Origins of neuroscience, New York, Oxford University Press, 1994.
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