La geometria dei problemi
Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel V secolo a.C., la geometria si afferma sulle altre matematiche per la sua capacità di trattare i rapporti tra le grandezze incommensurabili. Non è ancora la geometria di Euclide, quella organizzata secondo il modello assiomatico-deduttivo: essa piuttosto indaga di volta in volta le condizioni in base alle quali sia possibile risolvere un dato problema o dimostrare una certa proposizione, riconducendoli a un problema già risolto o a una proposizione già dimostrata o, comunque, più facili da studiare.
A proposito della scoperta dell’irrazionale si è parlato spesso di una crisi dei fondamenti della matematica antica, paragonabile alla crisi provocata dalla scoperta delle geometrie non euclidee. Certamente le fonti più tarde hanno contribuito a drammatizzare il fatto: i pitagorici avrebbero cacciato dalla comunità Ippaso e gli avrebbero costruito un sepolcro, per aver divulgato all’esterno la natura della commensurabilità e dell’incommensurabilità; la divinità stessa si sarebbe adirata con chi aveva svelato ad altri l’irrazionale, facendolo morire da empio in mare.
Sicuramente l’esistenza di grandezze fra loro incommensurabili costituisce un vero e proprio scandalo agli occhi dei pitagorici, che in questo modo vedono messa radicalmente in discussione la concezione fondamentale che tutto sia numero. Tuttavia è significativo che Platone e Aristotele non ne parlino mai in questo senso negativo. Anzi, Aristotele nota che le discipline matematiche nascono dalla meraviglia, così come ogni altra forma di conoscenza: come esempio porta proprio la meraviglia per il fatto che la diagonale del quadrato è incommensurabile con il lato (Metafisica, I, 2). In effetti, la scoperta dell’irrazionale conduce alla rottura dell’unità di aritmetica e geometria: al tempo stesso, però, apre alla ricerca di nuove vie da percorrere. In questa prospettiva, la geometria si rivela come lo strumento più adeguato per affrontare la sfida dell’irrazionale: essa viene dunque ad acquistare un ruolo preminente rispetto all’aritmetica e si colloca al centro di una profonda riflessione sul loro linguaggio e i loro metodi. Come afferma Filolao, un pitagorico vissuto nel tardo V secolo a.C., la geometria è insomma principio e madrepatria delle altre discipline matematiche (fr. A 7 a Diels-Kranz).
Subito dopo Pitagora, Eudemo colloca insieme le figure di Anassagora di Clazomene ed Enopide di Chio, rimarcando che Platone li ricorda nei Rivali per la fama acquisita negli studi di matematica. Il dialogo è fra quelli ritenuti non autentici, ma il giudizio conserva intatto tutto il suo valore. Quanto ad Anassagora, abbiamo solo indicazioni frammentarie: esse comunque ci restituiscono il suo interesse per il problema della quadratura del cerchio, per la questione dell’infinita divisibilità e per quel metodo di esaustione che più tardi Eudosso formalizzerà. Il nome di Enopide di Chio, poco più giovane di Anassagora, è legato a due problemi formulati da Euclide nel I libro dei suoi Elementi: condurre la perpendicolare a una retta da un punto a essa esterno (Prop. XII); costruire su una retta data, con un vertice in un punto di essa, un angolo rettilineo uguale a un angolo rettilineo dato (prop. XIII).
Gli storici si sono più volte interrogati sull’effettivo valore di Enopide, rimarcando come le due costruzioni attribuitegli siano estremamente semplici. Questo però non diminuisce la sua fama. I due problemi si riferiscono infatti all’intersezione di cerchio e retta e di cerchio e cerchio, questioni assenti dalla geometria dei pitagorici: affrontandoli, Enopide è il primo a studiare sistematicamente le proprietà delle figure circolari, che costituiranno l’oggetto del terzo libro degli Elementi euclidei. In questo senso è assai importante un’osservazione di Proclo, secondo cui egli designa la perpendicolare con l’antica denominazione “secondo lo gnomone”, dal momento che anche lo gnomone forma angoli retti con l’orizzonte: si coglie bene qui lo sforzo di Enopide per definire un linguaggio preciso in un ambito nuovo di ricerca.
Quali celebri geometri del periodo, Eudemo menziona ancora Ippocrate di Chio e Teodoro di Cirene. A proposito di quest’ultimo, abbiamo già avuto modo di ricordare come Platone nel Teeteto presenti le sue ricerche sugli irrazionali in connessione alle aree dei quadrati. In particolare, egli procede nella sua dimostrazione a partire dai quadrati di area 3 e 5 e passando a quelli successivi sino a fermarsi al quadrato di area 17. Non sappiamo nulla di più preciso sul metodo adottato e sul motivo per cui si fermi proprio alla radice di 17. È chiaro però che si tratta di un primo faticoso passo nella direzione di una teoria delle grandezze incommensurabili.
Nello sforzo di dare una struttura sistematica alla geometria, un ruolo decisivo è svolto da Ippocrate di Chio, più giovane di Enopide di una generazione. Secondo Eudemo è il primo a comporre un libro intitolato Elementi. Si è messo in dubbio che il titolo originario sia proprio questo: se pure posteriore, è evidente che per gli antichi c’è un unico filo rosso che dal trattato di Ippocrate arriva a quello di Euclide, passando attraverso gli Elementi di Leone (contemporaneo di Platone) e di Teudio (contemporaneo di Aristotele). Questo filo lo troviamo espresso nella definizione di Aristotele, secondo cui in geometria gli elementi (stoicheia) sono quelle proposizioni le cui dimostrazioni si trovano in tutte o nella maggior parte delle dimostrazioni delle altre proposizioni (Metafisica, III, 3).
Non abbiamo informazioni precise sul contenuto e sulla struttura degli Elementi di Ippocrate, possiamo tuttavia farcene un’idea attraverso l’ampio commento di Simplicio a un passo della Fisica (I 2), in cui Aristotele critica chi ritiene possibile quadrare il cerchio attraverso la quadratura delle lunule, cioè di quelle figure delimitate da due archi di cerchio di raggio diverso (in Fisica, p. 60 sgg.).
Sull’autorità di Eudemo, Simplicio riporta quattro soluzioni avanzate da Ipparco: qui sarà sufficiente soffermarsi sulla prima.
Come punto di partenza per le quadrature, egli assume il teorema secondo cui segmenti simili di cerchio stanno nello stesso rapporto dei quadrati costruiti sulle loro basi (1). Prova questo teorema dimostrando, tramite la reductio ad absurdum, che il rapporto tra le aree di due cerchi è uguale a quello tra i quadrati costruiti sui diametri (2). Da qui, passa a descrivere la lunula che ha l’arco esterno uguale a un semicerchio ABC, circoscritto al triangolo isoscele ACB.
Sull’ipotenusa di questo traccia un segmento di cerchio simile a quelli tagliati fuori dai cateti. Per il teorema di Pitagora applicato ai segmenti circolari, si ha che il segmento sull’ipotenusa è uguale alla somma di quelli sui cateti. Da qui segue che la differenza tra il semicerchio AC e il segmento ADCE è uguale al triangolo ABC. La lunula ABCD è quindi esattamente uguale al triangolo ABC; ma il triangolo ABC è uguale al quadrato costruito sulla metà di AC, e dunque si è ottenuta così la quadratura della lunula.
La seconda prova riguarda una lunula il cui arco esterno è più grande di un semicerchio e la dimostrazione si basa su un trapezio inscritto in un cerchio.
La terza concerne il caso di una lunula con l’arco esterno minore di una semicirconferenza; la quarta affronta la quadratura di una lunula e insieme di un cerchio.
Ippocrate procede dunque enunciando in primo luogo il problema e assumendo di seguito il teorema (1) come principio sul quale costruire tutta la dimostrazione; poi spiega questo principio con la proposizione (2). Successivamente sulla base di (1) distingue i quattro casi e li risolve. È chiaro l’impegno di Ippocrate a dare una dimostrazione rigorosa secondo un ordine preciso, ma è chiaro anche che quest’ordine è inverso rispetto a quello euclideo. Inoltre, il teorema (1) svolge il ruolo di principio in relazione al problema specifico e non certo come fondamento di tutta la geometria. Simplicio riferisce, poi, di aver opportunamente integrato con riferimenti a Euclide il testo di Eudemo, che espone le dimostrazioni secondo l’uso antico in maniera concisa: questo fa pensare che lo stesso Ippocrate dovesse far uso di una serie di proposizioni (per esempio, per rimanere al caso delle lunule, un criterio di uguaglianza dei triangoli o il teorema di Pitagora), presupposte come note senza ulteriore dimostrazione.
Il metodo di Ippocrate si presenta, dunque, come un procedimento analitico-riduttivo: esso richiede che siano distinti i casi specifici di un problema e ne vengano indicate le condizioni di risolubilità; inoltre, comporta che un problema o una proposizione da dimostrare siano ricondotti a un problema o a una proposizione già noti. Probabilmente Ipparco non crede davvero che sia possibile quadrare il cerchio tramite la quadratura delle lunule, come invece gli attribuisce Aristotele. Di sicuro, però, affronta per questa via il difficile problema della duplicazione del cubo, conosciuto anche come problema dell’altare di Delo. Il problema è legato a quello del raddoppio del quadrato, ma la tradizione lo fa risalire per l’appunto all’oracolo di Apollo a Delo. Interrogato su come far cessare una grave pestilenza scoppiata proprio a Delo, egli risponde che il dio esige un nuovo altare, sempre di forma cubica come il precedente, ma di volume doppio. Gli abitanti costruiscono il nuovo altare, raddoppiando il lato del vecchio.
La peste continua a imperversare: in quel modo infatti il volume dell’altare è diventato otto volte più grande, non due. Fra le tante soluzioni proposte, quella di Ippocrate procede per l’appunto nel senso di ricondurre il problema a quello più semplice di trovare due termini medi proporzionali tra due grandezze date.
Sebbene Aristotele consideri errata la soluzione data da Ipparco al problema della quadratura del cerchio, egli ritiene che appartenga pur sempre all’ambito della geometria. Al contrario, nello stesso passo della Fisica critica la soluzione di Antifonte per essere partito da principi che non sono quelli della geometria. Sempre Simplicio spiega che Antifonte muove dallo studio dell’area dei poligoni regolari inscritti, scoprendo che con il crescere dei lati la loro area si avvicina sempre più a quella del cerchio come si vede nella figura seguente (in Fisica, p. 54 sgg.).
Forse egli doveva limitarsi a osservare che, accrescendo indefinitamente il numero dei lati, il poligono si approssima al cerchio, senza concludere che coinciderebbe con esso, come invece gli attribuiscono i suoi critici. Comunque sia, è da notare che il suo procedimento non è il procedimento di un erista, come dice Aristotele, ma ha le caratteristiche di quello che Eudosso formalizzerà come metodo di esaustione. Sulla scia di Antifonte, Brisone prende in considerazione per la quadratura anche il caso delle figure circoscritte: si trova qui l’intuizione che condurrà più tardi a scoprire che il cerchio è l’elemento che separa la classe dei poligoni inscritti da quella dei poligoni circoscritti.
Antifonte e Brisone sono due sofisti attivi ad Atene tra il V e il IV secolo a.C.
A un altro di costoro, Ippia di Elide è legata la soluzione di un ulteriore problema: la trisezione dell’angolo. Il risultato si consegue tramite una curva, detta appunto trisettrice, che non si ottiene attraverso riga e compasso ma in modo meccanico, mediante la combinazione di un moto circolare con uno rettilineo.
Dato il quadrato ABCD si fa traslare in modo uniforme il lato AB fino a coincidere con il lato CD. Nello stesso tempo si fa ruotare uniformemente in senso orario il lato AD fino a coincidere con il lato CD. Il luogo geometrico dei punti di intersezione dei due segmenti durante il loro movimento è la trisettrice AQ. Se PDC è l’angolo da trisecare, si procede come segue: si traccia da P la parallela al lato DC, individuando così il segmento A’D; si divide il segmento in tre parti uguali, nei punti T e U; si tracciano le parallele al lato DC per i punti T e U, individuando i punti V e W sulla trisettrice. I segmenti DV e DW dividono l’angolo in tre parti uguali. Oltre la proprietà di dividere l’angolo, la trisettrice ha anche quella di rettificare l’arco AC e dunque di quadrare il cerchio, scoperta che la tradizione attribuisce a Dinostrato, allievo di Eudosso.
Fra la seconda metà del V secolo a.C. e la prima del IV la geometria dunque acquista un ruolo preminente nell’ambito delle matematiche. È una geometria incentrata sui problemi: problemi semplici, come tracciare la perpendicolare rispetto a una retta data o costruire un angolo retto uguale a un angolo dato, partendo da un punto su una retta data; problemi più complessi, destinati a rimanere al centro dell’attenzione dei matematici anche nei secoli successivi, ossia la quadratura del cerchio, la trisezione dell’angolo, la duplicazione del cubo. La via dei problemi favorisce, da una parte, un rapido sviluppo alla ricerca di soluzioni e dimostrazioni sempre più raffinate, anche attraverso l’impiego di procedure che vanno oltre l’uso di riga e compasso. Tuttavia porta pure dentro di sé un’intrinseca debolezza, dal momento che fissa di volta in volta i principi da cui partire e segue percorsi che non sono univoci né immutabili. Si pone così l’esigenza di riflettere sulle procedure e sui risultati conseguiti, per trovare quello che Eudemo definisce come un ordinamento più scientifico. È con questa esigenza che si misura Platone.