La Germania che abbiamo amata
La Germania che abbiamo amata è il titolo di un famoso scritto crociano pubblicato originariamente nella rivista bernese «Die Nation» nell’agosto del 1936. Ma non è, ovviamente, soltanto questo. L’occasione materiale (tuttavia già fortemente simbolica) per la stesura del contributo era stata provocata da un episodio che aveva particolarmente indignato Croce: la sostituzione dell’iscrizione sul frontone dell’Università di Heidelberg, dedicata in origine Allo Spirito vivente, ma poi ridedicata Allo Spirito tedesco. Ciò era interpretato dal filosofo come un segnale ulteriore delle tendenze naturalistiche e razzistiche incorporate nel regime hitleriano. Lo scritto, a partire dal suo titolo fortemente evocativo e destinato a vasta fortuna, esprimeva e condensava, attraverso parole scelte con cura e cariche di significato, il lungo e complesso tragitto di Croce rispetto alla Germania: dalla vicinanza alla lontananza. Si era molto amata la Germania, sino alla «germanofilia»; ma ora – e ciò significa: nel mezzo della dittatura nazista – non la si poteva, né la si doveva, più amare. Ma quale Germania si era amata?
La testimonianza più probante dell’antico amore di Croce per questo Paese va rintracciata nelle Pagine sulla guerra (1919), che riuniscono i cosiddetti saggi di guerra, scritti dal filosofo durante il primo conflitto mondiale. Essi attestano infatti un atteggiamento stabilmente positivo nei confronti della Germania, che percorre come un filo rosso gli interventi crociani anche al di là delle diverse posizioni che il filosofo prese rispetto alla guerra (dal neutralismo dei primi mesi sino al sostegno leale e convinto delle decisioni di politica estera assunte dall’Italia nel 1915). Proprio questo passaggio era per Croce particolarmente problematico, perché non si limitava al pur fondamentale ribaltamento delle alleanze, ma implicava anche l’allestimento di fronti militari non più coincidenti con quelli spirituali.
Questo atteggiamento amichevole nei confronti della Germania, questa germanofilia, a voler riprendere il grido di accusa lanciato nella stampa italiana dagli avversari di Croce e in qualche modo accettato dal filosofo – «e io fui germanofilo, o fui chiamato così» (Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, 1944, p. 5) – gettava le sue radici nel territorio delle convinzioni culturali e scientifiche, che portavano a valorizzare la giustezza e la vitalità di tutta una tradizione filosofica italiana di impronta idealistico-hegeliana, sulla cui base, e molto prima della guerra, era andata appunto fondandosi, fra Italia e Germania, un’alleanza non politico-militare, bensì spirituale:
Ma io sono un modesto discendente e prosecutore di quella scuola napoletana, che si formò prima del 1848 e che ebbe a suoi capi Francesco de Sanctis e Bertrando Spaventa, la quale procurò di affiatare il pensiero e gli studî italiani con la scienza germanica. Quella scuola ha dato frutti assai importanti e, per mia parte, non saprei rinunziarvi (Pagine sulla guerra, raccolte da G. Castellano, 1919, p. 64).
L’affiatamento riguardava anche e soprattutto il modo di considerare la storia e lo Stato. La Germania e la cultura tedesca insegnerebbero infatti a guardare alla storia con occhi nuovi e come ripuliti, rifiutando utopismo, umanitarismo ed eudemonismo, aborrendo giustamente l’egalitarismo e il democratismo, e stringendo viceversa stretti legami con una considerazione realistica e storicistica della vita storica. Analoghi insegnamenti potrebbero trarsi dal modo tedesco di guardare allo Stato:
La teoria dello Stato come potenza, e della vita dello Stato come lotta per l’esistenza, non giustifica in nulla i raccapricci che innanzi ad essa provano le anime timorate: salvo che non si voglia considerare raccapricciante un’inesorabile proposizione di aritmetica o un teorema di economia politica, ossia un’osservazione scientifica. Per dire la cosa in breve e in termini popolari, la storia (nonché la logica stessa della vita) mostra che gli Stati e gli altri aggruppamenti sociali sono tra loro perpetuamente in lotta vitale per la sopravvivenza e per la prosperità del tipo migliore; e uno dei casi acuti di questa lotta è ciò che si chiama la Guerra. Quando la guerra scoppia (e che essa scoppî o no, è tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assestamento tellurico), i componenti dei varî gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della patria, per sottomettere l’avversario, o limitarne la potenza, o soccombere gloriosamente, gettando il germe di future riscosse. Solo a questo modo l’individuo è giusto, sebbene, a questo modo, giusto sia anche il suo avversario; e, per questa via, giusto sarà, per un tempo più o meno lungo, l’assetto che si formerà dopo la guerra […] e solo una falsa ideologia, un sofisma da letteratucci, può tentar di surrogare a questi concetti semplici e severi la ideologia del torto e della ragione, della guerra giusta e della guerra ingiusta. [...] Se fosse possibile stabilire a priori la ragione e il torto, e a priori trovare l’assetto nel quale i popoli debbono di volta in volta collocarsi per adempiere l’opera della civiltà, Roma e Cartagine starebbero ancora a discutere intorno ai rispettivi diritti: anzi i Romani discuterebbero ancora, circa i confini e il reciproco procedere, coi Sabini, coi Fidenati e coi Veienti! (pp. 86-88).
Non a caso, le Pagine sulla guerra sono il libro dove si legge la famosa definizione degli Stati come «Leviatani»: «colossali esseri viventi dalle viscere di bronzo», posti molto più in alto «del nostro tenero cuore», che è quello degli individui privati; esseri viventi che avrebbero quindi
buone e profonde ragioni di guardarsi in cagnesco, di addentarsi, di sbranarsi, di divorarsi, visto e considerato che solo così si è mossa finora, e così sostanzialmente si moverà sempre, la storia del mondo (p. 166).
Le Pagine sulla guerra conobbero una tempestiva traduzione tedesca attraverso lo storico dell’arte viennese Julius von Schlosser, che giocò un ruolo importante nel rapporto di Croce con la Germania e con i Paesi di lingua tedesca. Caldo ammiratore del filosofo napoletano, con cui intrattenne un carteggio pluridecennale, Schlosser si distinse anche nel tentativo di diffonderne le opere e il pensiero. È in questa prospettiva che vanno inquadrate le traduzioni schlosseriane di Croce, tra cui quella delle Pagine sulla guerra, che apparvero – su iniziativa di Schlosser – con un titolo completamente cambiato e in realtà (forse volutamente) indebolito: Randbemerkungen eines Philosophen zum Weltkriege («Note marginali di un filosofo sulla guerra mondiale»). Attraverso questa traduzione tedesca Schlosser si era inizialmente augurato di poter contribuire in modo decisivo all’incremento della diffusione e dell’influenza di Croce in Austria, Germania e Svizzera. Ma, come del resto da lui stesso ammesso in più di un’occasione, questa speranza non trovò pieno riscontro nei fatti. Il contesto dell’operazione era però (e tale esso resta anche per l’osservatore odierno) estremamente interessante: la traduzione tedesca, attraverso uno studioso austriaco, dei «saggi di guerra» di uno dei più importanti rappresentanti (se non del più importante in assoluto) della cultura d’Italia, cioè di una delle potenze vittoriose nella guerra contro gli imperi centrali. Al che bisognava ancora aggiungere che, proprio nel periodo della traduzione, Croce venne a ricoprire anche il ruolo di ministro dell’Istruzione, che si sommava a quello più antico di senatore del Regno. Ma questo ministro e rappresentante dell’Italia come potenza vincitrice era pur stato «germanofilo» e «triplicista», il che contribuiva non poco a rendere il contesto dell’operazione ancora più multiforme e complesso.
La proposta di nomina di Croce a membro onorario dell’Accademia viennese delle scienze va inserita nel medesimo quadro. Tale proposta, presentata da Schlosser in qualità di primo firmatario, fu poi dal medesimo ritirata, viste le resistenze interne, che molto lo irritarono. Vale però egualmente la pena di ricordare il giudizio altisonante che vi si legge sull’importanza mondiale del filosofo napoletano. Le generazioni a venire – scriveva infatti Schlosser – «riconosceranno proprio in Croce, e non in Bergson, pensatore snob e alla moda a lui talvolta esteriormente vicino, il filosofo del XX secolo». Aggiungendo che, però,
stranamente la filosofia di Croce è poco conosciuta proprio in quella che può essere considerata come la sua vera patria, ossia la Germania, malgrado Karl Vossler l’abbia qui più volte approfonditamente discussa (Randbemerkungen eines Philosophen zum Weltkriege. 1914-1920, mit Genehmigung des Verfassers, übersetzt von Julius Schlosser, 1922, pp. 334-35).
La stessa problematica verrà affrontata da Schlosser anche quattordici anni più tardi, in un contributo per il settantesimo compleanno di Croce pubblicato sulla rivista d’arte austriaca «Belvedere». Schlosser ritorna qui sul doppio registro delle sue argomentazioni: da un lato l’importanza mondiale della figura di Croce, interpretabile anche come culminazione di una lunga tradizione filosofica napoletana e meridionale (Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giambattista Vico); dall’altro, e in contrasto e contraddizione con ciò, «il disinteresse, talvolta addirittura la completa ignoranza dei tedeschi», fatte salve talune poche eccezioni, tra cui la più rilevante, quella di Karl Vossler.
Quasi l’unico che è intervenuto per Croce in Germania, ma che (come del resto Croce stesso) non può certo dirsi un filosofo “della corporazione”, è il suo (e mio) illustre e caro amico Karl Vossler a Monaco (pp. 349-61).
Bisogna a questo punto gettare uno sguardo al rapporto intercorso fra il filosofo napoletano e il filologo di Stoccarda, il che è peraltro ineludibile, ragionando di Croce e della Germania, poiché nella vita di Croce fu proprio Vossler, molto più di Schlosser, a giocare il ruolo di ponte verso la Germania e il mondo tedesco, come attesta del resto in modo chiarissimo il loro epistolario, estesosi lungo un cinquantennio. Un epistolario che non solo è ricco di testimonianze di stima e di vicendevole amicizia, ma dal quale traspaiono anche momenti di difficoltà e di tensione, com’è per es. proprio nel caso della Prima guerra mondiale. Vossler si lamenta con Croce dell’atteggiamento italiano verso la Germania:
Ma ora posso sfogarmi più a lungo e debbo dolermi prima di tutto delle calunnie e di ogni genere di notizie false che si spargono in Italia sul conto nostro. Non avrei creduto possibile che due popoli alleati potessero perdere a tal punto e in così poco tempo ogni contatto morale e politico. Da noi si sta svolgendo il più grandioso spettacolo di risveglio di una nazione di settanta milioni, tutti uniti, senza eccezione, dall’imperatore fino all’ultimo poveraccio, si fondono le idee del socialismo moderno con quelle antiche del feudalesimo militare, si organizzano misure colossali di soccorso, si vive ognuno per tutti, per la patria – ed a tutto ciò in Italia si chiude gli occhi, per spalancare invece tanto d’orecchia alle frasi umanitarie ed al falso sentimentalismo dei francesi (Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, 1991, p. 185).
Nell’auspicare che in Italia si facciano finalmente udire voci favorevoli alla Germania, la parte conclusiva della lettera di Vossler assume quasi il carattere di un’accusa personale a Croce:
È mai possibile che non ci si trovi una voce, una penna in Italia che faccia sentire un poco queste cose al vostro pubblico? I soli che abbiano detto qualche parola in favore nostro sono, per quello che io so, il «Popolo Romano» e l’amico De Lollis. Vedi un poco se la «Voce» o qualche altro giornale non inquinato da quattrini e frasi francesi, si vuol incaricare di mettere le cose a posto. Appunto perché siamo qualche cosa di meglio che dei bruti, ci importa molto dell’opinione pubblica dei popoli rimasti neutrali (p. 185).
Complice anche una lunga interruzione dell’epistolario, la risposta di Croce sta in due lettere del luglio 1919, particolarmente importanti per il nostro discorso anche perché il filosofo italiano può ormai appoggiarsi alle Pagine sulla guerra, da poco pubblicate. Nella prima (22 luglio) si legge quanto segue:
Vedo che tu sei pochissimo informato di quel che è accaduto fuori di Germania durante la guerra. Per mezzo del capitano De Luca ti spedisco il volume in cui ho raccolto fin le minime cose che ho avuto occasione di scrivere in quel tempo. Vedrai che non c’è nulla di quanto hanno riferito i giornali. C’è invece la più salda e ferma difesa della cultura tedesca, e per questo mio atteggiamento sono stato ingiuriato durante quattro anni! Forse differiamo in un sol punto: e lo vedrai dal libro stesso. Io non mi sono mai collocato au dessus de la mêlée; ma ho stimato dovere di coscienza di non falsificare mai la scienza e la storia per un presunto dovere patriottico. Come dicevo agli amici, anche le donne debbono dare tutte se stesse alla patria; ma non perciò fare le Giuditte, cioè le meretrici per la patria. […] Forse hai peccato tu pure? Non so (pp. 209-10).
Già il giorno seguente, Croce avvertiva il bisogno di riprendere il colloquio:
Ieri ti parlavo di politica, cioè del mio atteggiamento durante la guerra. Ma il libro che ti ho inviato di Pagine sulla guerra ti renderà chiari il mio pensiero ed il mio animo, e son sicuro che per nessun verso ti spiacerà. Del resto, ho tanto profondamente sofferto durante la guerra per le sorti del mio paese da essere in grado di risentire il dolore dei tedeschi. Ma io sono persuaso, come tutte le persone savie, che la Germania si riavrà più presto di quanto altri crede, e riprenderà ad esercitare una benefica efficacia nella vita europea. [...] Niente di veramente essenziale è perduto e meno di tutto l’onore. E la storia è irrequieta, e piena di sorprese: tu lo sai. Intanto, noi individui cerchiamo di condurci nel modo migliore e lasciamo che lo spirito del mondo spieghi la sua logica intricata e nascosta! (pp. 211-12).
La replica di Vossler, affidata a una lettera del novembre dello stesso anno, è conciliante. Questa lettera è di particolare interesse anche per la sua parte conclusiva, in cui Vossler – in coerenza con uno degli aspetti principali dell’epistolario con Croce, che è quello della vicendevole informazione sulle novità culturali d’Italia e di Germania – parla di un nuovo libro, per lui affascinante. L’autore è un outsider ormai sulla bocca di tutti, ma sino a poco prima completamente sconosciuto – un autore che, insieme con altri e più di altri, rappresenterà presto per Croce una funzione simbolica negativa, essendo proprio lui destinato a incarnare la Germania che si era in procinto di non poter più amare. Si trattava di Oswald Spengler:
Intanto sto leggendo un grosso libro tedesco, estremamente interessante e brillante, che ti devi assolutamente procurare, perché è tra le cose più singolari che da lungo tempo siano state scritte in Germania sulla scienza storica e il pensiero storico: Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, 1918, ora nel 1919 già alla quarta edizione presso Beck a Monaco. Diverse cose ti piaceranno molto, altre ne rifiuterai, al pari di me, perché naturalismo mistico. Resta tuttavia un libro molto interessante, mezzo geniale e mezzo da dilettante, dal quale si ricevono forti nuovi stimoli. L’autore è un libero studioso, che vive a Monaco, ma che purtroppo non conosco personalmente. Del resto non posso dare un giudizio definitivo perché sinora ho letto solo la metà delle seicento pagine del primo volume; il secondo dovrebbe uscire soltanto fra qualche anno (p. 243).
La reazione del filosofo napoletano alla lettura del volume consigliatogli non andò, però, nella direzione del suo informatore, poiché, al contrario, essa fu subito decisamente negativa, com’è testimoniato da una lettera, sempre a Vossler, del dicembre 1919:
Sto leggendo lo Spengler, e ti confesso che mi duole la fortuna che libri come questi – antimetodici, fuori di ogni tradizione scientifica, pieni della pretesa di scoprire il nuovo (e le loro scoperte sono invece cose vecchissime), pieni di fantasticherie somministrate come risultati scientifici – che, dicevo, libri come questi, i quali si uniscono a quelli del Chamberlain e compagni, hanno in Germania. La Germania ha tale ricchezza di concetti filosofici e storiografici che dovrebbe subito far giustizia di queste ampollose stravaganze, inutili alla scienza ma perniciose alla vita (p. 249).
L’anno seguente Croce pubblicava la sua celebre stroncatura dello Untergang des Abendlandes, dove sul profeta del tramonto cadono le accuse di naturalismo, determinismo, pessimismo. Di contro all’organologia spengleriana, Croce vi sostiene che «la realtà è spiritualità e creatività, e non si lascia opprimere da concezioni naturalistiche, che si rivolgono sempre in fantastiche e pessimistiche» («La Critica», 1920, 18, pp. 236-39). Il giudizio di Croce sarà poi ancora più severo nell’altrettanto tempestiva recensione a Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens (1931), il piccolo e aggressivo «contributo a una filosofia della vita» dove, oscillando fra storia universale e antropologia filosofica, Spengler annunciava la sua concezione dell’uomo come animale da preda. «Senza un’alta e piena coscienza dell’umanità, senza un robusto e delicato sentire morale» – così affermava Croce nell’incipit della nuova recensione – «non si fa “filosofia della storia” né “storia dell’umanità”» («La Critica», 1932, 30, pp. 57-60).
Spengler appare così come il prototipo intellettuale della Germania che non si può più amare. I falsi presupposti della sua pseudofilosofia – biologismo, naturalismo, determinismo, il pessimismo a tutto ciò necessariamente collegato – corrisponderebbero in pieno alla crisi più generale del pensiero tedesco nel suo complesso. Libri come Der Untergang des Abendlandes – scrive Croce nella sua seconda recensione – sono senz’altro sintomi del tramonto, tuttavia non dell’Occidente, bensì della vita spirituale della Germania.
Nello stesso anno della distruttiva recensione allo Untergang des Abendlandes, Croce ne pubblicava però anche una, favorevolissima, alle Betrachtungen eines Unpolitischen (1919) di Thomas Mann. Anche di questa bisogna afferrare il significato simbolico: di contro a Spengler, già rappresentante di una Germania che non si può più amare, Mann è polarmente innalzato al ruolo di una Germania che bisogna continuare ad amare. Ma anche di più, considerato che questo amore per la Germania ‘buona’ rappresentata da Mann – che in realtà, all’altezza delle Betrachtungen, non era per nulla tale – sta addirittura sotto il segno dell’identificazione. Un’identificazione che balza evidente già dalle prime battute della recensione, allorché, presentando l’opera dello scrittore tedesco, Croce afferma che si tratta di
pagine scritte durante la guerra dal celebre romanziere, autore di Buddenbrooks. Pagine scritte ‘a forza’, per non potere fare altrimenti, com’è accaduto anche a qualcun altro in questi anni («La Critica», 1920, 18, pp. 182-83).
Il che evidentemente significava collegare e stringere la parentela proprio fra le pagine recensite e le proprie Pagine sulla guerra. Una parentela, però, giocata ancora sul piano del comune conservatorismo e di una concezione talmente aspra e realistica della storia da risultare in seguito scomoda.
Di questa scomodità si può ricavare una prova attraverso la storia dei testi qui venuti in discussione. La traduzione tedesca delle Pagine sulla guerra possiede un’appendice, autonomamente organizzata da Schlosser, in cui questi riunì alcuni brevi contributi crociani che avevano visto la luce dopo la pubblicazione della prima edizione italiana. Tra questi, le due recensioni allo Untergang des Abendlandes e alle Betrachtungen eines Unpolitischen. L’idea dell’appendice piacque a Croce, che volle inserirla, ulteriormente ampliata da altri brevi scritti, nelle edizioni successive delle Pagine sulla guerra (1928 e 1950). Tra questi scritti, non manca la recensione al Tramonto dell’Occidente. Ma quella alle Considerazioni di un impolitico il lettore la cerca invano.
Il forte interesse di Croce per Mann non si limitò alla fase delle Betrachtungen, ma si estese per decenni, prolungandosi sino agli ultimi anni della vita del filosofo napoletano. L’episodio più importante, anche dal punto di vista simbolico, di questo lungo interesse è la dedica allo scrittore lubecchese della Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), con la sua terzina dantesca tratta dal XXIII canto dell’Inferno («pur mo veniano i tuo’ pensier tra i miei…»). Le parole che qui Virgilio (Croce) rivolge a Dante (Mann) sono parole pronunciate nel momento del pericolo estremo, allorché i due poeti – «taciti, soli, sanza compagnia» – sono inseguiti dai demoni della quinta bolgia. Nella prospettiva di Croce, queste parole vogliono siglare un’alleanza stretta in nome della «nobiltà dello spirito» e contro i presupposti culturali dei fascismi, cioè contro quelle tendenze irrazionalistiche e naturalistiche che indebolirono l’organismo dello spirito europeo sino al punto della sua malattia e patologia. La vicinanza di questa patologia con la regione del demonico sarà tematizzata a fondo e illustrata da Mann nel Doktor Faustus (1947), anch’esso inaugurato da un’ouverture dantesca («lo giorno se n’andava e l’aer bruno…»). Mann fu molto contento della dedica, come si ricava dal breve epistolario intercorso fra i due grandi personaggi a cavallo dell’iniziativa crociana:
Io non voglio parlare dell’onore che Lei mi concede con la dedica del Suo saggio, un onore che in tutto il mondo sarà sentito come qualcosa di grande e di bello, ma sottolineare la gioia suscitata in virtù di una simpatia che unisce in questi nostri tempi bui un numero di spiriti dotati di buona volontà e ben disposti verso la vita, e che nella sua dedica si esprime con la mia inclusione in questa società spirituale (B. Croce, Th. Mann, Lettere 1930-36. Con una scelta di scritti crociani su Mann e sulla Germania, 1991, p. 6).
Su un diverso piano si colloca, tuttavia, l’appunto di lettura preso da Mann alcuni anni dopo, nel giugno del 1935, a bordo della nave Lafayette, in rotta per l’America:
L’Europa nel XIX secolo di Croce non è un libro trascinante. Mi interessa di più Der mißbrauchte Mensch di P.A. Robert, il cui capitolo su Nietzsche mi ha catturato (Tagebücher 1935-1936, hrsg. P. de Mendelssohn, 2003, p. 119).
Nell’analisi del rapporto fra Croce e Mann vanno considerate anche le vicendevoli posizioni su un autore per entrambi importante (per Mann, in verità, importantissimo) come Johann Wolfgang von Goethe. Nello stesso anno delle Pagine sulla guerra, Croce pubblicava anche la sua monografia sul sommo poeta tedesco: rileggerne le opere nei «tristi giorni della guerra mondiale» gli aveva procurato una sensazione di «lenimento e rasserenamento» (Goethe. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, 1919, p. VII). Ciò avveniva, evidentemente, anche perché l’interpretazione crociana di Goethe, volutamente in contrasto con coeve letture superomistiche, considerate dal filosofo napoletano come frutto di sensibilità patologica, mette al centro la dimensione «borghese» e armonica:
Vero è che una certa letteratura di moda, vaga del colossale, del misterioso, e più ancora dell’egotistico e del voluttuario, ha preso a raccomandare l’imitatio Gœthii, descrivendo il proprio modello come un essere sovrumano e disumano, collocato al di là dal bene e dal male, e si è compiaciuta in questa immagine, che rispecchia le proprie insanie. Ma la figura di Volfango Goethe è composta di virtù tranquilla, di seria bontà e giustizia, di saggezza, di equilibrio, di buon senso, di sanità, e, insomma, di tutto ciò che si suole irridere come ‘borghese’. L’arte di sottrarsi ai modesti doveri, e di assottigliarsi e trasumanarsi, o di sensualizzarsi e imbestiarsi, si potrà apprendere da altri maestri, ma non certo da lui. Fu profondo ma non ‘abissale’, come ora si bramerebbe considerarlo; geniale, ma non diabolico (Goethe, cit., p. 2).
Per motivi analoghi Croce polemizzava anche contro il recente (1917) volume su Goethe di Gundolf (Friedrich Gundelfinger), che al sommo poeta avrebbe guardato come a un «animale poderoso e mirando», un «animale sacro». Di contro, Croce affermava che
noi abbiamo bisogno di ritrovare ormai questa umanità, questa umiltà, nei grandi di tutti i tempi (in Goethe come in Leonardo, in Michelangelo, in Shakespeare, e via dicendo), che il decadentismo estetizzante e naturalistico dell’ultimo quarantennio si è compiaciuto nel venire ritraendo con tratti mostruosi e con colori morbosi (p. 142).
L’interpretazione goethiana di Mann sta, però, su di una sponda opposta a quella di Croce. Beninteso, anche per Mann Goethe è «borghese», anzi, addirittura «il rappresentante dell’età borghese», considerata sul lungo periodo di un mezzo millennio (già questa considerazione sposta però la borghesità di Goethe sul piano della straordinarietà e dell’extraquotidianità). Di Goethe, tuttavia, Mann è sempre incline a mettere in primo piano un elemento per Croce repulsivo, ovvero la grandezza della personalità, considerata come un elemento inspiegabile e indefinibile, immerso in dimensioni tenebrose e demoniache. Nel celebre saggio su Goethe und Tolstoi (1921) Mann definisce Goethe – del tutto anticrocianamente – come un «figlio della natura» e «una grande natura». Si tratta di un tipo di lettura antitetica a quella di Croce. Non sorprende, quindi, che la lettera del marzo 1932 con cui il filosofo napoletano ringraziava lo scrittore lubecchese dell’invio di questo scritto, ormai ampliato in volume, fosse critica e distanziante: «Perché cacciarsi en cette galère?» (Lettere 1930-36, cit., p. 13).
Se gli anni intorno alla Prima guerra mondiale, testimoniati dalle Pagine sulla guerra, segnano il culmine della vicinanza di Croce alla Germania, in seguito, dagli anni Venti sino alla fine della Seconda guerra mondiale e alla «catastrofe tedesca» (usando l’espressione di Friedrich Meinecke), che porterà a una nuova trasformazione, stavolta però nel contesto della «guerra fredda», la posizione del filosofo napoletano sarà quella di un graduale e sempre più profondo distacco. I motivi di ciò vanno ricercati nel rapido peggioramento soprattutto dell’atmosfera spirituale europea negli anni fra le due guerre e nell’epoca delle dittature totalitarie di massa; un peggioramento la cui responsabilità Croce andò sempre più attribuendo al ruolo negativo della Germania. Testimonianze fondamentali di questa trasformazione del rapporto di Croce con la Germania – che andò di pari passo non solo con una sempre più cupa interpretazione delle condizioni spirituali d’Europa, ma anche con una profonda e dolorosa revisione del suo sistema filosofico (dall’idealismo allo storicismo; dalla razionalità alla drammaticità della storia) – sono la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e la già citata Storia d’Europa, cioè i due ultimi volumi di quella tetralogia storica la cui composizione, nei primi dieci anni della dittatura fascista in Italia, fu per Croce una necessità impellente. Già nella Storia d’Italia si trova un compatto modello interpretativo della crisi e del tramonto d’Europa, dove il ruolo negativo e malato della Germania sbocca nella patologia dello spirito:
Ma la coscienza morale d’Europa era ammalata da quando, caduta prima l’antica fede religiosa, caduta più tardi quella razionalistica e illuministica, non caduta ma combattuta e contrastata l’ultima e più matura religione, quella storica e liberale, il bismarckismo e l’industrialismo e le loro ripercussioni e antinomie interne, incapaci di comporsi in una nuova e rasserenante religione, avevano foggiato un torbido stato d’animo, tra avidità di godimenti, spirito di avventure e conquiste, frenetica smania di potenza, irrequietezza e insieme disaffezione e indifferenza, com’è proprio di chi vive fuori centro, fuori di quel centro che è per l’uomo la coscienza etica e religiosa. Anche nella semplice e sennata Italia, aliena da fanatismi di ogni sorta, coteste disposizioni d’animo si erano fatte strada ed erano affiorate nella letteratura del D’Annunzio, che, così nella sua prima maniera, quella di Andrea Sperelli, come nella seconda, quella del re di Roma o della Gloria, plasmò molte anime giovanili, trovando alla sua virtù materia docile; e ora si diffondevano e rafforzavano col crescere e fiorire, anche qui, della civiltà industriale (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 2004, pp. 237-38).
Germanesimo e decadentismo incorporano così, secondo Croce, le due forze disgregratrici della civiltà europea in crisi. Gabriele D’Annunzio nell’arte e Otto von Bismarck in politica rappresentano due esempi particolarmente rilevanti di un processo unilaterale di naturalizzazione e di corporeizzazione dello spirito. Già il giovane D’Annunzio appare al filosofo napoletano come il portatore, nella letteratura italiana, «di una nota, fin allora, estranea, sensualistica, ferina, decadente», da subito preannunziante «l’eroe voluttuario Andrea Sperelli» (pp. 107-08). Questa ferinità – per Friedrich Wilhelm Nietzsche e Spengler l’uomo era un «animale da preda» – si manifesta come naturalizzazione e corporeizzazione dello spirito, come bestializzazione (in quanto desiderio rovesciato e falsa ricerca delle radici dell’esistenza). Va nella stessa direzione l’interpretazione che, nella Storia d’Europa, Croce dà della celebre formula bismarckiana secondo cui, dopo la fondazione del Reich, la Germania sarebbe ormai una potenza «satura». Bismarck aveva coniato la formula per tranquillizzare le altre potenze europeee dinanzi allo spettro delle mire egemoniche della Germania. Ma già nella terminologia Croce ravvisava il pericolo, perché affermare che la Germania fosse «saturata e sazia» equivaleva in realtà a dichiarare, attraverso l’infelice ma rivelatrice scelta delle parole, la via naturalistica da essa imboccata. E Croce si chiede infatti cosa sarebbe avvenuto della pace europea nel momento in cui, «digerito il primo grosso pasto», una «nuova fame» e una «nuova brama di cibo» avessero agitato il «corpo possente» della Germania (Storia d’Europa, cit., p. 406).
Nella Storia d’Europa, Croce torna continuamente a scrutare questa patologia dello spirito come corporeizzazione della politica, in modo particolare nell’8° capitolo, “L’unificazione della potenza germanica e il cangiamento dello spirito pubblico europeo”. Qui il processo di formazione dell’Impero tedesco non viene presentato come culmine di un movimento nazionale, secondo quanto avvenuto, per es., in Italia, ma, per l’appunto, come allestimento e unificazione di una potenza, collocata come puro principio di forza al centro del continente europeo. Con il che collimava perfettamente il fatto che l’artefice di siffatta unificazione, Bismarck – a differenza di Camillo Benso, conte di Cavour, «genio esclusivamente politico» e «incurante d’ideali» –, fosse, come suonavano talune definizioni celebrative, «duro realista», «uomo della realtà», «uomo della volontà», «dominatore» e «titanico», oltre che «volentieri motteggiattore e beffardo come chi sta e vuol sempre stare sul pratico, con la piega del disprezzo e dello scherno sul labbro come chi maneggia gli argomenti della forza» (p. 302). Bismarck, insomma, «faceva politica e nient’altro che politica», così come Helmuth Johann von Moltke «faceva guerra e nient’altro che guerra» (p. 305). E poiché alla politica bismarckiana arridevano successi e trionfi, ne conseguiva, in Europa, un cambiamento dello spirito pubblico e della mentalità, destinato a manifestarsi nei dubbi circa «la religione di umanità che anima e conduce la storia» e nei tentennamenti dell’idea di libertà, ai quali si opponeva la centralità di concetti quali l’«istinto vitale», la «volontà di potenza», la «forza» (pp. 311-12).
Già nella Storia d’Italia e nella Storia d’Europa, entrambe pubblicate prima della conquista del potere da parte del nazionalsocialismo, il nuovo modello crociano di interpretazione della storia tedesca si mostra come completamente sviluppato. Il rapporto di Croce con la Germania è entrato in una nuova fase, e le Pagine sulla guerra appaiono come il lontano ricordo di un passato quasi dimenticato.
Negli anni seguenti, l’irruzione del regime nazista rafforzava e inaspriva ulteriormente questo quadro. L’ultima sezione del breve ma significativo volumetto Orientamenti. Piccoli saggi di filosofia politica (1934), pubblicato eccezionalmente non presso Laterza, bensì dai milanesi Gilardi e Noto, è dedicata polemicamente a «due recenti pensatori politici della Germania», cioè a Spengler e al filosofo lipsiense Ernst Bergmann, ormai convertitosi al nazionalsocialismo: l’uno araldo dell’«animale da preda», l’altro annunciatore dell’«animale-popolo»; entrambi discussi, o meglio liquidati e ridicolizzati («imbecillimenti filosofici») per mostrare a quale bassezza naturalistica fosse precipitato il pensiero tedesco, un tempo pur innalzatosi ai vertici della filosofia idealistica.
Due anni dopo Croce pubblica La Germania che abbiamo amata, lo scritto dal titolo fortemente evocativo già rapidamente richiamato all’inizio. In pagine decise ma tutto sommato ancora pacate, Croce vi polemizza contro i «germanomani e razzisti», ormai dimentichi del carattere universale e cosmopolitico della grande cultura germanica fiorita tra il 1780 e il 1830. Le cui opere non potrebbero, dunque, essere considerate come possesso esclusivo dei tedeschi, bensì, al contrario, come patrimonio comune a tutti i popoli, tanto che «sono nostre non meno che loro», e, anzi, «forse oggi sono più nostre che loro». Peraltro – aggiunge Croce – anche quell’«epoca fulgidissima» trascorse e passò, «come l’Ellade di Pericle, l’Italia del Rinascimento, la Francia di Luigi XIV»: straordinari ma rari periodi della storia universale, considerato che «sforzi come questi onde viene al mondo una fioritura di uomini di genio, la storia umana li fa solo a distanza di secoli o di millenni». Per cui, da allora, la Germania si era dovuta accontentare o di filosofie non originali come la teoria dei valori (pur sempre la «meno inelegante»), oppure di figure come quella di Nietzsche, talvolta sì «splendido scrittore», ma, più che altro, «un’anima agitata», «sintomo dell’irrequietezza dei tempi e non creatore di nuovi princìpi direttivi» (La Germania che abbiamo amata, «La Critica», 1936, 34, pp. 461-66). Fenomeni, tuttavia, pur sempre dignitosi, soprattutto se paragonati a ciò che avrebbe riservato il futuro.
Come facilmente intuibile, gli anni della Seconda guerra mondiale acuirono ulteriormente il processo. Nel 1944 Croce pubblica il già citato volumetto dal titolo italiano estremamente caratteristico: Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa (il titolo della traduzione tedesca, apparsa però due anni più tardi, nel 1946, e quindi in una congiuntura internazionale ormai completamente mutata, è alquanto indebolito: Europa und Deutschland. Bekenntnisse und Betrachtungen), dove sono raccolti alcuni scritti dedicati al problema tedesco, tra cui, di nuovo, La Germania che abbiamo amata. L’unico saggio inedito è anche il più lungo: le Confessioni di un italiano «germanofilo». Qui Croce propone anche un’interpretazione della differenza tra nazionalsocialismo e fascismo, che sarebbe «intima e profonda», poiché «il primo era una crisi terribile che covava nella secolare storia tedesca», mentre il secondo andrebbe invece considerato come «una superfetazione estranea alla secolare storia italiana e ripugnante a quella stessa recente e gloriosa dell’Italia dell’Ottocento». Dal che deriverebbero l’aspetto «diabolico e tragico» dell’uno e quello «carnevalesco» dell’altro (Il dissidio spirituale, cit., p. 15). Le Confessioni sono uno scritto severissimo verso la Germania, molto più della Germania che abbiamo amata (per spiegarsene le ragioni basta riportare alla mente le loro date: 1936 per l’uno, 1944 per l’altro). Le parole in assoluto più dure sui tedeschi stanno però in altri due scritti della raccolta. Nella lapide dettata da Croce in memoria dei martiri di Caiazzo (ventitré contadini meridionali trucidati per rappresaglia dalle truppe germaniche) i tedeschi vengono definiti come «l’atroce presente nemico dell’umanità». Va poi segnalata l’espressione utilizzata da Croce nel contributo su I doveri e il dovere, che è quello scritto con l’incendio delle carte già custodite nel grande Archivio di Napoli «sul cuore». Lo stato d’animo di Croce alla notizia dell’incendio dei più preziosi documenti dell’Archivio partenopeo è espresso in un celebre appunto del 14 ottobre 1943:
Ho scritto l’articolo sul ‘fascismo come pericolo mondiale’ per il «New York Times». Ma sono caduto in una tristezza mortale per l’orrenda notizia che i tedeschi hanno incendiato, inondandolo di benzina, il castello di San Paolo Belsito, dove l’Archivio di Stato di Napoli, per precauzione contro i bombardamenti, aveva trasportato tutta la parte antica e preziosa dei suoi depositi, le pergamene, i registri angioini, la cancelleria aragonese, le carte farnesiane, i processi della Sommaria, i fuochi o censimenti, ecc.: tutte carte sulle quali ho lavorato in passato anch’io e dalle quali ho tratto alcuni miei libri; tutti i documenti della storia del regno di Napoli. Sono con l’animo di chi ha visto morire la persona più cara, ma con la mente di chi misura l’immensità della perdita per la nostra tradizione e scienza storica. E non c’è rimedio, e non c’è vendetta che possa soddisfare; e intanto siamo appena ai principii della distruzione sistematica che questa gente dal cuore barbarico e dal cervello pedantesco si è proposta di eseguire dell’Italia, non solo nella sua potenza industriale ed economica ma nel suo valore ideale di maestra di storia e di arte (Taccuini di lavoro IV. 1937-1943, 1987, pp. 459-60).
Ed è, quindi, nello scritto I doveri e il dovere, che è il contributo dove il filosofo torna per così dire anche programmaticamente su questo episodio, proponendone una interpretazione teorica, che si incontra la parola più terribile mai pronunciata da Croce sulla Germania e i tedeschi: «disumanità» (Il dissidio spirituale, cit., p. 58).
Infine, nel 1945 Croce pubblicava il breve saggio L’umanità e la natura. Molto spesso attaccato e talvolta sinanche diffamato – così, per es., da un difficile allievo di Croce, l’etnologo napoletano Ernesto De Martino, che in esso volle vedervi riflesso, «in tutta la sua spietata crudezza, l’animo borghese verso i popoli coloniali» (E. De Martino, Promesse e minacce dell’etnologia, in Id., Furore simbolo valore, 1962, 20023, pp. 87-88) – il piccolo contributo illustra in realtà la summa di un pensiero costretto a fare i conti con la patologia dello spirito, ovvero con le tendenze di naturalizzazione che hanno percorso il Novecento. Ed è estremamente significativo che questo saggio, cui Croce affida il difficile compito di analizzare la dialettica fra natura e cultura, con la tragica persistenza della natura nell’uomo e nelle comunità umane, culmini in un severo giudizio etico-politico sul destino della Germania nel 20° secolo. Perché se vi sono popoli che «si ostinano a non entrare nella storia», per il qual motivo essi a giusta ragione vengono chiamati «primitivi» e «popoli di natura», vi sono anche popoli che hanno percorso il tragitto inverso, ovverosia popoli che con le loro qualità e le loro conquiste hanno arricchito in modo decisivo sia la civiltà sia la storia, ma che poi, negando irrazionalisticamente entrambe, si sono di nuovo volti al mondo della natura:
E talvolta (e doveva toccarne ai nostri tempi l’inattesa esperienza) popoli civili si rimbarbariscono, si rinselvatichiscono, si animalizzano o ridiventano bestie feroci; e questa sorte è minacciata all’umanità tutta da odierni filosofanti tedeschi, alcuni dei quali pongono, contro l’ideale dello “spirito”, quello della “vita” o dell’“anima”, cioè dell’animalità, che dovrebbe riaccoglierla nel suo grembo materno (L’umanità e la natura, poi in Filosofia e storiografia, 2005, pp. 234-36).
Questa è davvero la Germania che non si può più amare, sinistra antesignana di quel nuovo mondo antiumano contro il quale Croce combatté la sua difficile battaglia. Una battaglia che fu tanto più difficile quanto più imponeva vigilanza e orientamenti in un paesaggio spirituale in caotica e impetuosa trasformazione. Ma gli orientamenti dovettero anche essere ri-orientamenti, nel senso di quelle autocorrezioni e di quegli autosuperamenti di cui Croce e Mann discussero nelle loro lettere. Anche perché le linee divisorie fra la Germania che si era amata e quella che non si poteva più amare non sempre erano coincise con quelle fra la Germania ‘buona’ e la Germania ‘cattiva’. Era per l’insieme di questi motivi e di queste aspre difficoltà che, in una lettera del 1932, Croce definì se stesso e il suo amico tedesco, Vossler, come «sentinelle sperdute».
D. Coli, Il filosofo, i libri, gli editori. Croce, Laterza e la cultura europea, Napoli 2002.
K.E. Lönne, Benedetto Croce. Vermittler zwischen deutschem und italienischem Geistesleben, Tübingen-Basel 2002.
D. Conte, Storia universale e patologia dello spirito. Saggio su Croce, Bologna 2005, pp. 141-236.
F. Tessitore, La ricerca dello storicismo. Studi su Benedetto Croce, Bologna 2012, pp. 447-555.
D. Conte, Primitivismo e umanesimo notturno. Saggi su Thomas Mann, Napoli 2013.
Benedetto Croce e la cultura tedesca, a cura di G. Furnari Luvarà, S. Di Bella, Firenze 2013.