La grande scienza. Etologia, psicologia e scienze sociali
Etologia, psicologia e scienze sociali
I primi etologi si interessarono al comportamento degli animali, rifiutando sia il concetto di scatola nera, cioè l'approccio stimolo-risposta degli psicologi comportamentisti, sia il soggettivismo indisciplinato a quel tempo prevalente tra gli studiosi di psicologia comparata in Europa. I fondatori dell'etologia tentarono di applicarne i principî al comportamento umano (Lorenz 1950) e alcuni dei loro allievi richiamarono l'attenzione su similitudini poco significative tra il comportamento animale e quello dell'uomo finendo per gettare discredito sull'etologia. Comunque, a parte queste eccezioni, la spinta iniziale fu diretta quasi interamente allo studio del comportamento animale. I sociologi, in parte per i loro pregiudizi e in parte per l'avventatezza di qualche etologo, non presero in seria considerazione la possibilità che l'etologia potesse apportare contributi alla loro disciplina. Tuttavia, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, i principî dell'etologia sono penetrati gradualmente nelle scienze sociali arrivando a esercitare, in tempi recenti, una forte influenza in svariati campi.
Quali sono questi principî? L'etologia ebbe una sua teorizzazione, attualmente in gran parte rifiutata, che differentemente dall'approccio degli anni Cinquanta al fenomeno dell'apprendimento e diversamente dalla psicoanalisi, non fu mai caratterizzata da una vera e propria teoria; le sue caratteristiche stabili consistono piuttosto in alcuni atteggiamenti orientativi. Tra i più importanti vi è l'idea che lo studio del comportamento debba iniziare con osservazioni e descrizioni accurate effettuate in condizioni che siano naturali per le specie considerate, e che questo tipo di analisi debba essere accompagnato dalla consapevolezza che l'insieme è qualcosa di più della semplice somma delle parti. Inoltre gli etologi hanno ritenuto che la piena comprensione di un aspetto del comportamento richieda una risposta a quattro domande fondamentali: Cos'è che determina il comportamento? (in questo caso riferendoci a fattori sia interni sia esterni all'organismo); Come si sviluppa nell'individuo?; Come si è evoluto? e Qual è oppure qual è stata la sua funzione? ovvero, per essere più precisi, Quali sono le conseguenze adattative per cui tale comportamento si è, o si era, conservato nel repertorio comportamentale di una specie?
Sebbene queste domande siano distinte da un punto di vista logico, il loro studio risulta spesso mutuamente fecondo. Le ultime due riguardano questioni a quel tempo trascurate dagli psicologi ma che, come verrà detto più avanti, sono attualmente tenute in considerazione in quanto permettono una migliore comprensione di alcuni aspetti del comportamento umano.
Poiché, a partire dagli anni Cinquanta, alcuni aspetti e idee dell'approccio etologico sono penetrati nelle discipline psicologiche e nelle scienze sociali, spesso correnti di pensiero e metodologie si sono fuse, rendendo difficile in taluni campi distinguere gli studi 'etologici' del comportamento umano da quelli più tradizionali. Nel seguito tenteremo di illustrare alcuni modi in cui l'etologia sta contribuendo alla comprensione del comportamento umano.
Sviluppo del bambino e psichiatria
Alcuni dei primi tentativi di applicare l'approccio etologico allo sviluppo del bambino puntarono all'identificazione di 'schemi motori specifici' paragonabili agli 'schemi fissi di azione' (FAP, fixed action patterns) che costituivano un argomento centrale nello studio del comportamento animale. Un'attenta descrizione della sequenza delle risposte di tipo riflesso con cui il neonato trova il capezzolo della madre ha contribuito, per esempio, a risolvere alcuni problemi che insorgono con l'allattamento al seno. In tempi piuttosto remoti, gli etologi cominciarono a descrivere i movimenti espressivi dell'uomo e, successivamente, il loro lavoro si collegò a quello iniziato poco più tardi da psicologi come Paul Ekman. Nicholas G. Blurton Jones ha per primo utilizzato la metodologia dell'osservazione etologica in studi sui bambini in età d'asilo, e ha mostrato, per esempio, che la lotta, un gioco apparentemente aggressivo, non è correlata positivamente a paradigmi comportamentali come aggrottare le ciglia, colpire e dare spintoni, sebbene sembri avere molti aspetti in comune con questi. Comunque, l'ampia descrizione degli schemi motori analizzati da Blurton Jones ha prodotto una massa di dettagli inutili e a volte fuorvianti, e le successive applicazioni dell'osservazione etologica sono state adattate in modo da poter comprendere il significato sottostante alle azioni.
Il campo nel quale l'approccio etologico ha avuto implicazioni di ampia portata è quello del ruolo del rapporto tra genitore e figlio nello sviluppo della personalità. Secondo John Bowlby (1969), uno psicanalista londinese, quelle che vengono chiamate le 'paure irrazionali dell'infanzia' - la paura di cadere, di forti rumori improvvisi, di essere lasciati soli, e così via - sarebbero state altamente adattative nell'iniziale processo evolutivo degli ominidi. Ciò ha portato all'integrazione dell'etologia, della psicoanalisi, della teoria dei sistemi e della psicologia dello sviluppo nella 'teoria dell'attaccamento'. Bowlby ha notato come la relazione genitore-figlio coinvolga diversi schemi comportamentali che si sono adattati durante l'evoluzione per il mutuo beneficio di entrambi. Molti di questi, come il sorriso del bambino e l'intonazione alta della voce che i genitori usano per parlare con i figli, hanno la funzione di rafforzare i loro legami. Bowlby ha ipotizzato l'esistenza nel bambino di un 'sistema comportamentale di attaccamento' tale da coinvolgere schemi tra loro correlati dell'interazione tra genitore e figlio e nel genitore di un 'sistema di comportamento parentale' corrispondente. Il concetto di sistema comportamentale è stato ripreso da Gerard Pieter Baerends negli studi sulle vespe e sui pesci ciclidi. Bowlby ha inoltre suggerito che il bambino costruisce un modello operante interno di sé, degli altri e delle relazioni, sulla base del proprio rapporto con chi principalmente si prende cura di lui, e che tale modello influenzi il suo comportamento futuro e possa esserne modificato. Egli ha sottolineato l'importanza del senso di sicurezza che il genitore dà al figlio, rispondendo in modo attento e sensibile ai suoi bisogni, e ha sostenuto che la natura e il grado di questa sicurezza potrebbero avere, più avanti nel corso della vita, importanti ripercussioni sullo sviluppo della personalità. Mary Dinsmore Salter Ainsworth e i suoi collaboratori (1978) hanno sviluppato un procedimento di laboratorio per la valutazione degli aspetti più rilevanti del rapporto tra genitore e figlio, riuscendo a dimostrare che la sicurezza nella prima infanzia è legata alla sensibilità della risposta materna e che essa ha varie relazioni con lo sviluppo successivo. Per esempio, in assenza di eventi particolarmente significativi nel corso della vita, i bambini che a un anno di età sono stati classificati come sicuri tendono nella successiva fase dell'asilo a interagire meglio con i coetanei. È interessante notare che le differenze legate al sesso, osservate negli individui di quattro anni di età, riguardano principalmente i bambini insicuri.
Il riconoscimento dell'importanza della sicurezza nell'infanzia ha portato allo studio del suo ruolo nelle interazioni tra gli adulti e allo sviluppo di varie tecniche finalizzate alla sua valutazione. Così Carol George, Nancy Kaplan e Mary Main (1985) hanno ideato uno schema di intervista per studiare, con le dovute cautele, il ricordo che le madri hanno del rapporto avuto con le proprie madri, e Kim Bartholomew (1993) ha fornito un'elaborazione del modello operante interno di Bowlby per distinguere due dimensioni, l'una relativa alla positività del modello di sé, e l'altra relativa alla positività delle aspettative degli altri. Questo lavoro ha dimostrato che la mente del neonato non va considerata come una tabula rasa, ma che al contrario i bambini possiedono fin dalla nascita (o sviluppano rapidamente) un repertorio di schemi comportamentali, la facoltà di rispondere agli stimoli e le capacità psicologiche, fattori che sono alla base dello sviluppo successivo. Tali osservazioni sono state accompagnate dallo studio intensivo delle capacità del bambino e degli aspetti del comportamento che emergono precocemente e che sembrano essere indipendenti da esperienze specifiche.
Di particolare importanza, a tale proposito, è stato lo studio sulla natura dell'apprendimento. Associata all'idea che la mente del neonato fosse una tabula rasa era la supposizione che tutte le esperienze umane fossero simili, in grado cioè di influenzare similmente il comportamento futuro. Tuttavia, studi condotti su animali hanno dimostrato come la capacità di apprendimento sia spesso limitata a contesti particolari, dato che l'animale si adatta prontamente alle circostanze soltanto in alcune situazioni (Tinbergen 1951). William Thorpe ha indicato, per esempio, che l'apprendimento gioca un ruolo essenziale nello sviluppo del canto del fringuello (Fringilla coelebs). Un esemplare cresciuto acusticamente isolato da altri fringuelli è in grado di produrre soltanto un canto molto semplice; infatti, questi uccelli possono imparare solamente canti con una struttura simile a quella del canto della propria specie. Il ciuffolotto (Pyrrhula pyrrhula), una specie affine, può imparare unicamente il canto del maschio da cui è stato allevato. Conclusioni simili al riguardo sono state raggiunte dagli psicologi sperimentali. Così John Garcia e alcuni collaboratori hanno mostrato che i ratti possono imparare a evitare cibo avvelenato, anche se l'effetto dannoso può essere avvertito solo un certo tempo dopo l'ingestione. È stato anche dimostrato come i ratti associno l'effetto dannoso molto più prontamente al sapore che ad altri stimoli presenti in quel momento. Questi dati portano alla generalizzazione che gli organismi, inclusi gli esseri umani, hanno una predisposizione ad apprendere alcuni comportamenti piuttosto che altri, e che i limiti di tale apprendimento non dipendono dalla difficoltà del compito ma dal soggetto e dal contesto (Hinde e Stevenson-Hinde 1973).
Questa conclusione ha avuto un'ampia ripercussione sulla concezione della natura dell'intelligenza. Negli anni Settanta Paul Rozin, uno psicologo sperimentale, ha sostenuto che l'evoluzione ha comportato una specializzazione adattativa per particolari contesti, contrastando in questo modo l'opinione sostenuta a quel tempo dalla maggior parte dei suoi colleghi, secondo la quale l'evoluzione dell'intelligenza ha implicato un graduale miglioramento delle capacità generali di apprendimento. Negli ultimi anni l'idea che l'intelligenza umana dipenda da un meccanismo di tipo generale sostanzialmente unitario è caduta sempre più in discredito. Jerry Fodor ha proposto che la mente sia formata da alcuni sistemi di input discreti che alimentano un meccanismo cognitivo centrale responsabile dell'intelligenza. Howard Gardner, assumendo una posizione diversa, ha distinto sette tipi di intelligenza: linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, di coordinazione motoria, di comprensione di sé stessi e di comprensione degli altri. Più recentemente gli psicologi di impronta evoluzionistica hanno proposto che la mente coinvolga un gran numero di meccanismi obiettivo-specifici.
Con l'arricchirsi delle conoscenze è inevitabile che le discipline debbano delimitare il loro campo di interesse, distinguendosi meglio le une dalle altre e dividendosi in sottodiscipline specialistiche. Questo è stato certamente il caso delle scienze sociali dell'uomo: la psicologia dell'individuo, la psicologia sociale, la sociologia e l'antropologia occupano dipartimenti universitari separati e spesso i contatti tra tali discipline sono limitati. Tuttavia gli etologi, studiando gli animali in Natura, si sono confrontati con le relazioni tra i comportamenti degli individui, i rapporti interindividuali e la struttura sociale del gruppo. Per un lungo periodo l'attenzione è stata concentrata sulla questione della dominanza e della subordinazione, e la struttura del gruppo animale è stata vista principalmente in termini di gerarchia. Tuttavia studi più dettagliati, in modo particolare quelli sui primati non umani, hanno rivelato che la questione della dominanza non è il solo fattore, e neanche il più importante, e che la struttura del gruppo può essere molto complicata. Per esempio, la struttura di un branco di macachi (Macaca mulatta) dipende primariamente dalla relazione affiliativa tra i parenti. Spesso nel branco esistono diverse famiglie matriarcali, ognuna formata da una matriarca, dalle sue figlie con un rango inverso all'età, e dalla loro prole organizzata in modo analogo. Le femmine sono membri permanenti del branco, mentre i maschi formano una gerarchia indipendente, spostandosi da un gruppo all'altro in modo intermittente e stabilendo soltanto occasionalmente rapporti, che di solito non sono duraturi, con le femmine.
Tali dati hanno condotto all'idea che i diversi livelli di complessità sociale non possano essere studiati in modo indipendente poiché si influenzano a vicenda. Per molti scopi è quindi conveniente riconoscere livelli successivi: processi psicofisiologici all'interno degli individui, comportamento individuale, interazioni a breve termine tra individui e relazioni a lungo termine tra individui, gruppi e società (fig. 1). Un'importante distinzione va fatta tra il concetto di interazione e quello di relazione. Per ciò che riguarda il comportamento, una relazione coinvolge una successione di interazioni tra due individui che si conoscono, così che ogni interazione sia influenzata da quelle precedenti, e spesso dall'aspettativa sulle interazioni future. Naturalmente, la situazione è più complessa di quanto abbiamo detto, poiché interazioni e relazioni coinvolgono anche aspetti cognitivi ed emozionali (Hinde 1997).
Ognuno di questi livelli ha proprietà indipendenti dal livello inferiore. Così, una relazione può includere uno o più tipi di interazione, ma questa proprietà non è attinente alle singole interazioni. Per esempio, sebbene durante un'interazione il comportamento di ciascuno dei due partner possa intrecciarsi con quello dell'altro, questa proprietà risulta essere irrilevante per il comportamento di un individuo isolato. Inoltre, noi usiamo concetti differenti per spiegare ciascun livello: nell'interpretare perché due fratelli stanno litigando (livello di interazione), ci si potrebbe concentrare sul loro desiderio per lo stesso giocattolo. Se si volesse spiegare perché litigano sempre (livello di relazione), si potrebbe fare riferimento alla rivalità tra fratelli.
Ognuno di questi livelli influenza quelli adiacenti ed è influenzato da essi. Così, ciò che si verifica in un'interazione è influenzato dalla natura degli individui coinvolti e anche da quella della relazione in cui è coinvolto. La qualità della relazione è influenzata dalla natura delle interazioni coinvolte e anche dal gruppo al quale gli individui appartengono, poiché la relazione di A con B è condizionata dalla relazione di B con C. Ciò comporta che i vari livelli, incluso quello dell'individuo, non siano da considerare come entità statiche, ma quali processi che vengono continuamente creati, mantenuti e ridimensionati dai rapporti dialettici tra i livelli stessi.
Tutto ciò è ugualmente applicabile alla nostra specie anche se in questo caso è presente un ulteriore fattore: la struttura socioculturale. Con questo termine intendiamo riferirci alle regole, alle credenze, ai valori e alle istituzioni con i loro ruoli costitutivi, che sono più o meno noti agli individui che fanno parte di tale struttura (in questo contesto il termine struttura è utilizzato per indicare che regole, valori, ecc. sono, almeno parzialmente, correlati tra loro). Essa ha anche relazioni dialettiche con ognuno dei livelli di complessità: per esempio, le regole che riguardano il matrimonio influenzano la frequenza dei divorzi, e la frequenza dei divorzi influenza le regole che riguardano il matrimonio. Inoltre ognuno di questi livelli influenza l'ambiente fisico e ne è a sua volta influenzato.
È evidente che questi differenti livelli di complessità costituiscono il soggetto di diverse discipline delle scienze sociali. Eppure l'esistenza di rapporti dialettici che intercorrono tra i vari livelli sta a significare che lo sviluppo e il rapporto di causa-effetto di ogni aspetto del comportamento umano non possono essere totalmente compresi soffermandosi su un solo livello di analisi. Questa opinione è in diretto contrasto con quella sostenuta da Emile Durkheim, secondo il quale i fenomeni sociali possono essere compresi solo in termini di variabili sociali.
L'esempio seguente mostra l'importanza delle relazioni dialettiche tra i diversi livelli. Nonostante vi siano una o due possibili eccezioni, la speciale importanza attribuita ai serpenti è sostanzialmente ubiquitaria tra le culture umane, e la risposta primaria nei loro confronti è la fuga e la paura. Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare questo fenomeno. Studi compiuti su bambini cresciuti in un istituto, che non avevano mai visto un serpente, hanno dimostrato che molti di loro cominciavano ad avere paura all'età di uno o due anni. Il grado di paura del bambino dipendeva dal comportamento della persona che principalmente si prendeva cura di lui: reazioni di grande paura da parte di quest'ultima, infatti, potevano indurre nel bambino una paura duratura dei serpenti. Dati analoghi sono stati raccolti in studi condotti sui macachi. Mentre le scimmie cresciute nel loro ambiente naturale mostrano di avere paura dei serpenti, quelle allevate in laboratorio non ne hanno (Galef 1999). Tuttavia, è probabile che un macaco allevato in laboratorio diventi permanentemente timoroso dei serpenti qualora gli venga mostrato il filmato di una scimmia cresciuta nel proprio ambiente naturale che ha paura dei serpenti. Invece, quando a un macaco allevato in laboratorio viene mostrato un filmato in cui una scimmia cresciuta nel suo ambiente naturale si impaurisce alla vista di un fiore, esso non diventa timoroso né dei fiori né dei serpenti (Mineka 1987).
In questo modo sembra che, sia per le scimmie sia per gli esseri umani, i serpenti siano decisamente importanti come stimoli, e che esista una tendenza a imparare dal comportamento di altri individui ad averne paura. Tuttavia, nel caso della specie umana è da tener presente una ulteriore questione: i serpenti infatti giocano un ruolo importante nella mitologia della maggior parte delle culture e normalmente essi simboleggiano il male o la morte. Uno splendido esempio è fornito dai dipinti di Rubens nei quali le anime dannate scendono nell'Inferno con i serpenti che mordono loro i genitali: un'immagine certamente sufficiente a intimorire chiunque. Il ruolo dei serpenti nella mitologia deve essere stato supportato dall'iniziale propensione ad averne paura, e ne ha poi contribuito anche ad alimentarla (fig. 3). Tuttavia, in alcune culture, i serpenti sono associati ad altri concetti in aggiunta o perfino in sostituzione della paura e del male. In India, per esempio, richiamano sia la fertilità sia il pericolo, e immagini di Shiva raffigurano la divinità con i serpenti avvolti attorno al corpo come fili di pietre preziose, indicando l'ambiguità della sua potenza al tempo stesso creatrice e distruttrice. La piena comprensione del ruolo dei serpenti, in questo modo, ci richiede di separare con attenzione le relazioni tra le tendenze biologiche basilari, le relazioni con altri individui e la struttura socioculturale.
Principî simili possono essere applicati a molti, forse a tutti gli aspetti del comportamento umano. Per esempio, la prontezza degli individui ad andare in guerra è accentuata dalla propaganda che crea un'immagine del nemico come malvagio, pericoloso e subumano. Il successo di questa propaganda è dovuto, in larga misura, al fatto che essa va ad agire su certe propensioni di base dell'uomo, come la paura degli stranieri, l'aggressività, la fedeltà al gruppo (essa stessa con una base complessa), e così via.
Lo studio delle relazioni personali è stato trascurato dagli psicologi fino a tempi recenti per ragioni che non sono immediatamente evidenti. Sebbene i clinici avessero raccolto numerosi dati, il loro è stato prevalentemente un approccio caso per caso che non ha portato alla costruzione di un insieme organico di conoscenze. Recentemente etologi, sociologi, esperti di comunicazione e altri studiosi hanno collaborato alla costruzione di una scienza delle relazioni umane. In accordo con i principî etologici, ciò richiede che si provveda a creare una base descrittiva, che si specifichino i principî propri della dinamica delle relazioni e che, infine, se ne definiscano i limiti.
La base descrittiva comporta dimensioni che concernono numerosi aspetti: il contenuto delle interazioni nella relazione, cioè cosa fanno insieme le persone coinvolte nel rapporto; la varietà di queste interazioni, ovvero se le persone interagiscono in uno o in molti modi; la qualità delle interazioni e della comunicazione nella relazione; altre caratteristiche che derivano dalla frequenza relativa e dalla struttura delle interazioni; la reciprocità e la complementarità delle interazioni, ossia se i partner mostrano lo stesso tipo di comportamento nelle loro interazioni, oppure se ciascuno presenta un comportamento diverso ma complementare a quello dell'altro; la frequenza dei loro conflitti e il modo con il quale cercano di risolverli; la distribuzione del potere tra i partner, e come essi la percepiscano; l'equilibrio tra il parlare di sé e la riservatezza nel rapporto; la percezione interpersonale, ovvero se ciascuno vede l'altro com'è veramente o come si vede egli stesso e se si è compresi dal proprio partner; la soddisfazione, ossia se ciascuno si sente soddisfatto del rapporto rispetto a ciò che pensa gli sia dovuto e in confronto con altri possibili rapporti; infine, la dedizione al rapporto.
La dinamica della relazione dipende dalle caratteristiche individuali dei partner e dalle relazioni tra le loro caratteristiche. Dipende, inoltre, dalle influenze sociali estranee al rapporto e dai tentativi a opera dei partecipanti di mantenere una visione coerente del mondo cercando di riconciliare credenze e valori apparentemente incompatibili e attribuendo in maniera appropriata le cause agli eventi. Anche la reciprocità dello scambio e la retroazione positiva e negativa giocano un ruolo importante. Nonostante le dinamiche delle interazioni interpersonali siano alquanto complesse, una scienza multidisciplinare delle relazioni umane sta cominciando ad affermarsi (Hinde 1997).
Abbiamo visto che gli etologi tentano di dare una risposta alle domande riguardanti non solo lo sviluppo e il rapporto di causa-effetto, ma anche l'evoluzione e la funzione biologica del comportamento. Occorre chiedersi se queste domande possano essere applicate utilmente alla nostra specie.
Per quanto riguarda il corso dell'evoluzione, c'è poco da dire. Alcuni schemi motori umani e altri aspetti del comportamento umano sono molto simili a quelli dei primati non umani: la sequenza dei movimenti usata dai neonati per trovare il capezzolo della madre ne è un esempio evidente. Alcuni sembrano residui di schemi che erano adattativi all'inizio della nostra storia evolutiva. Come abbiamo già affermato, le cosiddette paure irrazionali dell'infanzia devono aver avuto un ruolo importante nel nostro repertorio ancestrale: sembra che il riflesso di Moro (una risposta di riflesso mostrata dai neonati che consiste nell'apertura iniziale delle braccia seguita dallo stringere le mani) derivi dal riflesso per il quale i piccoli primati si aggrappano al ventre della propria madre. In altri casi ancora, sono stati proposti possibili collegamenti tra i movimenti espressivi umani e quelli dei nostri antenati primati non umani: i casi del sorriso e del riso, per esempio, sono stati ampiamente studiati. In generale, l'assenza di prove riguardanti il loro comportamento riduce i tentativi di rintracciare un percorso evolutivo dettagliato del comportamento umano a livello di pura speculazione. Tuttavia, un esame attento dei manufatti dei preumani fornisce testimonianze interessanti delle loro capacità cognitive, e su questa base ci sono stati importanti tentativi per valutare le caratteristiche generali dell'evoluzione umana (Mithen 1996).
Per quanto riguarda gli aspetti funzionali del comportamento, la situazione è molto diversa, e un approccio biologico al comportamento umano sta facendo luce su alcuni temi importanti. Per descrivere la natura di questo tipo di studio l'approccio migliore sembra essere quello storico.
Nel 1964 William D. Hamilton mise in evidenza che la selezione naturale può operare non soltanto per favorire varianti con maggiore successo riproduttivo individuale, ma anche per incoraggiare soggetti che agiscono in modo tale da beneficiare individui a loro imparentati, pur se a discapito del proprio interesse. La frequenza con cui ciò si verifica e l'ampiezza dell'effetto dipendono dal grado di parentela tra colui che agisce e coloro che traggono profitto dall'atto. Per fare un esempio molto semplice, immaginiamo il cambiamento di un gene che porti un individuo a essere pronto a sacrificare la propria vita per gli altri. Una copia del gene scomparirebbe qualora il portatore morisse, ma se tale atto salvasse la vita a più di due discendenti (ognuno dei quali con una probabilità del 50% di possedere il gene in questione), più di due fratelli, più di otto cugini, e così via, la frequenza del gene aumenterebbe comunque. Ciò fornisce una spiegazione evolutiva dei molti comportamenti che appaiono dannosi per chi li attua; il comportamento parentale di sacrificio in favore della prole ne costituisce un primo esempio. Edward O. Wilson (1975) fece sue le idee di Hamilton in un volume basilare, Sociobiology: the new synthesis, un'integrazione magistrale di materiale proveniente dall'etologia, dall'ecologia, dalla genetica delle popolazioni e dalle discipline a esse correlate. Il suo scopo primario era quello di interpretare le caratteristiche dell'organizzazione sociale partendo da una conoscenza dei parametri della popolazione e dalle limitazioni biologiche imposte dalla costituzione genetica della specie. Benché minata da inutili e bellicose affermazioni secondo cui la sociobiologia, con il passare del tempo, avrebbe inghiottito discipline come l'etologia, la psicologia e le scienze sociali, la posizione di Wilson ha creato le basi per numerosi stimolanti tentativi volti a fornire intuizioni funzionali su aspetti del comportamento umano. Queste intuizioni cadono approssimativamente nelle seguenti categorie, che si sovrappongono tra di loro.
L'approccio sociobiologico
Sebbene la cura parentale possa essere compresa in termini biologici, essendo i figli portatori dei geni dei genitori, le dinamiche del comportamento parentale vengono complicate dal fatto che, dedicando risorse a un figlio, i genitori possono ridurre la capacità di prendersi cura dei successivi. Così, la prole può richiedere più di quanto non sia appropriato dare per il genitore; questo può determinare un conflitto di interessi tra genitori e figli. Sebbene ciò non implichi necessariamente che si verifichi il conflitto comportamentale (Bateson, comunicazione personale), molti aspetti della relazione tra genitore e figlio nell'uomo, a partire dall'iniziale protezione fornita dal genitore, attraverso le difficoltà dello svezzamento fino al conflitto adolescenziale, rientrano in questo modello. Informazioni aneddotiche e altre testimonianze suggeriscono che i genitori siano inclini a impegnare più risorse per l'ultimo figlio, non essendoci una generazione successiva di figli per la quale conservare tali risorse.
Il comportamento per il quale si aiutano gli altri a proprio svantaggio temporaneo è stato anche descritto come 'altruismo reciproco', o principio del "ti aiuterò se tu tenderai ad aiutarmi in seguito". Ciò è in accordo con i dati secondo i quali i rapporti tra esseri umani adulti sono in parte basati su principî di scambio sociale la cui aspettativa è la reciprocità, benché i criteri per la valutazione di ciò che è giusto varino in base al tipo di rapporto e alle circostanze. Alcuni autori hanno suggerito che i rapporti sono governati da un contratto sociale, ed esistono prove che gli individui non solo si risentono se vengono beneficiati meno di quanto essi ritengono di meritare, ma avvertono un certo disagio anche se vengono beneficiati troppo (Hinde 1997).
Ecologia comportamentale umana
Lo scopo di questa disciplina è determinare come la variabilità comportamentale all'interno delle popolazioni e tra di esse sia influenzata da fattori ecologici e sociali (Borgerhoff Mulder 1991). Inoltre tenta di dimostrare che il comportamento umano tende a massimizzare il successo riproduttivo dell'individuo coinvolto o quello dei parenti stretti, come conseguenza di tendenze comportamentali evolute. Per esempio, fra i cacciatori-raccoglitori del Kalahari (Africa meridionale), le donne, a differenza di quanto si verifica in numerose società non occidentali, distanziano molto nel tempo la nascita dei loro bambini, riproducendosi circa una volta ogni 4 anni. Benché ciò possa suggerire che esse in questo modo non massimizzino la propria potenzialità riproduttiva, Richard Lee ha indicato che le donne raccolgono la maggior parte del cibo di cui hanno bisogno, e mentre provvedono a ciò devono portare con sé i propri figli, riducendo in tal modo la quantità di cibo che possono trasportare. Blurton Jones (1987), partendo da ipotesi ragionevoli circa il peso del cibo che una donna deve portare affinché i suoi figli siano adeguatamente nutriti, ha mostrato che l'intervallo tra due nascite consecutive è determinato dal peso che la madre può trasportare, e che l'intervallo di 4 anni è quello ottimale.
Come altro esempio, Monique Borgerhoff Mulder ha studiato il successo riproduttivo tra i Kipisigis del Kenya. In questa popolazione solo gli uomini possiedono la terra e la condividono in parti uguali con le loro mogli. Questa ricercatrice ha scoperto che la quantità di terra che spetta a una moglie è direttamente correlata con il suo successo riproduttivo. Le donne tendono a sposare uomini che hanno in quel momento un minor numero di mogli e un più grande appezzamento di terra, massimizzando in questo modo il loro potenziale riproduttivo; inoltre, la terra è ereditata dai figli e non dalle figlie. Il successo riproduttivo degli uomini, nel corso della vita, tende quindi a essere legato alla quantità di terra posseduta dal padre. Una simile relazione di dipendenza è stata riscontrata per le figlie, ma in questo caso si devono verificare una fecondità anticipata e un contesto territoriale particolarmente vasto. Un approccio analogo è stato applicato a molti aspetti del comportamento umano: la ricerca del cibo e la dieta, la condivisione del cibo, le differenze legate al sesso nel comportamento riproduttivo, i sistemi di accoppiamento, le cure parentali, e così via (Borgerhoff Mulder 1991).
I risultati di queste ricerche sono di grande interesse, anche se presentano alcuni problemi. Sebbene un certo numero di studi abbia indicato, nelle società non industrializzate, una correlazione tra la ricchezza e il successo riproduttivo, essa non è sempre valida. Così, nelle società occidentali il rapporto tra la ricchezza e il successo riproduttivo dipende dalle condizioni sociali e può essere di tipo inverso. Vi sono infatti molte situazioni nelle quali gli esseri umani non si comportano in modo biologicamente adattativo. Una spiegazione consiste nel fatto che i cambiamenti verificatisi negli ultimi millenni nell'ambiente in cui l'uomo vive sono stati così rilevanti che tendenze comportamentali risultate adattative in un primo stadio della nostra evoluzione, non lo sono più: per esempio, le paure irrazionali potrebbero non essere adattative in un ambiente urbano. D'altra parte il comportamento non adattativo potrebbe essere un'espressione eccessiva o inappropriata di una tendenza che è normalmente adattativa (come la golosità). Inoltre, gli individui possono essere costretti da altre persone o dalla struttura socioculturale ad agire in modi che non favoriscono il loro interesse riproduttivo, come avviene, per esempio, nel celibato religioso (Hinde 1987). Borgerhoff Mulder, in un'attenta discussione su questa e altre questioni, ha sostenuto, in modo ottimistico, che studi sulle conseguenze dell'adattamento individuale faranno luce sulla struttura e sull'evoluzione delle società umane. La ricercatrice auspica un ulteriore sviluppo della teoria dei giochi per esaminare situazioni nelle quali i vantaggi individuali sono compromessi dalle strategie di altre persone, l'uso di modelli ottimali più complessi per trattare la diversità delle pressioni della selezione, nonché il riconoscimento dell'importanza dei processi storici.
Psicologia evoluzionistica
La psicologia evoluzionistica intende mostrare che particolari aspetti del comportamento umano si sono adattati per determinate funzioni. Ciò comporta l'assunzione che il cervello-mente includa molti meccanismi specializzati dominio-specifici; la validità di tale ipotesi dipende in larga misura dalla possibilità di dimostrare che il 'disegno evolutivo' degli aspetti del comportamento determini efficienza, economicità e precisione nell'operazione. Per esempio, gli aspetti dell'altro sesso che gli esseri umani trovano attraenti sembrano essere quelli che consentono di massimizzare il loro successo riproduttivo (Buss 1994). Vi sono evidenze significative a sostegno dell'idea che le nausee legate alla gravidanza rappresentino un meccanismo per proteggere il feto dalle tossine: una conclusione che pone il fenomeno in una prospettiva del tutto differente. Jerome H. Barkow, Leda Cosmides e John Tooby (1992) hanno dimostrato che la capacità di comprendere regole condizionali del tipo "se P allora Q" e di rilevare le eventuali violazioni è maggiore quando tali regole si concretizzano in una situazione sociale. In una serie di esperimenti è stato chiesto ai soggetti se fosse stata violata un'ipotesi in quattro diverse situazioni. In un caso, per esempio, la regola era "se una persona sta bevendo birra, allora deve avere più di vent'anni". Ai soggetti furono consegnate quattro schede, ognuna contenente su un lato informazioni sull'età dell'individuo e sull'altro informazioni su ciò che il soggetto stava bevendo. Le informazioni erano di quattro tipi: "bere birra", "bere Coca-Cola", "25 anni" e "16 anni". La soluzione corretta evidenziava come una scheda che contenesse la prima e l'ultima informazione fosse errata. Mentre in questa situazione, che coinvolge la possibile violazione di un contratto sociale, venne fornita la risposta corretta dal 75% circa dei soggetti, in una condizione in cui la regola era semplicemente descrittiva e non riguardava il contratto sociale un numero molto minore di soggetti risolveva il problema. Sulla base di questi risultati, gli autori hanno suggerito che le violazioni del contratto sociale stimolino un meccanismo adattatosi grazie all'evoluzione. Come sempre nell'etologia comportamentale, la prova che un certo comportamento sia frutto di un adattamento non è inconfutabile. Per esempio, i bambini hanno molte più opportunità di imparare le violazioni del contratto sociale, e di disapprovarle, rispetto alle violazioni di altre regole condizionali.
In ogni caso, il punto importante in tutti questi approcci è l'attenzione all'influenza della selezione naturale sul comportamento sociale umano. Sta diventando inoltre chiaro che questa influenza potrebbe essere stata, e lo è attualmente, molto più complessa di quanto appaia a prima vista. Per esempio, gli esseri umani possono cambiare il loro ambiente, e ciò può influenzare l'impatto della selezione naturale (Odling-Smee et. al. 1996). La struttura socioculturale influenza gli schemi di accoppiamento e la mobilità, con lo stesso possibile risultato. I cambiamenti socioculturali possono perciò influenzare quelli genetici (Boyd e Richerson 1985; Durham 1991).
Forse la lezione più importante che scaturisce da quanto abbiamo discusso è che nessun approccio può da solo condurci alla piena comprensione della complessità del comportamento umano; nessuna disciplina ne ha la chiave. Piuttosto, dobbiamo cercare di integrare le scoperte delle scienze comportamentali sviscerando la dialettica tra i livelli successivi di complessità. Un percorso verso questo obiettivo comporta l'integrazione dell'approccio incentrato sullo sviluppo e sui rapporti causa-effetto con quello funzionale. Il primo passo consiste nell'identificare le 'caratteristiche relativamente stabili', ossia quelle che, sebbene variabili da individuo a individuo, sono presenti in tutti gli esseri umani o in tutti i membri di una classe di sesso o di età. La stabilità di queste caratteristiche tra gli individui potrebbe essere una conseguenza della Natura, dell'esperienza comune o di entrambe. Esempi comportamentali potrebbero essere l'importanza attribuita ai serpenti o la tendenza dei neonati a legarsi alla madre. Quindi gli aspetti più complessi del comportamento umano possono essere attribuiti alle interazioni tra tali caratteristiche o tra gli individui, proprio come la propaganda di guerra gioca sulle propensioni basilari dell'uomo e sulle interazioni tra di esse. È verosimile che le caratteristiche relativamente stabili, o la maggior parte delle loro conseguenze, risulterebbero di tipo adattativo (Hinde 1987). Tale percorso richiede l'integrazione dell'etologia con le scienze sociali.
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