Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dell’Ottocento la rivoluzione industriale si estende dall’Inghilterra al continente europeo, modificandone radicalmente l’economia. Nuovi settori produttivi vengono allora coinvolti in questo processo che vede l’affermazione del sistema di fabbrica e della produzione su vasta scala, grazie all’adozione di nuove macchine e nuovi modi di produrre e distribuire energia.
La rivoluzione industriale e il sistema di fabbrica
Il processo d’industrializzazione viene identificato con l’affermazione della grande industria, vale a dire con la produzione di massa di beni standardizzati in opifici centralizzati, per mezzo di macchinari che in genere sono azionati da fonti di energia inanimata, come la ruota idraulica o il vapore; e questo trionfo della grande industria è considerato una conseguenza della dinamica di specializzazione e di allargamento che caratterizza i mercati.
Anche i recenti studi sulla manifattura a domicilio, e quindi sulla produzione decentrata, considerano questa fase protoindustriale come uno stadio verso la produzione centralizzata; lo stesso Marx, del resto, ritiene che la specializzazione del lavoro manuale, oltre a consentire aumenti significativi di produttività, segni una tappa decisiva perché, frammentando e atomizzando le varie fasi di lavorazione, rende possibile l’introduzione di macchinari specializzati.
Numerose ricerche empiriche hanno evidenziato la persistente importanza della produzione su piccola scala e le riflessioni teoriche hanno delineato possibili “alternative storiche” alla grande industria, senza però intaccare la visione generale del processo storico codificata dai grandi classici ottocenteschi del pensiero economico. Ci sono del resto ottime ragioni per insistere sull’importanza della fabbrica moderna; infatti, essa sintetizza in modo particolarmente efficace le due forze propulsive della crescita economica moderna: la divisione del lavoro teorizzata da Smith – portata alle estreme conseguenze proprio alla fine del secolo dall’introduzione della catena di montaggio – e l’applicazione su vasta scala delle fonti d’energia inanimata, in quella che è stata definita la nuova “economia a base minerale”, per distinguerla dalla precedente “economia organica”.
Il sistema di fabbrica non costituisce una novità assoluta dell’età industriale. Impianti preindustriali, come il filatoio di seta “alla bolognese”, possedevano già i requisiti per poter essere considerati fabbriche, trattandosi di manifatture centralizzate dove l’essenziale del processo produttivo era svolto tramite macchinari mossi da energia idraulica. Senza dubbio, però, durante la rivoluzione industriale la fabbrica si impone come forma egemone della produzione manifatturiera.
Fabbrica e artigianato: complementarietà e concorrenza
La produzione sulla base del sistema di fabbrica è il tratto distintivo della rivoluzione industriale, ma la sua diffusione a scapito dei precedenti sistemi di produzione non è rapida e universale – come si potrebbe pensare – nemmeno nei Paesi più avanzati dell’Europa nord-occidentale.
In moltissimi settori, fino alla fine dell’Ottocento, la tecnologia e i processi produttivi rimangono pressoché immutati rispetto ai secoli precedenti. Solo negli ultimi decenni del secolo, settori quali l’edilizia, la fabbricazione di mobili, l’abbigliamento e l’industria alimentare vengono trasformati in profondità dall’industrializzazione, grazie all’adozione di nuovi materiali e alla meccanizzazione di alcune fasi del processo di lavorazione. Del resto, anche nei settori di punta della rivoluzione industriale, come il settore tessile o quello siderurgico e metallurgico, l’affermazione della produzione di massa non è affatto un processo uniforme.
Nel settore tessile la filatura viene meccanizzata prima di altre fasi, quale ad esempio la tessitura; infatti nella stessa Inghilterra la tessitura meccanica del cotone ha definitivamente la meglio su quella artigianale solo dopo il 1830 e nel caso della lana dopo la metà del secolo. A causa di queste sfasature cronologiche, è l’avanzata stessa della meccanizzazione a indurre in alcuni settori un aumento della domanda di artigiani tradizionali per certe operazioni. In Inghilterra, ad esempio, il numero di tessitori a mano passa da 90 mila nel 1795 a 270 mila nel 1811, per arrivare a 300 mila nel 1833, per far fronte all’enorme aumento della produttività, dovuta alla meccanizzazione della filatura. Ovviamente, però, la diffusione del telaio meccanico di Cartwright provoca un brusco declino nel numero dei tessitori a domicilio o impiegati nelle manifatture tradizionali.
La diffusione delle macchine e delle nuove fonti di energia non determina un’espansione soltanto in settori artigianali e manifatturieri tradizionali, ma anche nel settore meccanico. Le macchine infatti, protagoniste della produzione meccanizzata su larga scala, vengono prodotte con metodi artigianali tradizionali.
Così, l’enorme aumento della domanda di macchinari di ogni tipo, sia da parte dell’industria manifatturiera che da parte dell’agricoltura, stimola la crescita di nuove specializzazioni e la fioritura di una miriade di piccole officine artigianali per la produzione e la manutenzione del macchinario industriale.
La rincorsa dell’Europa continentale tra progressi e ritardi
Anche se l’affermazione della produzione industriale di massa non è totale nè immediata, nel corso dell’Ottocento la diffusione delle nuove tecnologie rivoluziona i processi produttivi in tutta Europa, determinando una forte crescita degli impianti e delle imprese. Tale diffusione avviene però con tempi e modalità diverse a seconda dei Paesi; il Belgio, la Francia, la Svizzera e la Germania sono tra i primi a essere coinvolti nella trasformazione industriale.
Nella prima parte del secolo, il ritardo dei Paesi più progrediti del continente rispetto all’Inghilterra è ancora molto sensibile, ma le dimensioni delle unità produttive, per quanto modeste, sono in crescita. Il numero medio di fusi presenti negli impianti di filatura del cotone nel cantone di Zurigo passa da 1.900 a 4.800 tra il 1827 e il 1842, mentre tra il 1837 e il 1849 i filatoi di lana prussiani raddoppiano il numero medio di fusi: sono progressi significativi, sebbene ancora lontani dai livelli inglesi.
Anche in campo siderurgico i progressi del continente sono significativi. Nel 1825 gli altiforni francesi producono in media 1.300 tonnellate di ghisa l’anno e 3.400 nel 1846, mentre nel 1823 il Belgio si pone all’avanguardia tecnologica della siderurgia europea con il primo altoforno costruito per essere alimentato con il coke: nel 1830 gli altiforni a coke sono 10 e salgono 23 nel 1836. Più arretrata è invece la Germania che consegue i risultati migliori nel settore metallurgico. Nonostante gli importanti progressi del settore siderurgico, il divario con la Gran Bretagna rimane tuttavia molto sensibile, sia come produzione totale, sia come dimensione degli impianti. Intorno a metà Ottocento, il maggior impianto siderurgico inglese produce 80 mila tonnellate di ferro all’anno, contro le 22 mila del più grande impianto francese e le 16 mila della maggiore impresa tedesca. Anche dal punto di vista tecnico la Gran Bretagna conserva un indiscusso primato con altiforni capaci di produrre in media 90 tonnellate settimanali, contro la media francese che si aggira sulle 18 tonnellate.
Molte sono le difficoltà incontrate dai Paesi dell’Europa continentale nel seguire la Gran Bretagna sulla strada dell’industrializzazione, ma non vi è unanime consenso fra gli storici sull’importanza relativa da attribuire a ciascuna di esse. La frammentazione politica e doganale e una rete di comunicazione meno sviluppata rispetto a quella inglese ostacolano, ad esempio, l’integrazione degli spazi economici. Un’ulteriore difficoltà proviene dalla minore abbondanza di capitali e da una struttura creditizia meno efficiente.
Bisogna inoltre tenere presente che non tutti i Paesi dispongono di adeguate riserve di materie prime fondamentali, in particolare ferro e carbone, e che invece proprio la relativa abbondanza di manodopera a buon mercato può disincentivare la meccanizzazione.
Un ruolo senza dubbio rilevante svolgono inoltre i fattori politici, giuridici e istituzionali e quelli più generalmente culturali. Rispetto al governo inglese, infatti, i governi dei Paesi dell’Europa continentale sono più sensibili alla difesa degli interessi agrari, oltre che preoccupati per le conseguenze sociali e politiche di una classe operaia industriale numerosa.
Comunque sia, al momento della grande Esposizione Universale di Londra del 1851, la Gran Bretagna si merita più che mai il titolo di “officina del mondo”.
La seconda rivoluzione industriale e le nuove tecnologie
Tra la metà dell’Ottocento e la prima guerra mondiale l’economia europea subisce importanti trasformazioni tecnologiche che fanno parlare di una seconda rivoluzione industriale. La stessa geografia industriale, europea e mondiale, si modifica profondamente: i Paesi dell’Europa occidentale affiancano o, in certi casi, superano la stessa Inghilterra, mentre persino alcune regioni dell’Europa centro-orientale e mediterranea – come l’Italia settentrionale e la Boemia – fanno la loro timida comparsa sulla scena europea.
Non è facile riassumere brevemente questa nuova e tumultuosa fase dell’industrializzazione europea; ma, schematizzando un quadro complesso, se è possibile definire la prima rivoluzione industriale, con epicentro in Inghilterra, come la rivoluzione del cotone, del carbone, del ferro e della macchina a vapore, la seconda è la rivoluzione dell’acciaio, della chimica, dell’elettricità e, sullo scorcio del secolo, del motore a combustione interna.
Le invenzioni dei processi Bessemer (1856), Martin-Siemens (1864) e Gilchrist-Thomas (1878) consentono una spettacolare discesa dei costi dell’acciaio e quindi una maggiore utilizzazione di questo materiale, più resistente del ferro e più elastico della ghisa. Nella seconda metà dell’Ottocento, questa disponibilità di acciaio a buon mercato è di fondamentale importanza per tutti i settori dell’economia europea, un’importanza paragonabile forse a quella delle materie plastiche nel nostro secolo. In quindici anni, tra il 1865 e il 1880, la produzione inglese di acciaio quasi quintuplica, arrivando a più di mille tonnellate all’anno; analogo è il progresso della siderurgia tedesca, che passa da 99 mila a 478 mila tonnellate di acciaio, mentre la produzione francese risulta addirittura moltiplicata per otto.
Un nesso particolarmente importante lega la produzione di acciaio all’edificazione del sistema ferroviario europeo: solo tra il 1850 e il 1870, vengono costruiti sul continente circa 70 mila chilometri di strade ferrate, soprattutto in Francia e Germania. La costruzione di ferrovie, che rappresenta evidentemente uno stimolo formidabile per la siderurgia, produce conseguenze incalcolabili sull’integrazione e sull’espansione dei mercati, dando nuovo impulso all’industrializzazione del continente.
A questa seconda fase della rivoluzione industriale appartengono i progressi dell’industria chimica che riguardano il settore degli alcali, destinati al reparto tessile e alla produzione del sapone e della carta, e il settore della chimica organica.
Per gli alcali la tappa fondamentale è l’introduzione del processo Solvay per la produzione di soda. I primi successi della nascente industria chimica organica provengono invece dal settore dei coloranti per tessuti, con la sintesi dei primi coloranti artificiali tra il 1850 e il 1860.
Nell’ultimo scorcio del secolo, un altro settore in grande espansione è quello dei derivati della cellulosa, come l’esplosivo alla nitrocellulosa, le vernici, le pellicole fotografiche e le prime fibre tessili artificiali, quali la viscosa.
Fonti e trasmissione d’energia
Per quanto riguarda le fonti e le forme di trasmissione dell’energia, durante la seconda metà dell’Ottocento l’uso della macchina a vapore ha una forte espansione. In Gran Bretagna si passa da una capacità totale di 1,3 milioni di cavalli-vapore nel 1850 a una di 13,7 milioni nel 1896, in Germania da 260 mila a 8 milioni e in Francia da 270 mila a quasi 6 milioni di cavalli-vapore. Un numero sempre maggiore di macchine a vapore viene utilizzato come forza motrice per locomotori e piroscafi.
Verso la fine del secolo, però, le potenzialità della macchina a vapore cominciano a esaurirsi e sulla scena compaiono nuove fonti di energia, quali il motore a combustione interna e l’elettricità. Nel 1876 è messo a punto il primo vero motore, utilizzabile a combustione interna, ma alimentato a gas; solo con l’adozione di un carburante liquido il motore trova un migliore impiego, anche se fino al Novecento l’elevato costo del petrolio, molto superiore a quello del carbone, ne ostacola la diffusione.
Negli ultimi due decenni dell’Ottocento, l’elettricità deve il suo enorme successo essenzialmente alla sua versatilità come mezzo di trasmissione dell’energia. Il dominio dell’elettricità consente infatti di distribuire, in modo flessibile e capillare, energia prodotta in modo centralizzato.
La prima centrale elettrica pubblica viene creata in Gran Bretagna nel 1881 e la rapida diffusione di questa innovazione trasforma non solo molti aspetti della vita quotidiana, ma anche l’organizzazione della produzione all’interno delle fabbriche, dove uno dei problemi più gravi era stato la trasmissione di energia dalla macchina a vapore o dalla ruota idraulica alla macchina utensile.
Una nuova geografia industriale ed economica
La seconda rivoluzione industriale coincide con la fine del primato inglese in campo industriale; in questa fase, in realtà, non si assiste a un declino in termini assoluti dell’economia inglese, ma altri Paesi si dimostrano più dinamici, primo fra tutti la Germania.
L’economia tedesca riceve un potente impulso dall’unificazione politica, realizzata nel 1870, e in tutti i settori emergenti la Germania sembra dare i contributi più importanti. Uno stimolo notevole alla crescita industriale tedesca viene dalla scoperta e dallo sfruttamento degli immensi giacimenti di carbone della Ruhr, che diventa in breve tempo il cuore industriale del nuovo impero e dove dinastie di imprenditori siderurgici, come i Krupp, danno vita a imprese senza rivali, per dimensioni e capacità tecniche.
Alla fine del secolo, gli impianti siderurgici tedeschi non sono solo in media più grandi di quelli inglesi, ma prevedono l’integrazione delle diverse fasi della produzione, un’integrazione industriale alla quale corrisponde una forte concentrazione sul versante della struttura societaria e organizzativa delle imprese. Se nel 1870 la Gran Bretagna produce il doppio dell’acciaio e quattro volte più ferro della Germania, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale la produzione tedesca dell’acciaio e del ferro è quasi il doppio di quella britannica.
Anche negli altri settori d’avanguardia la Germania è al primo posto: nel settore chimico le grandi imprese tedesche, come Badische Anilin, Höchts e Agfa, conquistano il mercato mondiale e lo stesso avviene nel settore elettrico con colossi industriali come la AEG.
Le ragioni del relativo declino della Gran Bretagna e del successo tedesco sono molteplici e di ordine non solo strettamente economico, ma anche sociale e culturale. Un ruolo fondamentale, infatti, è svolto dal sistema scolastico ed educativo tedesco, in grado di produrre i migliori tecnici e ricercatori d’Europa: nella seconda metà dell’Ottocento, questo diventerà un fattore d’importanza crescente, grazie ai rapporti sempre più stretti e organici fra scienza e tecnologia industriale.
Sul finire dell’Ottocento, non è solo la geografia industriale ed economica europea a cambiare, all’orizzonte si profila infatti una minaccia al primato stesso dell’Europa. A fine secolo, la crescita impetuosa dell’economia americana pone le premesse per quel cambio di leadership nell’economia mondiale che si realizzerà dopo il primo conflitto mondiale.