La grande scienza. Esplorazione planetaria
Esplorazione planetaria
La fase pionieristica dell'esplorazione spaziale è racchiusa in venti anni di storia, dal 4 ottobre 1957 al 5 settembre 1977, vale a dire dai satelliti Sputnik alle sonde Voyager. Si è trattato di un periodo importante, che ha consentito alle agenzie spaziali dei principali paesi coinvolti, l'allora Unione Sovietica e gli Stati Uniti, di imparare a costruire sistemi spaziali affidabili e ha aperto la strada all'importantissima fase successiva, quella dell'esplorazione sistematica del Sistema solare coordinata a livello internazionale. Unione Sovietica e Stati Uniti lanciano i loro primi rispettivi satelliti a distanza di pochi mesi l'uno dall'altro (Sputnik, 'compagno di viaggio', il 4 ottobre 1957 ed Explorer, 'esploratore', il 31 gennaio 1958) e subito dopo si concentrano sull'obiettivo Luna, nell'ambito del quale inizia però, tra un successo e l'altro, anche la sequenza di missioni fallite. L'Unione Sovietica comincia l'esplorazione del nostro satellite naturale con il fallimento di Luna 1 - che, invece di raggiungere il luogo di destinazione, si immette in orbita intorno alla Terra - e continua sino al primo atterraggio sulla Luna, effettuato con Luna 2 il 12 settembre 1959. La faccia della Luna non visibile dalla Terra sarà invece fotografata e trasmessa da Luna 3, meno di un mese dopo.
Nel frattempo anche gli Stati Uniti, dopo il successo del primo satellite Explorer che, con un vero esperimento scientifico a bordo, aveva scoperto le cinture di radiazione intrappolate nel campo magnetico terrestre (fasce di Van Allen), iniziano la corsa verso la Luna. Al principio con grande sfortuna, ma uguale grinta: delle prime otto sonde Pioneer lanciate, neanche una raggiunge l'obiettivo; miglior fortuna ha avuto invece la serie Ranger, con il primo impatto nel 1962. L'esplorazione della Luna continua, con sonde automatiche, per più di un decennio, da parte delle due superpotenze. Negli Stati Uniti, nel 1961 il presidente John F. Kennedy, appena eletto, aveva lanciato una famosa sfida, in risposta al primo volo umano di Yuri Gagarin: "l'obiettivo, prima che questo decennio finisca, è che l'uomo sbarchi sulla Luna e ritorni sano e salvo sulla Terra". Si tratta del progetto Apollo, cominciato con il padre della V2 Werner von Braun (1912-1977) e il suo Saturno V, che doveva portare allo sbarco di astronauti sulla Luna il 21 luglio 1969.
Nel corso degli anni Sessanta, in parallelo allo sviluppo di Apollo, la NASA inizia un vigoroso programma di esplorazione dei due pianeti più vicini, Marte e Venere. Esso si configura non tanto come una vera e propria esplorazione planetaria, quanto piuttosto come un'attività di sperimentazione nei campi della missilistica, della dinamica celeste, dell'affidabilità delle missioni: una fase definibile 'eroica' e che caratterizza normalmente il primo stadio di una nuova era. La serie Mariner verso Marte, dopo diversi infortuni, nel 1965 rimanda a Terra mediante la sonda Mariner 4 le prime, storiche 22 immagini della superficie del pianeta rosso da una distanza di 10.000 km. Benché esse rappresentino un'altra pietra miliare nella comprensione del pianeta, per l'evidenza di vita non tutto è concluso: l'ombreggiatura un po' ambigua, l'estensione delle calotte polari, ecc. lasciano aperta, anche nelle versioni ufficiali, la possibilità che vi sia presente vegetazione superficiale. I sovietici si concentrarono, da subito, su Venere, con una sfortuna uguale alla tenacia: dal 1961 al 1965 undici lanci fallirono per svariate ragioni, legate soprattutto a problemi di affidabilità dei sistemi di telecomunicazione. Gli americani riuscirono invece nell'impresa: la sonda Mariner 1 esplose al lancio, ma la Mariner 2, lanciata un mese più tardi, nell'agosto del 1962, riuscì ad arrivare relativamente vicino (meno di 40.000 km) alla meta. Nel 1967 la competizione per Venere divenne frenetica: il 18 ottobre la quarta della nuova serie sovietica Venera rilasciò con successo un'altra sonda, che discese nell'atmosfera infuocata e densa del pianeta; un solo giorno dopo, il 19 ottobre, gli americani rispondevano con il Mariner 5, che trasmise dati da meno di 4000 km dall'obiettivo. Due anni dopo, Venera 7 dava all'Unione Sovietica l'onore del primo atterraggio morbido su un pianeta del Sistema solare, con una sonda che funzionò, sia pure per poco tempo, sulla superficie di Venere, trasmettendo i primi dati sulle sue spaventose temperature e pressioni caratteristiche.
La fase pionieristica di esplorazione della Luna e dei due pianeti più vicini alla Terra fu cruciale per vari motivi. Innanzi tutto per i risultati scientifici, che rivoluzionarono in pochi anni i dati accumulati per secoli, relativi a temperature, pressioni e composizione delle due atmosfere, intensità o assenza del campo magnetico, composizione e conformazione delle rocce superficiali, e molto altro. Sono dati ancora in qualche caso validi e che hanno rappresentato, comunque, il punto di partenza della planetologia spaziale, almeno per i pianeti rocciosi. Altrettanto cruciale fu la spinta all'avanzamento tecnologico in direzioni completamente nuove: le sonde automatiche dovevano avere sottosistemi semplici, affidabili, leggeri, intelligenti, longevi, resistenti alle condizioni difficili dello spazio profondo. Inoltre, la missilistica e la navigazione interplanetaria e circumplanetaria, affrontate per la prima volta nella storia dell'uomo, aprivano il sistema planetario a un'esplorazione più completa e sistematica.
La fine degli anni Sessanta è però caratterizzata soprattutto dall'esplorazione della Luna. In parallelo al progetto Apollo, grazie allo sviluppo delle capsule per il volo umano e di Saturno V (a tutt'oggi il vettore più potente mai prodotto) continua l'esplorazione automatica, con le sonde Lunar orbiter e Surveyor, che completano la cartografia e provano un atterraggio morbido. Infine, con Apollo 11 Neil Armstrong mette piede sulla Luna: "è un piccolo passo per me, ma un enorme progresso per il genere umano". A seguire, fino al dicembre 1972, furono effettuati altri 5 sbarchi, complessivamente con 12 astronauti atterrati sulla Luna e circa 2000 campioni geologici prelevati, per un totale di 382 kg. Gli Stati Uniti continuano comunque, in parallelo al progetto Apollo, anche l'esplorazione di Marte. Esattamente dieci giorni dopo Apollo 11, la sonda Mariner 6 passa a 3400 km dalla superficie di Marte e invia 75 foto spettacolari; quattro giorni dopo, la gemella Mariner 7 ne manda altre 126, rendendo in tal modo possibile l'osservazione delle calotte polari, e la comprensione della loro composizione, ma anche di crateri, delle dune di sabbia, delle tempeste e di molto altro.
Concluso il progetto Apollo, la NASA continua le missioni di esplorazione automatica verso Marte e Venere, ancora con Mariner 9 e poi con le serie Pioneer, Venus e Viking, arrivando nel 1976 all'atterraggio morbido su Marte e alle prime immagini a colori del pianeta rosso prese dalla superficie. I sovietici rispondono con una serie di lanci verso Venere, con i quali arrivano nel 1983 a ben 29 missioni, costellate certo di molti fallimenti ma anche coronate da molti successi. Le prime foto in bianco e nero (1975) e poi a colori (1981) dalla superficie, a 450 °C e con una pressione di diverse decine di atmosfere, mostrano chiaramente le rocce venusiane. Nel 1983 e 1986, infine, vengono compiuti due importanti passi avanti: l'esplorazione della superficie mediante radar ad apertura sintetica e, in collaborazione con Jacques Blamont, le misure dell'atmosfera mediante palloni rilasciati dalle sonde Vega, che percorrono circa 11.000 km a quasi 50 km di quota.
Alla fine degli anni Settanta si apre la seconda era dell'esplorazione planetaria spaziale, rappresentata dalle due sonde Voyager 1 e 2 che esplorarono Giove e Saturno e i loro satelliti, precedentemente già raggiunti dalle sonde Pioneer 10 e 11, lanciate nel 1972 e 1973, la prima delle quali era il primo oggetto costruito dall'uomo destinato a uscire dal Sistema solare. Le due Voyager rappresentarono una rivoluzione tecnologica: la strumentazione scientifica (oltre 100 kg di massa degli 800 kg totali) comprendeva due telecamere, generatori termoelettrici a radioisotopi e una grande antenna di 4 m di diametro per focalizzare verso la Terra il fascio del trasmettitore di soli 23 watt. Voyager 2 fu lanciata il 20 agosto e Voyager 1 il 5 settembre 1977 e, a Terra, venne costruito il Deep space network, un insieme di grandissime antenne sparse in tutto il mondo per seguire le sonde. Entrambe le sonde, negli anni 1979-1980, compivano flyby di Giove e dei suoi satelliti e di Saturno, dei suoi anelli e dei suoi satelliti; in seguito fu possibile per Voyager 2 proseguire il viaggio fino a Urano (1986) e Nettuno (1989).
Le due sonde Voyager hanno rappresentato un momento storico importante nell'esplorazione del Sistema solare, innanzi tutto dal punto di vista tecnologico, in quanto sono state le prime macchine spaziali concepite per essere veramente autonome, oltre che robuste e affidabili. Dato che nelle regioni esterne del Sistema solare la distanza dalla Terra allunga i tempi di andata e ritorno dei segnali tra sonda e stazione di controllo, rendendo perciò impossibili eventuali interventi urgenti da terra, le due sonde furono dotate di un calcolatore di bordo in grado di gestire le emergenze. Il successo delle missioni Voyager giocò un ruolo importante nella nuova missione di esplorazione planetaria della NASA, chiamata Galileo.
Approvata dal Congresso e iniziata quando le Voyager si stavano avvicinando a Giove, Galileo somma l'esperienza della serie Mariner, Pioneer, Viking e delle due Voyager. Galileo sfrutta la tecnica di lancio per mezzo dello shuttle: dall'orbita terrestre bassa, il 18 ottobre 1989 un motore dedicato immette la sonda nell'orbita denominata VEEGA (Venus-Earth-Earth-Gravity-Assist); Galileo percorre tale orbita per arrivare fino a Giove, sfruttando la tecnica della 'fionda gravitazionale' - proposta anche da un grande scienziato padovano, Giuseppe Colombo (1920-1984) - che permette di giungere a destinazione compiendo passaggi ravvicinati ad altri pianeti del Sistema solare. Il 13 luglio 1991 la missione raggiunge Giove e, rilasciata una sonda che penetra nell'atmosfera, inizia una serie di orbite dette 'a margherita', incrociando Giove e il sistema dei pianeti medicei. La missione trasmette straordinarie immagini dei passaggi ravvicinati di tutti gli oggetti del sistema gioviano.
Dopo le visite fugaci, anche se importanti, delle sonde Pioneer 10 e 11 negli anni 1972-1973, Voyager 1 e 2 nel 1979 e Ulysses nel 1990, era rimasto quasi tutto da scoprire su Giove. Più di un decennio di dati ottenuti da Galileo ha rivoluzionato la conoscenza del pianeta più grande del Sistema solare, rivelandovi la presenza di metano, fosforo e anche di molta acqua nella sua composizione gassosa (costituita per l'81% da idrogeno e per il 18% da elio). Proprio alla circolazione di acqua negli strati superiori dell'atmosfera sono dovute le gigantesche tempeste che scuotono il pianeta con venti da 150 m al secondo e con una temperatura intorno a −130 °C. L'interno raggiunge anche 30.000 °C nel nucleo, circondato a sua volta da una regione di idrogeno metallico liquido, che spiega l'intenso campo magnetico di Giove.
Inoltre si scopre che anche Giove ha un anello, costruito soprattutto dai grani di polvere provenienti dai quatto satelliti maggiori e da nubi di ammoniaca solida. Tuttavia i dati più interessanti e le immagini più belle sono stati ottenuti dai quattro satelliti maggiori di Giove. Il satellite Io è oggi considerato l'oggetto maggiormente attivo di tutto il Sistema solare: un gran numero di vulcani, di cui alcuni molto più caldi di quelli terrestri, ricopre la superficie del satellite, eruttando lava composta di silicati ricchi di magnesio. Su Europa Galileo ha invece osservato grandi zattere di ghiaccio delle dimensioni di una città e i dati ottenuti dimostrano che vi è più acqua che sulla Terra, facendo sospettare che in passato esistesse (e forse esiste ancora oggi) un vero e proprio oceano al di sotto della sua superficie gelata. Quest'ultima appare priva di crateri, elemento che denota un'origine recente del satellite, e sovrastata da una sottile atmosfera di ossigeno e da una ionosfera. Un oceano potrebbe ancora esistere anche su Callisto, ma ben al di sotto della superficie, ricoperta di crateri: la sua presenza è suggerita da un campo magnetico che potrebbe essere generato dall'interazione tra la distesa di acqua salata e l'intenso campo magnetico di Giove. Infine Ganimede, il satellite più grande del Sistema solare, presenta due calotte polari simili a quelle terrestri, ma più grandi, e ha un campo magnetico proprio.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta a oggi, oltre all'esperienza di grande successo di Galileo, sono state seguite altre quattro direttrici di esplorazione del Sistema solare: le comete, con Giotto dell'ESA (1986), gli asteroidi (NEAR, NASA), l'osservazione radar di Venere (Magellan, NASA) e l'esplorazione in situ di Marte (NASA, ESA). Nel 1985 partì una vera e propria flotta di sonde verso la cometa di Halley, il cui periodo è di circa 76 anni: due russe (Vega 1 e 2), due giapponesi (Sakigake e Suisei) e la sonda Giotto dell'ESA. I primi di marzo del 1986 si verificò l'avvicinamento controllato (a una distanza di 144 milioni di km dalla Terra), con l'ultima parte in automatico e 750.000 km percorsi in 3 ore, in mezzo alla bufera di particelle carboniose della coda della cometa. La camera di bordo (costruita in Italia) funziona perfettamente e trasmette una galleria di immagini della cometa da una distanza minima di 596 km, mostrando che si tratta di un solido di forma irregolare, un po' allungato, lungo circa 14 km e con un volume complessivo di 500 km3. Grazie a una risoluzione variabile da 60 a 300 m, molti dettagli sono visibili sulla superficie. Colpisce in particolare la presenza di due grandi sorgenti di materiali in corso di sublimazione sotto l'effetto dei raggi del Sole; i getti di materiale luminoso sembrano provenire da due 'crateri', che però non sono da impatto ma scavati dall'ablazione del materiale sublimato. Un altro cratere, del diametro di 2 km e profondo 200 m, è ben visibile sul lato di Halley esposto al Sole, che non era 'attivo' al momento del passaggio di Giotto ma che è prova di un'intensa attività nel passato. Il resto del nucleo di Halley è talmente nero che è difficile da immaginare per noi terrestri; si tratta certamente dell'oggetto più nero mai visto nel nostro Sistema solare (assorbe il 97% della luce solare incidente), a piena conferma della teoria secondo la quale le comete sono palle di neve ricoperte da un composto organico carbonioso, simile al catrame.
Proprio dai risultati di Giotto sul nucleo di una cometa nasce l'interesse per la composizione e la natura di altri corpi 'minori' del Sistema solare, gli asteroidi. L'analisi da terra della loro luce (riflessa dal Sole) da sempre mostra una serie di problemi non risolti. Non è chiaro, per esempio, se quelli che noi chiamiamo 'asteroidi' siano resti di nucleo cometario dopo che tutto il materiale 'volatile' è sublimato sotto l'azione solare, oppure oggetti intrinsecamente compatti, agglomerati di detriti cosmici dei cosiddetti rubble pile, tenuti insieme dalla forza di gravità. La missione NEAR della NASA è stata lanciata nel 1996 proprio con lo scopo di capire l'origine degli asteroidi di classe 'S' (ricchi di silicati) e delle condriti, ovvero le più comuni meteoriti terrestri. I due asteroidi-obiettivo sono stati Mathilde, nella fascia tra Giove e Marte, raggiunto nel giugno del 1997, e successivamente 433 Eros, avvicinato da NEAR nel febbraio 2000. La sonda NEAR, ribattezzata Shoemaker in onore del geologo Eugene M. Shoemaker, è atterrata su Eros il 12 febbraio 2001: per la prima volta nella storia dell'esplorazione spaziale, una sonda è dunque entrata in contatto con la superficie di un asteroide. In un solo anno, NEAR Shoemaker ha risolto interrogativi per i quali non si era mai riusciti a trovare risposta. Si ha ragione di ritenere che la fonte primaria dei frammenti rocciosi chiamati condriti (costituiti da una matrice rocciosa indifferenziata che ha al suo interno condrule, piccole sfere di materiale primordiale createsi per fusione nelle prime fasi della formazione del Sistema solare), che raggiungono il nostro pianeta sotto forma di meteoriti, siano proprio gli asteroidi di classe 'S'. Sulla base dei dati forniti da NEAR, oggi sappiamo con certezza che Eros è proprio uno degli oggetti primordiali del Sistema solare. Nel contempo, dalla missione NEAR abbiamo imparato che non ci sono collegamenti evidenti tra Eros e un nucleo cometario estinto, e questo sembrerebbe quindi confermare che non erano corrette le ipotesi formulate di un collegamento tra comete degasate e oggetti vicini alla Terra.
In parallelo con le esplorazioni di Giove e dei pianeti minori, a partire dal 1989 la NASA ritorna su Venere per una esplorazione completamente nuova, in cui sfrutta una tecnologia di derivazione militare: il radar ad apertura sintetica. Combinando la risposta di due fasci radar da satellite, è possibile costruire una cartografia tridimensionale molto precisa del terreno anche in presenza di totale copertura nuvolosa, come nel caso di Venere, circondata da un'atmosfera molto densa e calda che rende impossibile l'osservazione ottica. Il 4 maggio 1989 parte la missione Magellan, dedicata all'esplorazione della superficie di Venere attraverso le sue nubi. Dall'agosto 1990 all'ottobre 1994, come previsto, il satellite in orbita bassa (fino a 294 km di altezza) compie la mappatura del 98% della superficie, con una risoluzione migliore di 200 m. La missione è imperniata su cinque cicli di 243 giorni terrestri (pari a un giorno venusiano), durante ciascuno dei quali il pianeta ruota completamente sotto l'orbita stabile di Magellan. I risultati scientifici della missione hanno permesso di capire che Venere, di dimensioni simili alla Terra, non mostra segni di tettonica a placche e ha una superficie coperta per l'85% da materiale vulcanico. Il resto sono catene montuose deformate non da erosione ma a causa dell'assoluta mancanza di acqua allo stato liquido sulla superficie, che presenta modesti segni di erosione eolica e, in media, non supera i 500 milioni di anni di età. Mentre è ovvio che ciò sia dovuto al flusso di materiale vulcanico interno che ha coperto rocce più antiche, rimane da capire se tale copertura provenga da una serie di gigantesche eruzioni avvenute contemporaneamente intorno a 500 milioni di anni fa o se si sia trattato di un processo più lento, su tempi molto più lunghi. Resta da spiegare anche il motivo dell'assenza di un campo magnetico e perciò, per esempio, di cinture di radiazione.
Negli anni Novanta, infine, si è intensificata l'esplorazione di Marte. Dopo la perdita dei contatti con le sonde sovietiche Phobos 1 e 2 nel 1988, la stessa sorte tocca all'americana Mars observer, lanciata il 25 settembre 1992 e persa il 21 agosto del 1993, tre giorni prima delle manovre di inserzione in orbita marziana. Ancora più sfortunata è la missione russa Mars 96: a causa di un errore al momento del lancio, la sonda ricade nell'Oceano Pacifico.
Le sorti dell'esplorazione marziana sono risollevate dalle missioni della NASA Mars pathfinder e Mars global surveyor. Si tratta di missioni a basso costo, basate sul concetto di faster, cheaper and better. Mentre Pathfinder vuole dimostrare l'applicabilità della nuova filosofia anche all'esplorazione in situ di Marte, Mars global surveyor intende raggiungere gli obiettivi della missione Mars observer. Le due missioni vengono lanciate a pochi giorni di distanza: il 7 novembre 1996 parte Surveyor, mentre Pathfinder lascia la Terra il 4 dicembre. Le loro orbite sono leggermente diverse e Pathfinder arriva per prima e tocca la superficie di Marte il 4 luglio 1997.
Pathfinder è equipaggiata di un piccolo veicolo, il Sejourner, capace di muoversi di qualche metro sull'accidentata superficie marziana per studiare le rocce e il suolo circostante. Quando Pathfinder e Sejourner finiscono la loro missione, nel settembre 1997, Mars global surveyor è già entrata in orbita marziana e sta iniziando le manovre di frenamento per trasformare l'orbita di inserimento in un'orbita polare, adatta allo studio sistematico della superficie di tutto il pianeta.
Ci vorranno due anni prima che la missione diventi operativa sulla nuova orbita e soltanto nel 1999 cominceranno ad arrivare le immagini ad alta risoluzione che, unite ai dati altimetrici, testimoniano la presenza di acqua allo stato liquido su Marte in epoche geologicamente non remote. Questa scoperta apre nuovi orizzonti all'esplorazione umana del pianeta gemello della Terra.
La sfortuna colpisce, in modo non catastrofico, la missione giapponese Nozomi: lanciata il 4 luglio 1998, non riuscì a effettuare la manovra di inserimento marziano. Dopo essere stata in orbita di parcheggio, il 19 giugno 2003 ha effettuato il flyby attorno alla Terra dirigendosi verso Marte.
Sorte peggiore tocca alle sonde americane Mars climate orbiter e Mars polar lander, lanciate tra la fine del 1998 e l'inizio del 1999. La prima viene persa per un errore di navigazione causato dalla confusione tra due centri di controllo di missione, tra unità metriche decimali e sistema di misura inglese; il comando di accensione del sistema di discesa viene dato a quota troppo bassa e la sonda si schianta sulla superficie. Polar lander, invece, interrompe inspiegabilmente i collegamenti il 3 dicembre 1999, pochi secondi prima dell'inizio della discesa su Marte. Inutilmente la NASA e il mondo attenderanno per giorni segnali di vita dalla sonda e dai due piccoli penetratori che avrebbero dovuto perforare la superficie di Marte alla ricerca di acqua sotterranea. Anche Mars global surveyor, nella sua missione di dettagliatissima copertura osservativa del pianeta, cercherà tracce del paracadute: Polar lander è scomparso.
L'esplorazione di Marte da parte delle sonde automatiche della NASA continua con Mars odyssey, lanciata il 7 aprile 2001 e arrivata su Marte sette mesi dopo. Questa volta la manovra di inserimento in orbita bassa per sorvolare il pianeta riesce perfettamente: scopo della missione è inviare dati sul clima e sull'ambiente di radiazioni marziani che futuri astronauti dovranno affrontare.
I risultati più importanti dell'esplorazione automatica di Marte ottenuti finora, pur con grandi difficoltà, sono senza dubbio collegati a una migliore conoscenza del dettaglio geografico della superficie e, soprattutto, al rilevamento della presenza d'acqua, anche in forma liquida, in tempi geologicamente recenti. Lo provano, per esempio, alcune foto della sonda Surveyor che mostrano segni di depositi alluvionali sovrapposti a dune di sabbia di chiara origine eolica, le quali non possono che avere età limitata rispetto all'evoluzione del pianeta. Anche se l'acqua allo stato liquido non può esistere in modo stabile sulla superficie attuale di Marte (soprattutto a causa della bassa pressione atmosferica), è possibile, per esempio, che fenomeni geotermici aiutino a fondere i ghiacci e a portare brevemente in forma liquida l'acqua sotterranea. È proprio la conferma della presenza d'acqua su Marte l'obiettivo principale delle missioni ora in corso.
Il futuro: dalla sonda Cassini alla missione BepiColombo, attraverso l'esplorazione di Marte
La nuova generazione dell'esplorazione planetaria si avvale della focalizzazione degli obiettivi resa possibile dalla comprensione fisica e dall'esperienza tecnica. Almeno quattro grandi obiettivi sono già evidenti. L'esplorazione automatica di Marte continuerà al ritmo consentito dalla meccanica celeste: una (o più) missioni per ognuna delle finestre di lancio che si ripetono ogni 26 mesi. Oltre a Mars odyssey, arrivata su Marte il 24 ottobre 2001, dal 2003 la NASA ha previsto l'invio di altre sonde, con il compito anche di prelevare campioni marziani. L'ESA a sua volta invierà nel 2003 Mars express per una ricognizione approfondita mediante radar in grado di trovare, per esempio, acqua anche a qualche chilometro di profondità: la missione conterrà una piccola sonda per l'atterraggio e sarà il primo oggetto europeo a funzionare sulla superficie di un altro pianeta. Nel 2004 arriverà su Marte anche la sonda giapponese Nozomi. Nel 2006 la missione NASA Mars reconnaisance orbiter porterà in orbita marziana un altro radar italiano, SHARAD, dedicato all'esplorazione del sottosuolo marziano. Intorno al 2010 la nostra conoscenza di Marte dovrebbe essere sufficiente per il prossimo passo dell'esplorazione umana.
Oltre all'esplorazione di Marte, continuano le visite ai pianeti giganti e alle loro lune. Nel 2004 la missione NASA-ESA Cassini/Huygens raggiungerà Saturno, visitato per l'ultima volta dalla sonda Voyager nel 1981; in viaggio dal 1997, con passaggio dell'orbita di Giove al cambio di millennio, Cassini darà una risposta sulla struttura e sulla composizione dell'atmosfera di Saturno. La missione prevede il rilascio, nel novembre 2004, della sonda europea Huygens nell'atmosfera di Titano, il più grande dei satelliti di Saturno, caratterizzato da un'atmosfera e da una superficie particolarmente interessanti per i processi fisico-chimici che potrebbero essere in corso, inclusi quelli che conducono alla formazione di molecole prebiotiche. Uno dei satelliti medicei di Giove, Europa, sarà probabilmente anch'esso oggetto di una missione dedicata, proprio per l'enorme interesse nell'esplorazione di un mondo ricco d'acqua, nella ricerca di materiale prebiotico e nello studio della sua evoluzione.
Il terzo grande obiettivo della prossima decade di esplorazione planetaria è lo studio dei corpi minori del Sistema solare, le comete e gli asteroidi. Le missioni dirette ai corpi minori hanno il grande vantaggio di essere relativamente poco costose, perché presentano problemi di navigazione più semplici rispetto alle missioni dirette a grandi corpi planetari. Per le comete, è già in volo Stardust, della NASA: lanciata nel 1999, si avvicinerà alla cometa Wild-2 nel 2004 per catturare in una speciale trappola di gel assorbente il materiale della sua coda, per riportarlo a terra nel 2006. Tale materiale, se mantenuto in condizioni non contaminate, offre un'opportunità senza precedenti per lo studio delle componenti 'pristine' del Sistema solare. Meglio ancora dovrebbe fare Rosetta, il cui lancio era previsto nel 2003 per un incontro con la cometa Wirtanen che avrebbe dovuto verificarsi nel 2011, al di fuori dell'orbita di Giove. Il posticipo del lancio al 2004 ha comportato la variazione dell'obiettivo della missione, che ora è la cometa 67P/Churiumov-Gerasimenko. Per raggiungere tale obiettivo, Rosetta affronterà un lungo viaggio di circa 10 anni, passando due volte vicino alla Terra (marzo 2007 e novembre 2007) per sfruttarne l'effetto 'fionda gravitazionale' e ricevere dunque la spinta che le permetterà di aumentare la sua velocità; essa farà un passaggio analogo intorno a Marte a marzo 2005. Nel suo percorso la sonda passerà in prossimità di almeno un asteroide. Giunta nei pressi della cometa, rilascerà una sonda (Rosetta lander) la quale, dopo essere atterrata sul nucleo, eseguirà analisi geochimiche in situ, effettuando anche prelievi di campioni del suolo. Il prelievo verrà attuato utilizzando un sistema di perforazione di concezione e realizzazione completamente italiane; il sistema è anche dotato di un meccanismo di distribuzione dei campioni ai vari strumenti, in modo da consentire l'effettuazione dell'analisi in situ. Per la prima volta, a eccezione di un esperimento eseguito dai russi sul suolo lunare, un sistema di perforazione entrerà nel nucleo di una cometa e comunque di un corpo del Sistema solare.
Particolare interesse rivestono gli asteroidi maggiori, Vesta e Cerere, specie dopo la visita a Eros, verso i quali sarà diretta Dawn, una missione NASA, con un probabile lancio dopo il 2006. Ancora più ambiziosa, infine, una missione in fase di studio rivolta ai 'pianetini' più lontani, gli oggetti della cintura di Kuiper, al di là di Plutone: se partisse prima del 2005 potrebbe arrivare in situ prima del 2020, dopo un passaggio vicino all'unico pianeta che non è stato mai visitato.
Il quarto grande obiettivo dell'esplorazione del futuro è infine Mercurio, un piccolo mondo infuocato visitato in una sola occasione, negli anni 1974-1975, dalla storica sonda NASA Mariner 10, che lo avvicinò, anziché un'unica volta, come previsto inizialmente, per tre volte, grazie a un geniale suggerimento di Colombo. La NASA tornerà su Mercurio con la sonda Messenger, ma l'ESA ha già pronta la sua risposta con BepiColombo, la prossima missione planetaria europea, dedicata al grande padovano. La partenza è prevista per il 2011-2012, dopo un lungo lavoro di sviluppo tecnologico (in parte in collaborazione con l'ente spaziale giapponese) su una strumentazione destinata a operare in condizioni rese estreme dalla vicinanza del Sole. Da BepiColombo ci aspettiamo una risposta alle molte domande su Mercurio: natura e origine del campo magnetico e dell'ambiente di particelle, analisi geologica dettagliata, campionamento fisico-chimico mediante una piccola sonda sulla superficie.
Origine ed evoluzione
Lo studio dell'origine di un sistema planetario deve procedere di pari passo con le teorie sulla formazione ed evoluzione stellare: non possono nascere pianeti se non intorno a una stella, e questo è certamente il caso del Sole e del nostro sistema planetario. Il problema dell'età della Terra e del Sole aveva, da sempre, tormentato e affascinato astronomi, filosofi e religiosi, fino al netto contrasto evidenziatosi negli anni Venti del XX sec. tra la fisica del Sole e i risultati geologici e paleontologici. Questi ultimi, dalle rocce ai fossili, non lasciavano dubbi: l'età della Terra è certamente di qualche miliardo di anni. All'epoca, invece, nessun modello solare poteva attribuire al Sole un'età maggiore di qualche decina di milioni di anni. O, meglio, affinché il Sole avesse un'età coerente con quella della Terra, cosa certamente inevitabile, era necessaria una fisica nuova, non ancora immaginata. In effetti pochi anni dopo, nel 1932, la scoperta del neutrone, la teoria di Enrico Fermi sul decadimento β e la comprensione del fenomeno della fusione nucleare fornirono la spiegazione della sorgente di energia che tiene acceso il Sole (e le altre stelle) per miliardi di anni.
L'origine comune del Sole e del sistema planetario è da cercarsi, quasi certamente, nel collasso gravitazionale di una delle tante nubi molecolari presenti nella nostra Galassia. Nella Galassia, infatti, oltre a cento miliardi di stelle, esiste una componente di 'mezzo interstellare' costituita soprattutto da idrogeno (e da tracce di altri elementi). L'idrogeno, al diminuire della sua temperatura e all'aumentare della sua densità, può trovarsi allo stato ionizzato, atomico o molecolare. Le cosiddette 'nubi molecolari', appunto, hanno temperature di qualche decina di kelvin e densità molecolari di migliaia (o più) molecole per cm3. Un tale stato è migliore di qualsiasi vuoto prodotto da un laboratorio terrestre anche se, su scala galattica, rappresenta una densità importante: mentre il volume delle nubi molecolari non è più dell'1% di quello della Galassia, la loro massa è circa la metà della massa della Galassia. A una nube molecolare galattica, come a qualunque altra massa, si applica il 'criterio di Jeans' (James Jeans, 1877-1946): per un dato valore di temperatura e densità, il criterio definisce la minima massa che la nube deve avere perché le for-ze attrattive gravitazionali tra le sue varie parti prevalgano sull'agitazione termica, che si oppone alla contrazione. Kant e Pierre-Simon de Laplace non avevano chiaro il concetto di massa di Jeans (che però certo avrebbero apprezzato), tuttavia erano partiti dalla stessa ipotesi per spiegare la formazione del Sole e dei pianeti.
Una volta iniziato il processo di contrazione gravitazionale, la nuvola si frammenta in parti che a loro volta si contraggono indipendentemente, ciascuna con una massa vicina a una massa solare. L'aumento di densità conseguente al collasso gravitazionale, oltre un certo limite, porta all'innesco delle reazioni di fusione nucleare, che liberano una grande quantità di energia, e la stella si accende. La forma sferica del Sole deriva, appunto, dall'equilibrio tra attrazione gravitazionale centripeta e trasporto centrifugo dell'energia prodotta all'interno. La rotazione della stella appena formata è dovuta alla conservazione del momento angolare del materiale che si contrae; questo spiega anche la possibilità di formazione di un disco, rotante e appiattito, creato dalla contrazione intorno alla stella: il disco protoplanetario. Esso conterrà, oltre che idrogeno gassoso ed elementi più pesanti, polvere e grani interstellari che tendono ad attirarsi gravitazionalmente e a disporsi nel piano equatoriale. A poco a poco, la coesione gravitazionale forza i granelli di polvere ad accumularsi in molti corpi, sempre più grandi fino a raggiungere i 'planetesimali', delle dimensioni di circa 1 km. La cattura di un planetesimo da parte di uno maggiore, ovvero il bombardamento dei frammenti più piccoli su corpi già formati, conduce alla fine a veri e propri pianeti, più o meno lontani dalla stella centrale. Come risultato, nonostante il Sole contenga il 99,9% della massa del Sistema solare, ha soltanto il 2% del momento angolare totale.
I tempi della formazione planetaria sono brevissimi, forse mille anni, per il processo iniziale di sedimentazione del disco protoplanetario, a causa della densità elevata accumulata nel piano centrale. I planetesimali, formati dalla rottura del disco per instabilità, sono in gran numero, forse mille miliardi all'interno dell'orbita di Marte, ma già in 10.000 anni si accumulano in oggetti di circa 500 km di raggio che poi, soprattutto per collisione, in un tempo da 10 a 100 milioni di anni formano i pianeti.
Il modello fenomenologico descritto sopra, però, sembra funzionare abbastanza bene per i pianeti interni, o 'rocciosi', o terrestri (Mercurio, Venere, Terra e Marte) del Sistema solare. In una versione di questo modello - elaborata forse ad hoc e che comunque non sembra del tutto adeguata per i pianeti interni - i giganti gassosi (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) avrebbero conservato anche gran parte del contenuto originario della nebulosa protoplanetaria. La soluzione migliore per i giganti esterni prevede un nucleo roccioso relativamente piccolo (da 12 a 18 masse terrestri) circondato da un involucro gassoso che, soprattutto nel caso di Giove, rispecchia la composizione solare, dal punto di vista del rapporto H/He; tuttavia, una teoria completa e coerente che spieghi tutti i pianeti del Sistema solare deve ancora essere raffinata. La difficoltà è spiegare l'enorme varietà di proprietà fisiche e chimiche dei pianeti e le grandi differenze tra quelli terrestri e quelli gassosi.
È più facile, forse, prevedere l'evoluzione finale del Sistema solare, strettamente collegata all'evoluzione del Sole stesso. L'astronomia osservativa e teorica ha a disposizione molti dati su stelle simili al Sole in vari stadi della loro evoluzione nella nostra Galassia. Sappiamo con buona precisione che tra circa 5 miliardi di anni il combustibile che ora tiene acceso il Sole finirà e la stella si trasformerà in una 'gigante rossa', con un raggio anche 200 volte maggiore di quello attuale. Mercurio, Venere, la Terra e forse anche Marte finiranno vaporizzati all'interno della stella, in un periodo di tempo abbastanza lungo, circa 100 milioni di anni, durante i quali il Sole continuerà la sua disperata battaglia energetica contro la contrazione gravitazionale, bruciando carburante nucleare in modo sempre meno efficiente. Nel processo, i pianeti gassosi saranno sottoposti a un 'vento solare' milioni di volte più forte di quello attuale e perderanno nello spazio gran parte delle loro atmosfere.
Alla fine, come è inevitabile, le forze gravitazionali vinceranno e il Sole diventerà, per contrazione, una nana bianca, destinata a raffreddarsi lentamente, circondata dai resti gelidi dei pianeti sopravvissuti allo stadio di gigante rossa. Ovviamente, nessuna forma di vita sarà possibile e, probabilmente, non si conserverà nessuna traccia dell'esistenza di vita passata. Si può nondimeno ipotizzare una curiosa eccezione a questo scenario, almeno prima che la Terra sia completamente vaporizzata: quando l'atmosfera, gli oceani e gli strati superficiali del nostro pianeta saranno erosi dall'ingigantirsi del Sole, e con essi ogni segno di vita, per molto tempo eventuali satelliti artificiali, magari in orbite profonde, saranno l'unica testimonianza che una forma di vita intelligente sia mai esistita intorno a quella particolare stella.
La ricerca di altri sistemi planetari e della vita fuori dalla Terra
Trecento anni prima di Cristo, Epicuro sosteneva che "ci sono infiniti mondi, sia simili sia diversi dal nostro"; l'opinione non era condivisa da Aristotele, che negava potessero esistere. Il dibattito è continuato nel corso dei secoli. La teoria dell'infinità dei mondi, che nel 1600 porta al rogo Giordano Bruno, nel 1678 spinge Christiaan Huygens a cercare di rintracciare pianeti intorno ad altre stelle. Egli si rende presto conto che le osservazioni sono al di sopra delle sue capacità; solo nel 1992 due radioastronomi rivelano il primo sistema planetario intorno a una stella di neutroni pulsante. I radioastronomi non avevano osservato direttamente i pianeti, bensì le perturbazioni che essi inducono nei regolarissimi impulsi prodotti dalla stella di neutroni rotante. Tre anni dopo, con osservazioni di spettroscopia nell'ottico, viene scoperto un pianeta intorno alla stella di tipo solare 51 Peg. Anche in questo caso non si è trattato di una rivelazione diretta, resa difficilissima dalla bassa luminosità del pianeta, la cui luce riflessa è miliardi di volte più debole di quella della stella. Seguendo l'esempio dei radioastronomi, si sono utilizzate le perturbazioni indotte dal moto orbitale del pianeta nelle righe presenti nello spettro della stella. In un sistema planetario tutti i componenti ruotano intorno al baricentro del sistema, che è vicino a quello della stella ma non coincide con esso.
Prendiamo il caso del Sistema solare: nonostante la massa del Sole sia molto superiore alla massa dei pianeti, il moto di questi ultimi, unito alla loro posizione reciproca, fa variare in modo periodico il baricentro del Sistema solare. Misurando ipotetici spostamenti periodici dei baricentri di stelle simili al Sole possiamo sperare di individuare la presenza di sistemi planetari. Poiché lo spostamento del baricentro del Sistema causa un piccolo moto orbitale della stella, possiamo misurare gli spostamenti del baricentro registrando accuratamente per anni la posizione delle righe negli spettri di stelle vicine (e brillanti), selezionate in quanto simili al Sole. Una volta accumulato un numero sufficiente di dati, bisogna verificare se la frequenza delle righe mostri piccole variazioni periodiche riconducibili alla presenza di uno o più pianeti in orbita intorno alla stella. Poiché l'influenza dei pianeti sul baricentro del Sistema è tanto maggiore quanto più essi sono massicci e vicini alla stella, il metodo delle velocità radiali evidenzia più facilmente pianeti del calibro di Giove, piuttosto che del calibro della Terra. È quanto puntualmente vediamo nell'elenco dei circa 100 pianeti scoperti fino a oggi, osservando stelle fino a 100 anni luce dal Sole. La loro massa oscilla tra qualche decimo e qualche decina di masse gioviane ma la loro distanza dalla stella è, nella grande maggioranza dei casi, solo una frazione di unità astronomica.
In altre parole sono stati trovati pianeti molto simili a Giove che orbitano intorno al loro sole alla distanza di Mercurio. È un risultato importante e inaspettato: per stelle simili al Sole ci si aspettava di trovare pianeti simili a Giove alla distanza di 4 o 5 unità astronomiche, non ad appena 0,05 unità astronomiche dalla loro stella. Inoltre, molti dei pianeti si muovono su orbite con elevata eccentricità, fenomeno che non si riscontra nel Sistema solare e difficile da conciliare con l'idea che i pianeti si formino all'interno di dischi interplanetari, la viscosità dei quali dovrebbe circolarizzare le orbite. Pochi dei sistemi planetari trovati contengono più di un pianeta, ma questo può essere un limite del metodo di ricerca, basato sugli spostamenti di velocità radiali, più apprezzabili per pianeti grandi.
Il terzo millennio è iniziato quindi con la consapevolezza che circa il 5% delle stelle di sequenza principale che ci circonda è dotato di un sistema planetario. Estendendo tale risultato a tutta la Galassia, sarebbe lecito aspettarsi un miliardo di sistemi planetari, forse diversi da quanto deducibile dalle nostre conoscenze del Sistema solare ma non per questo meno interessanti. Al momento dobbiamo dare ragione tanto ad Aristotele quanto a Epicuro.
Abbiamo trovato molti sistemi diversi dal nostro ma non ancora un sistema planetario che sia simile. I mezzi osservativi a nostra disposizione non ci hanno ancora permesso di rivelare pianeti terrestri intorno a stelle come il Sole. È una sfida che gli astronomi si preparano a raccogliere, sia continuando ad applicare il metodo delle velocità radiali sia passando ad altre tecniche, quali, per esempio, l'astrometria di altissima precisione della missione GAIA dell'Agenzia spaziale europea e l'interferometria da terra e dallo spazio. Quest'ultimo metodo permetterà finalmente di vedere i pianeti in orbita intorno a una stella piuttosto che individuarne solamente la presenza, come è stato fino a ora.
Non c'è dubbio che tra pochi anni il numero dei pianeti conosciuti al di fuori del Sistema solare sarà così alto che varrà la pena di ricercare, su di essi, tracce di vita. Per semplicità consideriamo i pianeti che possono ospitare forme di vita simile a quella che conosciamo sulla Terra. Si richiedono allora pianeti sufficientemente pesanti da trattenere un'atmosfera (differenza esistente tra la Terra e Marte), ma non tanto pesanti da trattenere l'idrogeno, letale per ogni forma di vita (differenza esistente tra la Terra e Giove); si richiede, inoltre, la presenza di acqua allo stato liquido sulla superficie, ovvero, alle condizioni di pressione di una 'normale' atmosfera, una temperatura superficiale di circa 300 K.
A seconda del tipo di stella intorno alla quale i pianeti orbitano, si può così definire una 'zona abitabile', ovvero una distanza tra loro, che deve necessariamente essere compresa tra 0,1 e 2 volte la distanza tra la Terra e il Sole (circa 150 milioni di km). Una distanza maggiore richiederebbe una stella molto più calda del Sole, di un tipo che però evolve troppo rapidamente per consentire l'evoluzione della vita, misurata sulla Terra in miliardi di anni; una distanza minore genererebbe, in ogni caso, temperature planetarie troppo elevate. Con questa definizione molto conservativa e antropocentrica di zona abitabile, ci si chiede come si possano esplorare, per ora da lontano, eventuali promettenti candidati e cercare su di essi segni di vita. Idealmente, l'analisi spettroscopica della luce riflessa dal pianeta è il metodo di indagine più potente, ammesso che si possieda un interferometro spaziale con separazione di almeno 20 m (cioè uno strumento disponibile, forse, fra una ventina d'anni). Nello spettro di un pianeta situato nella zona abitabile si dovranno cercare, innanzi tutto, le righe dell'ossigeno, visto che tutto l'ossigeno molecolare e l'ozono sulla Terra sono di origine biogenica. Si tratta di un metodo diagnostico potente, il cui solo limite è dovuto alla fotodissociazione dell'acqua, soprattutto nelle particolari condizioni di una continua accrezione di acqua dall'esterno del pianeta, come nel caso della caduta di comete.
Un metodo diagnostico ancora più generale potrebbe essere la ricerca di caratteristiche spettrali legate a un convertitore molecolare capace di trasformare l'energia proveniente dalla radiazione della stella in energia chimica. Sulla Terra questo convertitore è la clorofilla, che genera caratteristiche bande di assorbimento spettrale. L'esplorazione di pianeti candidati, che si trovano in zona abitabile, potrebbe certo fornire righe ben diverse, legate a una differente biochimica, a noi sconosciuta. In questo caso una variazione stagionale di intensità potrebbe indicare un ciclo biologico.
Braccesi 1993: Braccesi, Alessandro - Caprara, Giovanni - Hack, Margherita, Alla scoperta del Sistema solare, Milano, Mondadori, 1993.
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Siti Internet
Missioni planetarie della NASA (www.jpl.nasa.gov/solar_system/).
Missioni ESA (www.esa.int/export/esaSC/index.html).