La grammatica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le ricerche su ciò che oggi chiamiamo “grammatica” appaiono per la prima volta in Grecia nell’ambito della speculazione filosofica sul linguaggio. L’accezione del termine “grammatica” come lo intendiamo oggi non si registrò, però, prima del Medioevo. In origine non esiste né un un modello sistematico di forme grammaticali, né una terminologia grammaticale stabilita. Inizialmente grammatikos indicava “colui che conosce i grammata”, cioè chi sa leggere, dal momento che gramma indica la lettera o, più genericamente, “ciò che è scritto”. In età prealessandrina il concetto si amplia e grammatike (sottinteso techne) indica la teoria dei suoni e delle forme linguistiche, in collegamento con l’esegesi e la critica dei testi (cfr. A. Della Casa, La grammatica, in Introduzione allo studio della cultura classica, Milano, 1973). È nel IV secolo a.C. che si possono registrare gli autentici inizi di una vera e propria indagine grammaticale, quando cominciarono ad essere classificati gli elementi del linguaggio con una terminologia che è rimasta sostanzialmente invariata, passando attraverso la mediazione dei grammatici latini, fino ad oggi. Ma già prima di quel periodo si possono registrare delle osservazioni di ordine filosofico cui può essere attribuita una reale pertinenza nello studio e nella descrizione delle forme linguistiche.
Se diverse importanti osservazioni sul linguaggio possono essere attribuite in generale ai filosofi presocratici, come Eraclito, Parmenide, Democrito, delle osservazioni che oggi definiremmo specificamente grammaticali si trovano in particolare nella riflessione dei sofisti (come Protagora, Gorgia, Prodico di Ceo). La ragione del loro interesse per la grammatica è da individuarsi nel fatto che con la sofistica si afferma l’ideale del ben parlare (eu legein) e della correttezza formale del discorso (orthoepeia). In particolare Protagora è il filosofo che la tradizione considera come l’iniziatore dell’indagine sulla grammatica. A lui Diogene Laerzio (IX, 53-54) attribuisce il merito di aver distinto per primo i tempi del verbo e di aver individuato quattro modi, interpretati già nell’Antichità anche come tipi di proposizioni (desiderative, interrogative, affermative e imperative) e Aristotele (Retorica, III 5, 1407b6) sostiene che egli per primo aveva riconosciuto i tre generi dei nomi. A Prodico, poi, è attribuita una analisi delle strutture sinonimiche e dei rapporti semantici tra le parole (cfr. D. Di Cesare, La semantica nella filosofia greca, Roma, 1980).
Le osservazioni di ordine grammaticale lasciateci da Platone sono contenute sia nel Cratilo (il dialogo che ci ha tramandato anche e soprattutto le sue riflessioni filosofiche sul rapporto tra i nomi e gli oggetti a cui si riferiscono), sia nel Sofista. Nel Cratilo (424c) distinse i suoni (o lettere, stoicheia) in vocalici (phoneenta), da una parte, e in consonantici (aphona) e muti (aphtonga), dall’altra; a questi aggiunse i suoni “che non sono né vocalici (phoneenta), ma neppure muti (aphtonga)”. Inoltre, sempre nel Cratilo (425 a), individuò la dimensione della sillaba come unità in cui potevano essere articolate le parole e indicò come fondamentali due elementi del discorso: il nome (onoma) e il verbo (rhema). Nel Sofista (261e-262d) questi due elementi vengono messi in corrispondenza (e sostanzialmente confusi) con le due nozioni di ordine funzionale, individuabili nel soggetto (quello che concerne chi compie le azioni) e nel predicato (quello che concerne le azioni). Nel Sofista (262d) inoltre è presente una distinzione tra le tre fondamentali determinazioni temporali: passato, presente e futuro.
Complessivamente, tuttavia, se Platone deve essere considerato un innovatore di straordinaria forza teoretica in ambito di filosofia del linguaggio, non altrettanto si può dire di lui riguardo alle idee concernenti la grammatica: da questo secondo punto di vista in lui confluisce tutto quello che la cultura del suo tempo aveva elaborato intorno al problema delle categorie grammaticali.
La ricerca aristotelica rappresenta un notevole progresso rispetto a quella di Platone nell’ambito delle nozioni grammaticali, nonostante che nemmeno il filosofo di Stagira abbia dedicato nessuna opera specifica alla grammatica.
Molto importanti per la sua esposizione delle idee grammaticali sono i capitoli introduttivi del De interpretatione e il problematico capitolo 20 della Poetica. In Aristotele è sempre osservata la differenza essenziale tra conoscenza logica (descritta nella prima delle due opere) e conoscenza linguistica (descritta nella seconda).
Nel De interpretatione Aristotele è impegnato a discutere da un punto di vista logico le mere tou logou (“parti del discorso”): il nome (onoma) e il verbo (rhema), che sono le parti più piccole del discorso dotate di significato, con la differenza tra di loro che la seconda indica in più (prossemainei) il tempo; infine, l’enunciato (logos). Nel capitolo 20 della Poetica la prospettiva cambia e la descrizione concerne le mere tou lexeos (“parti della frase”): lettera (stoicheion), sillaba (syllabe), congiunzione (syndesmos), articolo (arthron), caso (ptosis), nome (onoma), verbo (rhema), logos (“frase, discorso”). Al nome e al verbo viene riservata la funzione basica di essere rispettivamente soggetto e predicato in un enunciato semplice al presente indicativo; la ptosis viene identificata come qualunque modificazione della forma basica, sia dal punto di vista del caso, che del modo (ovvero degli scopi o atti linguistici del discorso), del numero, del tempo, della derivazione. La lista della Poetica comunque mostra come Aristotele stia descrivendo non tanto le classi di parole, quanto piuttosto i segmenti del discorso o della frase, suddividendoli a seconda che siano dotati di significato oppure no.
Le parti del discorso individuate da Aristotele risulterebbero 4: onoma, rhema, syndesmos e arthron. Tuttavia Dionigi di Alicarnasso (De comp. verb., 2 e De vi Demosth. 48), seguito da Quintiliano (I 4, 18) gli attribuisce solo le prime tre, dichiarando che furono gli stoici a distinguere la quarta, l’arthron. Una ragione di questo può essere individuata nel fatto che nella Retorica (III, 5), che è posteriore alla Poetica, Aristotele ricorda solo le prime tre parti.
È infine interessante la distinzione che Aristotele effettua, in particolare nel De anima e nelle opere biologiche, tra le nozioni psophos (“suono”), phone (“voce”), dialektos (“voce articolata”). Lo psophos, in particolare, è un suono che risulta da una percussione tra due oggetti entro un mezzo, come, ad esempio, l’aria (De anima, 419b, 9-13). La “voce”, a sua volta, risulta essere un suono che si produce sotto due condizioni: (i) che venga emesso da un essere animato, il quale sia anche capace di respirare; (ii) che sia associato ad una rappresentazione mentale (phantasia) (De anima, 420b, 29-33). La dialektos, infine risulta essere una “voce articolata attraverso la lingua”: essa è composta da suoni vocalici emessi dalla voce e dalla laringe, mentre le labbra e la lingua sono responsabili dei suoni non vocalici (Hist. anim. 535 a, 30-535b, 3) (cfr. F. Lo Piparo, “Aristotle: The material conditions of linguistic expressiveness”, in G. Manetti, ed., Signs of Antiquity/Antiquity of Signs. Versus 50/51, Milano, 1988).
È generalmente accettato il fatto che la grammatica in senso stretto cominci con gli stoici (cfr. M. Frede, Principles of stoic grammar, in J. M. Rist, ed., The Stoics, Berkeley, Los Angeles and London, 1978). Una considerazione attenta dei fatti di linguaggio è centrale nella scuola stoica, sia dal punto di vista strettamente filosofico, che da quello più propriamente grammaticale. Gli stoici dividevano la filosofia in tre rami: etica, fisica e logica. Suddividevano poi ulteriormente questo ramo in retorica e dialettica. Alla dialettica venivano assegnati due ambiti di studio: il campo dei significanti (topos peri phones) e quello dei significati (topos peri semainomenon). Il campo dell’espressione linguistica (ovvero della “voce” o dei significanti) comprendeva diversi argomenti (D. L., VII, 44): le lettere, le parti del discorso, i difetti della dizione (solecismo e barbarismo), la dizione poetica (eufonia e musica), gli stili, le definizioni, le divisioni, le anfibolie. Il campo poi delle cose significate si suddivideva in due branche: (i) la teoria della rappresentazione (phantasia) e (ii) la teoria dei lekta, ovvero “ciò che è detto da un enunciato o da un predicato”. I lekta si suddividevano in quattro tipi: (i) predicati; (ii) enunciati (assertivi e non assertivi; semplici e composti); (iii) ragionamenti; (iv) sofismi.
L’intera materia che in seguito è stata considerata dai grammatici posteriori sotto un unico titolo, quello della grammatica, veniva suddiviso dagli stoici in due capitoli complementari: alla teoria dell’espressione appartenevano gli studi di fonologia e di morfologia; alla teoria del significato apparteneva lo studio dei casi, dei predicati, del tempo, del modo, della voce (ovvero della diatesi), della costruzione (ovvero della sintassi).
Gli stoici, come del resto tutti i filosofi greci che si sono occupati dell’argomento, consideravano il linguaggio come una gerarchia di livelli. Al livello più basso essi collocavano la phone (“suono, voce”) definita come “aria percossa oppure l’oggetto della sensazione propria dell’udito” (D. L. VII, 55). Si può riscontrare una differenza a seconda che la phone sia la voce di un animale, nel qual caso è soltanto aria percossa per un semplice impulso naturale, oppure una voce umana, in tal caso è articolata ed emessa dal pensiero. Ad un livello superiore veniva collocata la lexis (“espressione”), che veniva definita come una voce articolata in lettere (phone engrammatos), di cui è esempio “giorno”. La differenza tra phone e lexis consiste nel fatto che la prima è un semplice suono, mentre la seconda è sempre articolata. A sua volta l’espressione può essere dotata di significato, oppure semplicemente articolata, ma sprovvista di significato, come la parola blityri, che è una espressione non prevista dal codice della lingua greca. Quando un’espressione è dotata di significato, viene definita come logos, collocandosi, così, al terzo livello (cfr. J. Pinborg, “The Beginnings of Grammar”, in Th. A. Sebeok, ed., Current Trends in Linguistics, The Hague-Mouton, 1975).
Gli stoici, in linea con l’impostazione aristotelica, e in contrasto con la grammatica alessandrina, consideravano i suoni come prioritari rispetto alle lettere e fornivano una tripartizione del significato di gramma (“lettera”): (i) stoicheion (“elemento”, “suono” o “fonema”), ad esempio /a/; (ii) charakter (“carattere” o “ “simbolo scritto”), come ad esempio a; (iii) onoma (“nome”), ad esempio “alpha”. Nella loro analisi fonetica essi giunsero a fissare in numero di ventiquattro le lettere dell’alfabeto greco.
Per quello che riguarda le parti del discorso, Zenone e Cleante sembra che ne abbiano riconosciute quattro; in seguito ne venne aggiunta una quinta: (i) nome, che Crisippo suddivise in onoma (“nome proprio”) e prosegoria (“nome comune”); (ii) verbo (rhema, se considerato all’infinito; negli altri modi definito come kategorema o symbama); (iii) congiunzione (syndesmos), che includeva anche le preposizioni; (iv) articolo (arthron), che includeva anche i pronomi e i dimostrativi; (v) avverbio (epirrhema o mesotes), parte che viene attribuita allo stoico più tardo, Antipatro.
In ambito morfologico gli stoici furono i primi a fornire uno studio dettagliato delle declinazioni e dei casi. Risultati molto importanti vennero raggiunti nel campo dello studio del tempo. Essi divisero innanzitutto i tempi in definiti (chronoi horismenoi) e in indefiniti (chronoi aoristoi), fornendo una ulteriore classificazione interna a queste due categorie. Si è a lungo discusso anche se il sistema temporale proposto dagli stoici fosse consapevolmente basato sulla categoria dell’aspetto e sono state date risposte diversificate a questa questione.
Un campo in cui gli stoici si impegnarono approfonditamente fu lo studio dell’etimologia, partendo dal presupposto che i termini linguistici esprimono i concetti delle cose, per cui è sempre possibile risalire all’indietro nell’origine delle parole fino a che non si arrivi al punto in cui il suono della parola corrisponde all’oggetto da essa indicato.
Agli stoici può essere attribuito il grande merito di aver stabilito una complessa e matura terminologia grammaticale, che venne sostanzialmente accolta nella Techne grammatike attribuita a Dionisio Trace, che, a sua volta è alla base della moderna grammatica normativa.
Nell’antichità si svilupparono all’interno della schiera degli studiosi dei fatti di linguaggio due correnti: da una parte c’erano coloro che ritenevano che la lingua fosse organizzata (e, secondo una variante spesso associata alla tesi generale, nata) secondo un principio convenzionale (o di accordo tra gli uomini, nomo o thesei); dall’altra c’erano coloro che ritenevano che le espressioni linguistiche rispecchiassero la natura delle cose (physei).
In ambito grammaticale coloro che ritenevano il linguaggio frutto di convenzione aderivano ad una concezione per cui le espressioni linguistiche erano organizzate sistematicamente secondo un principio di analogia e per conseguenza vennero definiti “analogisti”. Alla scuola degli analogisti vennero ascritti soprattutto i grammatici alessandrini e, in particolare, Aristofane di Bisanzio (277-180 a.C.) e Aristarco di Samotracia (217/15-145/43 a.C.). A quest’ultimo è attribuita anche una classificazione delle parti del discorso in otto unità: (i) nome (onoma); (ii) verbo (rhema); (iii) participio (metoche); (iv) articolo (arthron); (v) pronome (antonymia); (vi) preposizione (prothesis); (vii) avverbio (mesotes); (viii) congiunzione (syndesmos) (cfr. G. Manetti, “Aristarchus”, in H. Stammerjohann, ed., Lexicon Grammaticorum. Who’s Who in the History of World Linguistics, Tübingen, 1996).
Coloro che invece aderivano alla posizione naturalista sostenevano che i fenomeni linguistici non rispondevano a regole grammaticali determinate; questi ultimi presero il nome di “anomalisti”. Aderivano a questa posizione in particolare gli stoici di Pergamo. La tradizione vuole che sia stato soprattutto Cratete di Mallo, probabilmente allievo dello stoico Diogene di Babilonia, a difendere, contro Aristarco e gli analogisti, questa posizione, schierandosi contro le regole grammaticali e considerando la lingua come un capriccio dovuto all’uso. A lui spetta il merito di aver introdotto lo studio della grammatica a Roma durante un soggiorno nel 170-169 a.C. e di aver posto le basi per gli importanti sviluppi successivi. La polemica tra le due posizioni ebbe nella cultura romana un grande successo e diffusione nel I secolo a.C., protraendosi anche nel secolo successivo.
Un importante rappresentante della scuola di Alessandria fu Dionisio Trace. A lui la tradizione ha attribuito un celebre manuale di grammatica, la Techne grammatike, che era destinato a divenire il modello di tutte le opere di grammatica normativa dall’antichità ai giorni nostri. Esso costituisce anche il più antico testo grammaticale della tradizione occidentale. È tuttavia possibile che solo una parte (quella introduttiva) di questo manuale sia autenticamente attribuibile a Dionisio e databile intorno al 100 a.C. La parte più specificamente tecnica è stata considerata una aggiunta del IV secolo (cfr. Di Benedetto, Dionisio Trace e la Tecne a lui attribuita, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, ser. 2, XXVII e XXVIII, 1958/9). Dionisio non definisce la grammatica come una episteme (“scienza”), ma come una empeiria (“conoscenza empirica”), riferita alle espressioni linguistiche dei poeti e degli scrittori in prosa; viene suddivisa in sei parti: (i) la lettura, con particolare riguardo alla prosodia; (ii) la spiegazione dei principali tropi poetici; (iii) la conservazione e l’interpretazione degli usi linguistici antichi e degli esempi mitologici; (iv) lo studio dell’etimologia; (v) il calcolo degli schemi analogici regolari; (vi) il giudizio critico-estetico delle opere letterarie, che viene considerato la parte più nobile della disciplina. Nessuna di queste parti, ad eccezione forse della quinta, è strettamente tecnica. Tuttavia il resto dell’opera che ci è rimasta discute esclusivamente aspetti di questo genere (ed è questo uno degli elementi che hanno indotto a mettere in dubbio l’autenticità di questa parte). In essa vengono discussi gli elementi che consentono una classificazione regolare, come le lettere e le parti del discorso (o categorie lessicali). Nel testo vengono presentate otto parti del discorso, definite non più in termini di contenuto semantico ad esse associabile, ma con dei criteri formali, cioè in termini di morfologia e di posizione sintattica (ed è questa la grande novità di questa parte dell’opera), facendo riferimento solo in un secondo momento, e non sempre, alla dimensione del significato; così, ad esempio, il nome si definisce come “quella parte che si flette secondo il caso”, mentre il verbo come “quella parte che si flette secondo il tempo, la persona, il numero” ecc. La lista completa delle parti del discorso individuate è la seguente: onoma (“nome”); rhema (“verbo”); metoche (“participio”); arthron (“articolo”); antonymia (“pronome”); prothesis (“preposizione”); epirrhema (“avverbio”); syndesmos (“congiunzione”) (cfr. J. Lallot, La grammaire de Denys le Thrace, tr. et comm., Paris, 1989).
La grammatica di Dionisio Trace contiene anche un’analisi delle categorie secondarie che accompagnano (parepomena) le varie parti del discorso (genere, numero, caso, funzione dei casi, per il nome; modi, voce, tipo, forma, numero, persona, tempo e coniugazione, per il verbo).
Tuttavia la grammatica attribuita a Dionisio presenta una importante lacuna, in quanto non dedica nessuna trattazione alla sintassi. Questa parte è stata sviluppata nel II secolo d.C. da Apollonio Discolo e il suo è l’unico trattato greco che ci è stato tramandato su questo tema.
La grammatica penetra nel mondo latino attraverso fonti stoiche. Queste influenzano profondamente Varrone (116-27 a.C.), il primo importante autore latino che tratta tematiche grammaticali. Della sua fondamentale opera grammaticale, De lingua latina, in 25 libri, sono giunti a noi solo i sei libri che vanno dal quinto al decimo. L’opera era divisa in tre parti, che seguivano un libro introduttivo: l’etimologia (libri 2-7), la morfologia (8-13), la sitassi (14-25).
Riflettendo sulla natura generale del linguaggio, Varrone ritiene che la lingua nasca da un numero limitato di parole, assegnate originariamente alle cose e si sviluppi attraverso mutamenti fonetici e semantici. La morfologia in entrambe le sue forme – flessione (declinatio naturalis) e derivazione (declinatio voluntaria) – è considerata come un fattore estremamente importante di produttività linguistica. È infatti la morfologia che rende possibile la produzione e la comprensione di un infinito numero di forme che partono da un gruppo finito di parole (fatto che pone Varrone sullo stesso percorso che avrebbe in seguito portato ad Humboldt). Varrone sembra anche essere consapevole del principio di economia che, secondo Martinet, caratterizza le lingue naturali (cfr. W. Belardi, Filosofia, grammatica e retorica nel pensiero antico, Roma, 1985).
Uno degli aspetti moderni di Varrone è dato dal fatto che egli dedica attenzione ai fattori sociali e pragmatici del linguaggio, sulla base del differente sviluppo di specifiche aree lessicali in relazione agli interessi culturali di una particolare società. Infine nella sua teoria delle parti del discorso Varrone distingue quattro classi basilari (il nome, il verbo, il participio e l’avverbio), definendole in termini formali (cfr. J. Collart, L’oeuvre grammaticale de Varron, in Varron. Grammaire antique et stylistique latine, Paris, 1978).
Tra gli autori latini che seguono Varrone il primo ad aver scritto un vero e proprio trattato di grammatica è Remmio Palemone (5?- 65 d.C.), il maestro di Quintiliano. Nella sua Ars grammatica (andata perduta, ma ricostruibile sulla base di fonti antiche) Palemone assume una posizione antitetica a quella di Varrone, seguendo gli alessandrini e soprattutto Dionisio Trace. Inizia la trattazione con una considerazione della vox, distinta in articulata e confusa. Trattando poi dell’alfabeto, stabilisce che esso consta di 23 lettere, 5 vocales, 7 semivocales e 9 mutae, più le due lettere greche y e z. Le sillabe vengono considerate come originantesi da una lettera e da una vocale; dalla sillaba si passa alla parola (dictio) e dalle dictiones si passa alla oratio. Le parti del discorso che risultano distinte nell’Ars di Palemone (sia che fossero tratte da un autore precedente, come probabilmente Aristarco o da lui per la prima volta introdotte in ambito latino) sono otto: nomen, pronomen, verbum, participium, adverbium, coniunctio, praepositio, interiectio (cfr. K. Barwick, R. P. und die römische Ars grammatica, Leipzig, 1922; F. Desbordes, “Quintus Remmius Palaemon”, in H. Stammerjohann, ed., Lexicon Grammaticorum. Who’s Who in the History of World Linguistics, Tübingen, 1996).
Prisciano è l’ultimo grande grammatico latino (500 d.C. ca.). Originario di Cesarea (Mauritania), ma vissuto a Bisanzio, dove insegna il latino a scolari di lingua greca. Il suo tentativo di adattamento della grammatica di Dionisio Trace alla lingua latina, effettuato nella ponderosa opera Institutio de arte grammatica, in 18 libri, gode di grande successo in tutto il Medioevo.
Nel campo della fonologia egli considera la lettera dell’alfabeto (littera) la più piccola parte del linguaggio articolato e ritorna alla distinzione di origine stoica tra la forma scritta della lettera (figura), il suo valore fonetico (potestas) e il suo nome (nomen). Nel campo della morfologia definisce la parola (dictio) come la più piccola unità nella struttura della frase (oratio), e la frase come l’espressione di un pensiero completo.
Il numero delle parti del discorso risulta di otto unità, come nella grammatica di Dionisio Trace, ma le modifiche introdotte precedentemente dai grammatici latini vengono nella sua opera definitivamente codificate: la classe corrispondente all’articolo, che in latino non esiste, scompare mentre viene codificata l’introduzione della classe delle interiezioni, che i Greci avevano incluso nel gruppo degli avverbi. Prisciano, influenzato sia dalla grammatica alessandrina che da Aristotele, mischia criteri formali e contenutistici nelle sue definizioni (ad esempio il verbo è definito non solo come la parte del discorso che “indica un’azione o il patire un’azione”, ma anche la parte che “ha forme del tempo e del modo, e non è flesso secondo il caso”. Per la sintassi Prisciano attinge dai modelli greci, soprattutto da Apollonio Discolo, perché i grammatici latini precedenti non hanno saputo centrare il sistema sintattico sul concetto di proposizione, come invece era stato il caso dei grammatici greci (cfr. M. Baratin, La naissance de la syntaxe à Rome, Paris, 1989).